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Il grande inquisitore

di Alessandro Leogrande

Le sorti della politica italiana sembrano passare attraverso la figura del Grande Inquisitore, l’inquietante personaggio dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. L’anno scorso la casa editrice Salani aveva riproposto autonomamente il testo della nota “leggenda” (Il grande inquisitore, appunto), estrapolandolo dal romanzo fluviale, e aggiungendovi un intervento di Gherardo Colombo, Il peso della libertà. L’anno prima era stato Gustavo Zagrebelsky a dedicarvi un suo saggio. Ora, per Laterza, esce un libro di Franco Cassano,
L’umiltà del male, che parte proprio da lì, dall’enigma posto dal discorso del Grande Inquisitore. Ma Cassano rovescia subito il piano della riflessione. Smonta la distinzione manichea tra bene e male.

Nei Karamazov, a raccontare la leggenda del Grande Inquisitore al fratello Alioscia è Ivan. Nella Siviglia del Cinquecento, narra, l’Inquisitore fa arrestare Cristo, appena tornato sulla terra, e si reca a far visita al prigioniero. In realtà, il suo è un lungo monologo, rinfaccia al Nazareno che la sua perfezione non è in grado di cogliere la debolezza dell’animo umano. Il suo rigore è per i santi, non per l’imperfezione del mondo. Il potere temporale, al contrario, è divenuto tale proprio perché ha permesso a tutti di peccare.

L’interpretazione classica della storia dostoevskiana attribuisce al Grande Inquisitore il ruolo del male, a Cristo (che per tutto il capitolo rimane muto) evidentemente quello del bene.

Ma, dice Cassano, la figura dell’Inquisitore è molto più complessa. Molto più complessa è la critica della supremazia morale, che si traduce quasi sempre in aristocraticismo. Molto più complesso è il riconoscimento (storico, non solo morale) della umana imperfezione, del bisogno di autorità, delle debolezze. Ma come capire, senza essere accondiscendente? Questa riflessione ha un’evidente ricaduta politica, specie se si considera che la politica ha a che fare con la maggioranza. Compito di una politica orientata all’emancipazione di tutti è spezzare il legame tra le maggioranze e l’Inquisitore, senza disconoscere la fragilità umana.

Cassano ricava da I sommersi e i salvati di Primo Levi la nozione di “zona grigia”. L’unica obiezione che gli si può muovere è che l’analisi della zona grigia che fa lo scrittore torinese non è immediatamente estendibile al contesto della democrazia. Una differenza decisiva tra democrazia e totalitarismo (specie nella sua variante assoluta del lager) esiste. Così come esiste una differenza decisiva tra la zona grigia di un campo di concentramento (racchiusa nella figura paradossale del kapò che si fa aguzzino) e, per estensione, la zona grigia di una società complessa, almeno formalmente aperta. Questa è piuttosto costituita dalla somma delle sue maggioranze silenziose.

Tuttavia Cassano dice qualcosa di molto concreto, e che si riferisce all’Italia di oggi, quando scrive: “Uno dei rischi più gravi oggi è quello di rifugiarsi in una sorta di repulsione antropologica nei riguardi delle plebi dominate dal consumismo, sulle quali l’egemonia non ce l’hanno più i sermoni dei chierici, ma la seduzione pianificata dei piazzisti.”

Ecco, il rischio maggiore è non capire il bisogno di protezione e l’ossessione della sicurezza che nascono in una società avanzata, per certi versi post-industriale, attraversata dalla crisi. Perché è su quel bisogno che s’instaurano le maggioranze. Bisogna saper decostruire i meccanismi: capire non solo quelle paure, ma anche il desiderio di evasione che spesso suscitano, il potere dell’immaginario. Se si rifiuta questo piano della discussione, si lascia immediatamente spazio alla vittoria della risposta più facile, che si fonda sull’esacerbazione delle debolezze. E qui, per usare la metafora dostoevskiana, si rischia di far vincere il Grande Inquisitore.

Il paradosso, per chi vuole operare per l’emancipazione dei più, è quello di rifugiarsi in una sorta di narcisismo etico. Proprio chi vuol evitare che molti cadano nel baratro, spesso finisce per bearsi della propria diversità, insistendo con la retorica delle minoranze pure e incontaminate. Ma, così facendo, ci si fa casta, proprio nel momento in cui ci si dovrebbe opporre alle vere Caste.

Si potrebbe dire che ogni riferimento agli attuali rivolgimenti della sinistra italiana, per quanto il discorso si mantenga su un piano molto teorico (da Dostoevskij a Primo Levi, da Adorno a Horkheimer), è puramente voluto. Franco Cassano, che prima delle regionali pugliesi del 2010, fu il principale promotore di una raccolta di firme per ottenere – contro il volere dei vertici del Pd – le primarie che avrebbero poi sancito la ricandidatura di Nichi Vendola, è del progressismo italiano che sta parlando.

Sta indicando i rischi che corre la sinistra nostrana, quando ancora scrive: “Il pensiero dell’emancipazione non deve abbandonare la sua radicale contrapposizione al pensiero conservatore, ma deve saper rinunziare a quel malinteso senso di superiorità che gli impedisce di apprendere dal rapporto più lucido che spesso il suo avversario intrattiene con la realtà.”

Non sono giuste le risposte che il pensiero conservatore offre. Non sono condivisibili. Anzi, bisogna essere pronti a smascherare la rendita di potere che esse nascondono. Ma va riconosciuto anche che quel rapporto spesso si basa sulla capacità di interpretare le corde profonde della società. Le ansie, le paure. È un’autocritica dura, quella che fa Cassano. Un’autocritica di gruppo, di area. Questi non sono fendenti che provengono da un Giuliano Ferrara (cioè da chi sta dall’altra parte), o da un Panebianco, un Galli della Loggia (cioè da chi rivendica una posizione “terzista”). Qui a parlare è uno degli intellettuali più lucidi della recente primavera pugliese, il teorico del “pensiero meridiano”. Farsi umili, non lasciare la maggioranza dei “deboli” all’avversario. E l’avversario non sono semplicemente Bossi o Berlusconi, anche se sono stati grandi interpreti della “zona grigia” italiana. Andando indietro nel tempo, quell’avversario può essere forse l’Andreotti ritratto da Sorrentino… Ritornando al XXI secolo, il suo volto può essere forse intravisto nelle enormi concentrazioni di potere economico e nei mezzi di comunicazione di cui spesso dispongono. Non solo in Italia, ovviamente.

Ma come si fa allora a essere umili, a interpretare il bisogno di sicurezza, la paura della libertà (come scrisse a suo tempo Carlo Levi) o della troppa autonomia individuale, e allo stesso tempo lavorare per il cambiamento? Come si fa a non lasciare troppo spazio alla passività? È questa la domanda capitale che discende dal ragionamento di Cassano. Il dibattito è aperto.

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