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consecutiorerum

Fortuna e sfortuna dell’ideologia: una breve storia

Parte prima

di Roberto Finelli

198hgyd46gi9u1. Una nascita moderna nel tardo Illuminismo francese

Ideologia è un termine polivalente che nella storia della cultura moderna rimanda a una molteplicità di significati opposti al significato proprio dei termini greci antichi, come ιδεολογία e ιδιολωγέω (opinione del singolo, discorso privato). Sia che la si assumi come a) sinonimo di falsa coscienza sociale, o b) di sistema di idee non legate a un interesse per la verità e il confronto scientifico ma al prevalere di passioni e desideri, o c) invece come visione del mondo che dà senso alla vita e all’agire di gruppi e individui, ideologia è termine, nella modernità, sempre legato, a una dimensione di sapere e di agire collettivi e come tale è termine che appartiene sia alle scienze sociali, alla sociologia in primo luogo, che alla filosofia sociale e politica.

Ma proprio per la complessa varietà dei suoi significati ritengo che sia opportuno presentare un resumè della storia delle idee di questo termine, per poter svolgere, con maggiore adeguatezza, delle riflessioni sulla funzione e sulla costellazione attuale di senso che l’ideologia ricopre nel nostro presente.

Il termine ideologia è stato coniato per la prima volta, con un significato prettamente positivo, nell’Illuminismo francese. Destutt de Tracy pubblica nel 1801 Projet d’elèments d’idéologie e definisce l’ideologia come la scienza della formazione delle idee. Le idee, secondo un’ispirazione empiristica alla Locke, derivano dalle percezioni sensibili. La sensazione è il principio di ogni conoscenza, sia del mondo esterno che di ogni esperienza interiore. Per cui anche le forme più elevate del sapere derivano sempre dalle sensazioni. La ideologia è la scienza, “qui traite des idées ou perceptions, et de la faculté de penser ou percevoir” e “qui résulte de l’analyse des sensations”1.

In questo senso l’ideologia nasceva come una scienza esatta, proprio come le scienze naturali, perchè scomponeva il complesso nel semplice, ritrovandone il senso negli elementi più chiari e indiscutibili come le sensazioni. Esattamente secondo la definizione cartesiana del metodo della scienza come analisi e sintesi: divisione e scomposizione del complesso nel semplice, fino a giungere a elementi primi non ulteriormente divisibili, e ricomposizione sintetica attraverso relazioni obbligate e chiarite che vanno dal semplice al complesso. La base del pensiero, affermava De Tracy, in accordo con il suo sodale, naturalista e medico Cabanis, è fisiologica, corporea, materiale. Essa consiste nel sentire, nell’essere affetti da una rappresentazione (“Penser […] c’est donc sentir une sensation, ou tout simplement sentir2.

Le principali facoltà dell’essere umano, quella del giudicare, del ricordare, del desiderare derivano tutte da quella origine prima, dalle sensazioni rappresentative, collocate nei ricordi della memoria, nella connessione tra di loro operata dal giudizio, nella proiezione del desiderio e della volontà. Ed appunto la nuova scienza che deve analizzare questo mondo delle rappresentazioni, riflettendo sulla verità o meno del loro procedere, del loro metodo, a muovere da quelle più evidenti a quello più complesse è l’Ideologia, scienza delle idee, che, priva ormai di ogni riferimento al mondo astratto del platonismo e della sua rigida separazione tra corpo e mente, stringe insieme Logica, Grammatica e Morale, sulla base di un fondamento fisiologico.

Essa, sosteneva De Tracy, per tale origine nella fisiologia, è una scienza esatta, come le altre scienze naturali. Tanto da poter essere definita “una parte della zoologia”. Ma nello stesso tempo è scienza civile e politica, perchè implicando la conoscenza delle regole di combinazione delle rappresentazioni umane (Logica) e della loro espressione-comunicazione (Grammatica) e del loro porsi a base di azioni e desideri (Morale), si fa principio di una nuova enciclopedia delle scienze e di una nuova organizzazione della scuola e dell’educazione.

Secondo quanto scrive Foucault in Le parole e le cose, l’Ideologia, come nuova scienza naturale dell’uomo, “colloca l’intero sapere nello spazio delle rappresentazioni e, percorrendo questo spazio, essa formula la conoscenza delle leggi che l’organizzano. In un certo senso essa è il sapere di tutti i saperi”3. Essa è “la science unique”, come scriveva De Tracy, “la première de toutes dans l’ordre généalogique”. E proprio per sua tale rivendicazione di scienza totale, che stringeva insieme sapere naturale e sapere dell’uomo, corpo e mente ovvero fisiologia, conoscenza e morale essa giungeva a proporsi come il programma scientifico-pedagogico per eccellenza della nuova società uscita dalla Rivoluzione francese.

E’ infatti il gruppo degli Idéologues, che insieme a De Tracy frequentavano i salotti di Madame Helvetius e di Madame Condorcet (come V. Jacquemont, A. M. Ampère, P. Laromiguière, F.P.Main de Biran e molti altri), ad aver avuto una grande influenza sul progetto, nella Francia postrivoluzionaria, di una istruzione pubblica unitaria e nazionale, ispirata ad una cultura illuministica, religiosa e scientifico-empirica (anche attraverso l’istituzione dell’Ecoles normales e delle Ecoles centrales in tutto il paese). Partigiani moderati della Rivoluzione, gli Idéologues parteciparono ai dibattiti costituzionali sul futuro della Francia, fecero parte della seconda classe dell’Institut de France, fondato nel 1795, quella delle Scienze Morali e Politiche, e sopratutto sperarono di informare l’intera vita della nazione secondo quello spirito della scienza che aveva animato la cultura francese da Descartes fino ai grandi maestri dell’Illuminismo e dell’Encyclopédie, di cui essi si sentivano eredi e continuatori.

Ma la storia della fortuna del concetto di ideologia doveva mostrare ben presto ancor di più la sua intrinseca con le vicende della grande storia sociale e politica, visto che è proprio lo scontro degli Idéologues con Napoleone, divenuto Primo Console ed avviatosi verso la strada del cesarismo, a produrre il rovesciamento del significato di ideologia da un senso del tutto positivo a un senso del tutto negativo: a farlo cioè paradossalmente trascorrere dal senso di una critica materialistica e sensistica ad una tradizione di pensiero metafisico ed astratto dal corpo a rappresentare, essa medesima, un pensiero fallace e inconsistente, fatto di speculazioni fuori della realtà. Napoleone infatti, che inizialmente aveva aderito al movimento culturale degli Idéologues, frequentando il salone di Madame Helvetius a Auteil, facendosi membro dell’Institut de France, e promovendo la fondazione di un medesimo Istituto al Cairo durante la sua spedizione egiziana, dopo il 18 brumaio inaugura una politica di riavvicinamento alla chiesa e alla religione, di cui le prime vittime sono i suoi precedenti interlocutori. Chiude la classe “Scienze politiche e morali” dell’Institut de France, conduce a termine la pubblicazione della rivista Dècade philosophique, littéraire et politique, e inizia a denunciare gli Idéologues come pensatori solo astratti e metafisici, che propugnano idee vuote, perchè lontane dalla realtà. La loro pretesa di riformare l’organizzazione della vita sociale muove, secondo il futuro Imperatore, solo dalla tradizione dell’Illuminismo, cioè da idee concepite e configurate con la sola ragione, senza tener conto delle passioni che muovono il cuore e la vita di popoli: teorie astratte dunque che non hanno alcun effetto reale sulla prassi politica e materiale. “C’est à l’ideologie, à cette ténébreuse mètaphysique, qui en recherchant avec subtilité les causes premières, veut sur ses bases fonder la législation des peuples, au lieu d’approprier les lois à la connaissance du coœr humain et aux leçons de l’histoire, qu’il faut attribuer tous les malheurs”4. In base tale critica radicale, rivolta a pensatori che non comprendono i moventi profondi della storia, l’ideologia diviene così, per opera di Napoleone e della sua battaglia politica, sinonimo di metafisica: non pensiero che aveva le sue radici nel materialismo del corpo e della sua fisiologia, come aveva preteso il movimento degli Idéologues, bensì speculazione fatta di soli concetti e destinata perciò a produrre solo chimere e fantasticherie.

Nella Germania della prima metà dell’800 il significato prevalente del termine “ideologia” risente profondamente dell’accezione negativa impostagli dalla politica culturale di Napoleone, avviato ormai alla costruzione dell’Impero. Gli Ideologen erano anche qui definiti coloro che, dottrinari ed esaltati, costruivano chimere e finzioni, ma ben più che al movimento intellettuale promosso da Cabanis e da Destutt de Tracy e al loro programma teorico educativo, fondato sull’intreccio di fisiologia e filosofia, ci si rifaceva nell’uso del termine a coloro che volevano impostare la vita umana e sociale a partire dai diritti dell’uomo e del cittadino proclamati dalla Rivoluzione francese (portati paradossalmente in Germania proprio dalle armate francesi di Napoleone) e che intendevano riformare l’assetto costituzionale e sociale dei Principati tedeschi secondo l’ispirazione liberale di quei nuovi diritti. Gli Ideologen sono qui coloro che intendono muovere contro la tradizione del governo del Principe, che, con il suo autoritarismo illuminato e il suo potere che deriva da Dio, garantisce ai propri figli/sudditi, ordine (Ordnung), cioè sicurezza e difesa della vita, ma anche benessere materiale e spirituale (Wohlfahrt), provvedendo al loro bene e preservandoli dal male. Ideologen sono infatti tutti coloro che muovono dalla libertà del singolo, dalla sovranità e del governo del popolo, insomma dalla democrazia, e intendono far venir meno quella Ständegesellschaft, o società dei ceti, che era stata il fondamento, civile, economico e politico, della Germania del ‘600/’700. Per cui gli Ideologen nel mondo tedesco del primo Ottocento sono coloro che, parlando di nuova costituzione, di democrazia, di emancipazione degli ebrei, di unione politica fra più stati, vogliono astrattamente interrompere la continuità della cultura e della tradizione tedesca ponendola sotto l’usbergo dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Così il primo ministro prussiano O. Th. Von Manteuffel potrà dichiarare che i dibattiti sui diritti umani e su una nuova costituzione, come i vari tentativi per unificare la Germania su una base democratica, sono espressione di “ideologi tedeschi”, che, lontani dall’aver presenti le condizioni politiche di fatto: “non raggiungono mai qualcosa, in quanto si costruiscono precedentemente le loro idee e guardando solo ad esse, precipitano la loro testa contro il muro”5.

Non che manchino accezioni anche positive del termine, come accade con Goethe, quando si riferisce al primo apparire in un contesto storico-culturale dato di nuove idee che si svilupperanno nel tempo e che all’inizio non possono che sembrare altro che fantasie (“Ogni nuova idea compare all’inizio come un ospite straniero e quando comincia a realizzarsi essa è a stento distinguibile da fantasie e fantasticherie. A questo fatto rimanda il termine di ideologia [Ideologie], quando viene usato nel suo significato sia positivo che negativo, spiegando anche perché l’ideologo [der Ideolog] è così contrario alla vita quotidiana e pratica degli esseri umani”)6. Ma rimane dominante l’accezione per cui pensare ideologicamente significa vivere nei libri, nell’astrazione delle idee e rimanere radicalmente lontani dalla realtà e dalla prassi di vita degli uomini normali e comuni.

 

2. Marx e Engels: una prima concezione

È a partire da questo contesto di senso preminentemente negativo del termine “ideologia” che muove la tematizzazione marx-engelsiana, depositata in quel complesso di testi di varia natura e destinazione scritti dai due autori durante gli anni 1845-1846, che impropriamente sono stati raccolti insieme e unificati dagli editori postumi della prima MEGA (1932) sotto il titolo di Die deutsche Ideologie. In quei testi in cui Marx ed Engels espongono più ampiamente che altrove la loro concezione materialistica della storia, il lavoro, ossia la prassi materiale degli uomini associati volta a trasformare la natura per soddisfare i loro bisogni, è assunto come il luogo fondamentale non solo dell’utile e di ciò che è imprescindibilmente necessario ma anche del vero. Tutto ciò che si allontana da quella prassi, che è insieme luogo di verità, è, per definizione, infatti falso e falsificante. D’altro canto, visto che per Marx ed Engels il lavoro, come elaborazione della natura da parte del genere umano, è la base della vita umana, tutto ciò che si dà in un insieme sociale non può che essere una sua derivazione o articolazione. Così, se la divisione del lavoro diventa la categoria esplicativa di ogni aspetto del vivere sociale, non può che derivarne che l’ideologia, cioè la produzione di sistemi di idee da parte degli intellettuali, sia intrinsecamente falsa, producente false immagini del mondo, perché, appunto, lontana da quella prassi materiale che, per definizione, è il luogo della realtà/verità. L’oggetto della produzione ideale è l’universale, il concetto generale, astratto proprio perché separato e diviso da quella vera realtà che è il sistema sociale della produzione materiale con la sua articolazione in forze produttive e rapporti di produzione. Ma un universale astratto, quello dell’ideologia, che ha, in effetti, come suo compito specifico quello di rivestire gli interessi di parte e di classe della società economico-lavorativa della veste dell’universalità. La funzione della produzione ideologica è infatti quella di elaborare l’interesse di parte dandogli la forma apparente di un interesse comune a tutti i membri della società. Trasformare, dunque, in modo improprio e falsificante un particolare in un universale. Questo è il compito che Marx ed Engels assegnano agli ideologi, ai produttori di universali, curvando il significato più ampio e generico, accolto dalla tradizione, di produttori di chimere in produttori di visioni magiche che trasfigurano l’interesse di alcuni in interesse di tutti. La divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale assegna agli intellettuali la produzione di concetti universali come l’uomo, il genere umano, la libertà, la religione, la morale, la metafisica, lo Stato, con la pretesa che siano queste idealità a muovere la storia e ad organizzare la vita sociale, ma in effetti con lo scopo ben più prosaico e utilitaristico di contrabbandare, attraverso quelle forme ideali, biechi ed egoistici interessi materiali.

Non è chi non veda ovviamente in questa definizione di ciò che sia ideologia quanto il primo Marx aveva già concepito, in Zur Kritik des Hegelschen Staatrechts del 1843, essere il motivo teorico centrale dell’opera hegeliana del 1821, Grundrisse der Rechtsphilosophie. Ossia che Hegel, nel suo massimo testo di filosofia politica e sociale, avesse separato ed astratto dalla materialità economica della società civile moderna, l’universalità della politica e dello Stato per annullare nel cielo di quella eguaglianza le differenze tra gli individui reali e per ammantare di una veste universale-istituzionale pratiche e interessi di natura solo finita ed egoistica. Per cui, come già nella Wissenschaft der Logik, secondo Marx, accadeva al Logos dell’Idea hegeliana, di voler sostituirsi con la sua astrazione ai soggetti reali, ma finendo poi col riempirsi della loro empiria non sottoposta a critica, così anche nella sua Filosofia del diritto Hegel avrebbe posto il predicato al posto del soggetto, anteposto cioè le funzioni e le istituzioni dello Stato al concreto operare dei veri soggetti della società civile, per finire solo col giustificare attraverso quella mera forma di universalità contenuti di ben diverso contenuto materiale e particolare.

Non a caso è proprio nella Kritik del ‘43 che Galvano della Volpe, e con lui i suoi allievi (L. Colletti, N. Merker, M. M. Rossi), ritrovano già compiuta la nuova scienza di Marx conquistata criticamente nella autonomia dalla dialettica astratto-speculativa di Hegel. Quel primo Marx avrebbe infatti compreso che il misticismo di Hegel non muove mai dai luoghi e dai rapporti reali, come la famiglia, la società civile, gli individui in carne ed ossa, ma dall’Idea astratta dello Stato, per cui il grande idealista, rovesciando il rapporto tra soggetti reali e istituzioni create da loro, ossia il rapporto tra soggetto e predicato, farebbe dell’universalità astratta dello Stato il preteso vero soggetto e delle realtà concrete solo fenomeni e incarnazioni di quella mistica Idea. “Hegel rende autonomi i predicati […] avendoli separati dalla loro autonomia reale, dal loro soggetto. Poi il reale soggetto appare allora come risultato […]. La mistica sostanza diventa quindi il soggetto reale e il reale soggetto appare come un altro, come un momento della mistica sostanza”7 . Dove, com’è evidente, se c’è misticismo, nel senso che diventa principio della realtà un’astrazione mentale, c’è nello stesso tempo innalzamento e consacrazione di un dato particolare di realtà, che ottiene le stigmate di essere un valore universale. Vale a dire che singolarità o parzialità, come il corpo di un singolo individuo (nel caso di un monarca) o come la proprietà privata, o istituti burocratici dello Stato, vengono celebrati come implicanti di per sé, nella loro immediatezza, l’interesse di tutti. Vale a dire immediatezza senza mediazione e senza contestualizzazione di quel particolarenella rete dei rapporti concreti che lo determinano e lo sostengono. Scrive infatti il giovane Marx in quella critica ad Hegel composta durante la sua luna di miele a Kreuznach: “Il contenuto concreto, la determinazione reale appare come formale; la determinazione formale interamente astratta appare come il contenuto concreto”8. Esattamente come teorizzerà qualche anno dopo,come dicevamo, lo stesso Marx insieme ad Engels, riguardo all’opera svolta dall’ideologia e dalla sua capacità appunto di trasfigurare l’interesse particolare, facendolo apparire rivestito, pur rimanendo inalterato nel suo contenuto, di una forma di valore universale.

Eppure proprio tutto questo discorso marx(-engelsiano) su ciò che è ideologia conferma, al contrario di quanto hanno concepito Della Volpe e la sua scuola, quanto questo Marx da un lato sia rimasto invece subalterno all’idealismo di Hegel e quanto, nell’ambito degli scritti citati, fosse ancora ben lontano dall’aver elaborato una visione della storia e della società sufficientemente solida e coerente. Infatti la riconduzione dell’ideologia, e con essa di tutto ciò che è produzione di idee e di istituzioni culturali-politiche, a ciò che è esterno e lontano dalla prassi, è palesemente autocontraddittoria, giacchè confuta lo stesso materialismo storico di Marx ed Engels che non può non essere e non presentarsi come sistema e produzione di idee. Vale a dire che la critica della filosofia depositata nelle pagine della Ideologia tedesca critica in primo luogo di Hegel e degli Jünghegelianer presume contraddittoriamente che il teorizzare marx-engelsiano non sia filosofia, nel senso di essere atto di pensiero (come invece è il sistema del materialismo storico), ma sia una presunta autodichiarazione della prassi materiale che svelerebbe, attraverso la bocca dei due autori, la sostanza della sua realtà.

Del resto che questa prima concezione dell’ideologia da parte di Marx ed Engels quale pensiero che nasconde ed occulta la prassi degli “individui realmente operanti” cada nell’aporia di teorizzare l’essenza del teorico escludendo nello stesso tempo sé medesima, è confermato dalla tesi dei due che il proletariato, immerso com’è nella prassi della produzione materiale, dunque di ciò che per principio è il luogo del vero, non patirebbe forme di falsa coscienza, non soffrirebbe cioè di ideologie. A proposito della fede nelle idee astratte della religione, della filosofia, della morale, scrivono infatti, non a caso, Marx ed Engels: “Per la massa degli uomini, cioè per il proletariato, queste rappresentazioni teoriche non esistono, e quindi per essa non hanno neppure bisogno di essere risolte, e se questa massa ha posseduto delle rappresentazioni teoriche, per esempio la religione, esse sono già state da lungo tempo dissolte dalle circostanze”9. Di qui la radicale svalutazione della lotta delle idee e dell’attività della critica teorica, secondo quanto pretendevano di fare invece i Giovani Hegeliani. Se l’idea è solo una derivazione secondaria e deformata della prassi materiale, e delle relazioni sociali che la attraversano e la strutturano, la unica e vera critica è solo quella rivoluzionaria del rovesciamento pratico di tali rapporti, l’esito materiale di una prassi anch’essa solo materiale.

In tal modo, con un pronunciamento che avrà un peso drammatico e pesantissimo per lo svolgimento della storia sociale e politica di tutto l’800 e il ‘900 e delle modalità dei movimenti di emancipazione, Marx ed Engels potevano affermare, attraverso quella contradictio in objecto in cui si risolve, a nostro avviso, durante gli anni ’40 la loro “filosofia” della “prassi”, che: “La vera, pratica risoluzione di questa fraseologia, l’eliminazione di queste rappresentazioni dalla coscienza degli uomini sarà effettuata, come si è già detto, attraverso una situazione trasformata, non attraverso deduzioni teoriche”. Dove, di nuovo, risulta assai ben curioso, a testimonianza ulteriore delle rigidità di tale assolutizzazione della prassi materiale, che in quelle stesse pagine da un lato si sostenga che, nelle società di classe, le idee dominanti sono sempre quelle della classe dominante e che dall’altro non si dia luogo ad alcuna disamina di come questo dominio si imponga e pervada le coscienze dei dominati, giacchè sarebbe proprio il loro essere subalterni e dominati nella materialità della loro prassi sociale, fino alla “perdita completa dell’uomo”10, che li farebbe eo ipso soggetti universali, capaci di una lotta per l’abolizione di ogni classe particolare. Ossia che di fondo il proletariato non soffrirebbe di ideologia e di falsa coscienza poiché la condizione materiale della sua prassi di vita sarebbe di tale degradazione e negazione dell’umano che proprio tale condizione comune di disumanità, lo farebbe paradossalmente soggettività universale, priva di egoismi e differenze al suo interno, e perciò già capace di per sé di una coscienza rivoluzionaria.

 

3. Hegel: la falsa infinitizzazione di un finito

Ma oltre l’assolutizzazione impropria del lavoro a principio unifattoriale della storia e dell’agire sociale, che conduce il materialismo storico di Marx ed Engels da un lato alla riduzione del mondo delle idee a mera falsa coscienza del mondo reale e dall’altro al suo contraddittorio estrapolarsi da ciò che è teoria e pensiero, ciò che rende ancora più contraddittoria, e dunque assai debole, quella prima concezione marxiana dell’ideologia è il suo debito, non confessato, nel far proprio un modulo fondamentale di quella filosofia di Hegel che pure in quelle stesse pagine veniva così radicalmente criticata nel suo essere filosofia dell’Idea e del Logos astratti, pronti a riempirsi della più volgare e immediata empiria. Perché tale concettualizzazione della falsa universalizzazione di un particolare attraverso un mero rivestimento, una mera giustapposizione estrinseca, da parte della mera forma dell’universale di un contenuto particolare astratto dal contesto di relazioni reali in cui vive – tale modulo che in altre pagine ho definito anche la falsa infinitizzazione di un finito – è uno dei motivi di fondo che attraversa l’intera opera di Hegel, dagli scritti giovanili alle opere della maturità. Fin dall’introduzione del concetto di positività nei manoscritti di Francoforte sulla religione cristiana e in particolare sulla figura del Cristo attraverso la critica del formalismo nel Kant morale contenuta nel Naturreschtsaufsatz, giungendo alle riflessioni sul passaggio da repubblica a Impero nella Roma antica nelle Vorlesungen der Weltgeschichte Hegel ha infatti concepito il cuore di una pratica di falsificazione, sia teoretico-conoscitiva che pratico-istituzionale, nella trasfigurazione ontologico-logica di un dato, sia esso di pensiero che di realtà sociale. Cioè nel prendere una datità, nell’astrarla dal contesto di senso e di relazioni da cui prende senso, e nell’assolutizzarla attraverso un vettore di universalità che dia a quel dato la pregnanza e la valorizzazione simbolica di ciò che ha da valere per tutti. Così ad es. nel caso dell’autocrate imperiale, la figura individuale di un singolo uomo diviene simbolo dell’intera comunità di Roma perché la crescita della ricchezza privata ha dissolto la civitas romana nella moltitudine dei singoli proprietari. E questi, privi ormai di ogni senso di appartenenza pubblica, hanno trasferito e proiettato ogni valenza di universalità sulla persona di quel singolo uomo, che in tal modo acquista, nell’immediatezza della sua fisicità, un sopravalore di universalità, di contro alla svalorizzazione di universalità, che affetta tutti i cives, divenuti ormai solo homines privati. Cosicchè quell’uno diviene un Uno, in quanto l’universale ha abbandonato la sua sede nella connessione dei rapporti reali e si è trasferito come mera forma simbolica che opera nel trasfigurare il corpo di un singolo uomo nel luogo e nel potere dell’Intero.

Per non dire infine delle assai più celebri riflessioni di Hegel sul denaro come reificazione del nesso sociale moderno, in quanto cosa materiale, metallica o cartacea, che simboleggia con la sua materialità la totalità delle relazioni di scambio che stringono gli esseri umani tra di loro e che dunque è cosa particolare che ha valore di universalità, tanto da potersi scambiare con qualsiasi altra cosa. Ma, va detto, sono moltissimi i contesti e i passi della sua opera in cui Hegel applica questo motivo della incongrua universalizzazione di un particolare, attraverso la mera giustapposizione di una forma universalizzante e di un contenuto, non mediati tra loro, a partire appunto, come si ricordava, dal concetto di positività, attribuito criticamente alla figura del Cristo: in quanto singolo essere umano che si assolutizza e universalizza come persona divina, a fronte della svalorizzazione di tutti gli altri esseri umani.

Anche perché per Hegel un finito si può universalizzare solo in due modi: uno fisiologico e autentico, l’altro patologico e illusorio. Il primo è quello per il quale il finito che insiste nella sua parzialità, chiudendosi alla relazione, finisce coll’essere invaso e travolto da tutto ciò a cui si oppone e che pretende di lasciare fuori di sè (dialettica del rovesciamento nell’opposto, destinata a risolversi in una identità più ampia e superiore). Il secondo, che è quello sopra descritto, per il quale il finito riesce insistere nella sua identità attraverso una relazione con l’Altro che, invece di rovesciarlo per opposizione dialettica, lo conferma nella sua parzialità originaria, rivestendolo della sola forma dell’universale.

Certo è indubbio che Marx non potesse conoscere i manoscritti giovanili di Hegel, pubblicati, com’è noto, solo all’inizio del Novecento, ma come si è detto il tema della falsa infinitizzazione di un finito percorre di fondo, con maggiore o minore rilievo tutti le opere del maestro di Berlino, comprese quelle che Marx non poteva non aver avuto a portata di mano. Anche se qui non interessa sapere quanto consapevolmente o meno Marx abbia tratto quel motivo, a base della sua critica di ciò che è ideologia, da una sua primitiva ispirazione hegeliana. Perché quello che qui preme comunque sottolineare è quanto il duo Marx-Engels della Deutsche Ideologie, pur con la messa a tema di un concetto storiografico così importante come quello di “modo di produzione”, abbia continuato a rimanere profondamente ispirato dalla critica che L. Feuerbach aveva mosso alla filosofia di Hegel come spiritualismo astratto, che tornava a proporre nel XIX° sec. la metafisica del neoplatonismo del II/III° sec. d. C.. E che proprio a partire da un non sufficiente studio e accoglimento dell’idealismo hegeliano e dalla necessità di passare troppo repentinamente dalla teoria alla lotta politica, la magnifica coppia non sia stata nelle condizioni d’intendere quanto la materia che essi contrapponevano al logos astratto di Hegel giungesse a soffrire delle medesime patologie di astrazione da loro imputate al maestro di Berlino. Tanto da prospettare una teoria materialistica della storia fondata sull’unica categoria, reiterata all’infinito, della divisione del lavoro, nel cui quadro il significato di ideologia si estendeva ad accogliere in sé ogni ambito di produzione culturale, fino a quella riduzione, senza residuo alcuno, della filosofia alla ideologia, che, come si diceva, conduceva il materialismo storico ad una disastrosa contraddizione ed implosione in sé medesimo11.

 

4. Marx: seconda e terza definizione

Ma nell’opera di Marx, una volta che il suo pensiero si è autonomizzato in qualche modo dal sodalizio militante con Engels, si danno, felicemente, altre due definizioni di ideologia, che contribuiscono a rendere il quadro complessivo assai più complesso e ricco di ulteriori prospettive. La prima delle due la si trova, com’è ben noto, nel Vorwort a Per la critica dell’economia politica del 1859, nel celebre passo in cui Marx, parlando della contraddizione rivoluzionaria che si accenderebbe ad ogni passaggio della storia tra progresso delle forze produttive materiali della società e regresso dei rapporti di produzione (che già di per sé è un nesso categoriale tutto da chiarire ed esplicare), afferma:

E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti è indispensabile distinguere fra lo sconvolgimento materiale, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo12.

Qui l’ideologia ha ancora una dimensione e una collocazione esteriore, esterna e distante dalla prassi materiale, ma almeno non ha il significato del tutto negativo ed autocontradditorio della Deutsche Ideologie. Ha infatti la funzione di consentire alle classi sociali in opposizione tra loro di riconoscersi come polarità in contrasto e di avversarsi anche attraverso idee, forme culturali e visioni del mondo in conflitto reciproco. Ossia, anche senza che sia specificato in alcun modo come si connettino piano della struttura e piano della sovrastruttura, le forme ideologiche hanno qui un senso che non è più solo negativo. Perché anche se la lotta tra le classi si realizza e si consuma su un piano fondamentalmente economico e materiale, quelle forme ideologiche assegnano a quelle classi un linguaggio, dei valori e dei codici simbolici che consentono alle parti in conflitto tra loro di riconoscere se stesse e insieme il loro nemico.

Ma il passaggio più significativo nell’acquisizione di un nuovo significato delle forme collettive della coscienza Marx lo compie quando espone nel § 4 del primo capitolo del I° libro del Capitale la celeberrima dottrina sul Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano. Riprendendo le sue letture giovanili sul feticismo – ossia le forme di religiosità primitive riferite a oggetti o manufatti considerati sacri e dotati di potenza magica -, Marx giunge infatti a teorizzare ora che effetti ideologici, per cui gli esseri umani scambiano la realtà delle relazioni sociali tra loro attraverso la forma che assumono relazioni e scambi di oggetti, sono generati dalla struttura economica stessa, ossia dalle pratiche che gli uomini compiono sul mercato di scambio, di vendita e compera delle merci.

L’arcano della forma di merce consiste […] semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori13.

In questo modo l’ideologia non è più l’astrazione illusoria generata dalla mente di un intellettuale, a motivo della divisione sociale del lavoro, come nella Deutsche Ideologie, né è più una visione di parte della coscienza collettiva che ha luogo nella sovrastruttura, come nella Vorwort appena citata, ma è la deformazione ottica operata dalla struttura economica stessa, che nasconde e dissimula nella natura delle cose/merci (reificazione) e dei loro scambi di mercato i rapporti sociali tra gli esseri umani che strutturano la società moderna. E, più precisamente, solo in quanto la società moderna, diversamente da altre formazioni storico-sociali che l’hanno preceduta, è formata da produttori liberi ed autonomi e fra loro indipendenti, i quali possono stabilire connessioni tra loro unicamente attraverso la commercializzazione e lo scambio dei loro prodotti.

Eppure, malgrado l’importanza di questo nuovo paradigma teorico per cui la produzione dell’ideologia attiene alla medesima struttura e non è più esito di elucubrazioni solo mentali, c’è qualcosa che ancora residua di metafisica e di soggettivismo umanistico, in questa pagina marxiana. Perchè, a ben vedere, il tema del rovesciarsi dell’umano in una cosa (come la merce) non è per nulla difforme dal filosofema del rovesciamento di soggetto e predicato con il quale il giovane Marx aveva impostato la sua critica ad Hegel, a muovere dal presupposto essenzialistico e della metafisica del Genere che connota il suo antropocentrismo dell’homo faber, Deutsche Ideologie inclusa. Vale a dire che la scena del mercato è ancora quella di soggetti umani, liberi e indipendenti, che, come nella costellazione hegeliana del potere imperiale nell’antica Roma, non possono che ritrovare la loro Gemeinwesen, la loro comunità perduta nel privato del moderno, in delle cose che, come merci o come denaro, portano in sè iscritte il simbolo di quella unità che comunque li collega e li unisce. I soggetti dell’agire qui, nella sfera della circolazione degli scambi, del mercato e del denaro, sono i soggetti umani, e non il capitale. Tanto che, com’è ben noto, nella concettualizzazione dello stesso Marx, nella circolazione delle merci mediata dal denaro, il fondamento che dà senso e spiega l’intero movimento è il valor d’uso e certamente non il valore di scambio.

Ma questo significa che qui l’astrazione economica (che sta nel cuore del valore di scambio) è un’astrazione ancora solo mentale, dovuta all’azione comparativa e generalizzante fatta con il pensiero calcolante dai protagonisti dello scambio. Ed infatti a spiegare l’imbarazzo teorico in cui cade Marx a questo punto per dover collocare l’astrazione che muove le merci sia come esito di un’operazione mentale sia come fattore di una realtà che avviene alle spalle e dietro le intenzioni dei singoli sta la frase, che appare pressocchè incomprensibile: “Gli uomini equiparano l’uno con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno [corsivo mio]”14.

Ed infatti per poter giungere a spiegare, senza contraddizioni, un effetto ideologico che viene prodotto realmente dalla struttura economica, Marx deve trascorrere dal feticismo della merce al feticismo del capitale. Quando cioè porta il suo discorso all’interno del processo di produzione e constata che il vero darsi di un’astrazione reale può accadere solo quando essa penetra nel corpo (o nelle menti, diremmo noi oggi) della maggioranza della forza-lavoro, subordinata ai tempi obbligati e al piano della direzione capitalistica d’azienda.

Questo rapporto economico […] si sviluppa quindi in forma tanto più pura e adeguata, quanto più il lavoro perde ogni carattere d’arte; la sua abilità particolare diviene sempre più qualcosa di astratto, di indifferente, ed esso diviene in misura sempre crescente attività puramente astratta, puramente meccanica, e perciò indifferente, indifferente alla sua forma particolare; attività puramente formale o, il che è lo stesso, puramente materiale, attività in generale, indifferente alla forma15.

Perchè solo un’astrazione estesa e penetrata nel corpo (o nelle menti) dei più, quale fonte primaria di accumulazione del capitale, colloca nel cuore della realtà sociale un dispositivo di colonizzazione e svuotamento del concreto, che lascia del mondo solo una sedimentazione di superficie, quale il luogo per eccellenza di una coscienza ideologica e falsificata. Solo cioè il paradigma, non della merce o del mercato, ma della forza-lavoro e del suo uso/consumo attraverso procedure tecnologiche generalizzate di astrazione, colloca nella profondità del moderno la soggettività astratta del capitale che si dissimula alla sua superficie attraverso l’apparenza di movimento democratico e liberal-egualitario degli scambi sul mercato.

Dall’atto dello scambio stesso l’individuo, ciascun individuo, è riflesso in sè come soggetto esclusivo e dominante (determinante) dell’atto stesso. Con ciò è dunque posta la libertà completa dell’individuo; transazione volontaria; nessuna delle parti ricorre alla violenza; […] Non solo uguaglianza e libertà sono dunque rispettate nello scambio fondato sui valori di scambio, ma lo scambio di valori di scambio è anzi la base produttiva, reale di ogni uguaglianza e libertà16.

Solo il capitale dunque produce propriamente feticismo, perchè dissimula attraverso un gioco di ruoli di superficie, istituiti su eguaglianza e libertà, un mondo interiore istituito su non-uomini, la cui identità e destinazione essenziale di vita è quella di essere portatori di forza-lavoro. Ma qui non si tratta più del feticismo di oggetti che prendono il posto degli uomini, perchè si tratta, bensì, del disumano che si ricopre e si dissimula sotto le spoglie dell’umano. Secondo appunto quello che verosimilmente appare essere la vera struttura dialettica della modernità, in quanto nesso tra una profondità di nessi sociali e la superficie della loro esteriorizzazione, quale luogo di un apparire che nega e contraffà la sostanza della sua interiorità. Come per altro dimostra, per dirlo en passant, la vexata quaestio della trasformazione dei valori in prezzi, in cui una contabilità fatta in termini di ore di lavoro (che tiene conto cioè solo dell’esistenza delle due classi sociali fondamentali, quali capitale e forza-lavoro) deve apparire di necessità come contabilità fatta in prezzi monetari (la quale deve dar conto, invece, della distribuzione più generale del pluslavoro e dell’esistenza, dunque, di tutte le altre classi). E questa diversa strutturazione della dialettica, costruita non sulla contraddizione ma sulla pratica di svuotamento/superficializzazione prodotta dall’accumulazione della ricchezza astratta del capitale, ci dice quanto il Marx del Capitale sia tornato, più o meno consapevolmente, ad una valorizzazione della Logica hegeliana, specificamente della Logica dell’essenza, lontanissima dalla liquidazione dell’hegelismo consumata nel periodo giovanile.

Dunque, per riassumere, nell’opera di Marx appaiono configurarsi tre definizioni di ciò che è ideologia, nel senso di ciò che attiene alla formazione delle idee: 1) la prima definizione (Deutsche Ideologie) definisce l’ideologia solo in senso negativo, assegnata com’è, per la divisione sociale del lavoro, al ceto separato degli intellettuali; 2) la seconda definizione (Vorwort del ’59) definisce l’ideologia, positivamente, come l’insieme delle condizioni simboliche e di pensiero che permettono agli esseri umani di interpretare i loro conflitti e di combatterli; la terza definizione (Il capitale) definisce l’ideologia, anche senza nominarla propriamente come tale, nè come astrazione illusoria prodotta dalla mente degli intellettuali, nè come visione della coscienza collettiva che ha luogo nella sovrastruttura, bensì come la deformazione ottica operata dalla struttura economica stessa, che nasconde e dissimula nel corpo delle cose/merci le relazioni sociali che sottendono la loro produzione, facendole apparire – per il loro assumere forma di “cosa” come qualcosa di eterno e naturale17.

 

5. Gramsci, Lukács e Francofortesi

Dalla rielaborazione di queste tre definizioni presenti nell’opera di Marx sono nate le due concezioni dell’ideologia che hanno maggiormente segnato la prima metà del ‘900: quella di A. Gramsci e quella di G. Lukács. Nei Quaderni del carcere del primo la funzione storico-sociale dell’ideologia infatti, ben lungi dall’essere negativa, è positiva, anche se ovviamente Gramsci è ben consapevole del senso del termine quale sinonimo di falsificazione e mistificazione. Solo che, muovendo dall’assunto che il dominio sociale e politico non nasce solo da forza e coercizione, ma anche, e sopratutto, da consenso, l’ideologia per Gramsci è positivamente il fattore fondamentale della storia, che garantisce l’unità e l’integrazione sociale. In essa si esprime infatti la capacità di una classe sociale di presentare i propri interessi e il proprio progetto politico in modo autonomo, senza subordinazione culturale e di valori derivanti da altre classi, e in tale coincidenza con se stessa, di farsi inclusiva e rappresentativa anche degli interessi di altri ceti sociali subalterni. Tale definizione ha sollecitato il pensatore sardo a identificare la politica con la filosofia, quale capacità di un ceto dirigente di concepire gli universali col maggiore grado di universalità possibile e di generare con ciò il consenso più diffuso. Ma, appunto, come processo di autocostituzione di una soggettività storica collettiva che da una coscienza disgregata di sé trascorre a una forma di sapere che tendenzialmente coincide con il proprio essere sociale, integrandolo e unificandolo, l’ideologia non è mera illusione o falsa coscienza, come voleva la prima definizione marxiana, non sta nell’immaginazione dei cieli creati dagli intellettuali, perchè sta invece nella quotidianità della vita di tutti, realizzandosi attraverso tutte le istituzioni della società civile (scuola, giornali, editoria, sindacati, partiti etc.), che concorrono alla produzione di idee e che concorrono a formare la pubblica opinione. Così, diffusa in termini di vita quotidiana e di massa, l’ideologia per Gramsci ha una funzione gnoseologica, conoscitiva18. “La tesi secondo cui gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie non è di carattere psicologico o moralistico, ma ha un carattere organico gnoseologico”19. Lungi dall’essere falsa coscienza o appartenere a una sfera solo emozionale-passionale, essa attiene alla sfera del conoscere, ha valore conoscitivo. Ossia è indispensabile ad ogni essere umano per vivere in una comunità e dare senso, attraverso un sapere e una visione del mondo condivisa, ai problemi e alle pratiche dell’esistenza individuale e collettiva. Così la “società civile”, che per Gramsci raccoglie tutti gli istituti e gli agenti produttori di idee e di cultura, diventa il luogo decisivo della dialettica sociale. Tanto che quella che era la lotta delle classi per Marx qui diventa un confronto tra ideologie, dove una classe subalterna, quale il proletariato moderno, potrebbe giungere a farsi classe egemone solo quando riuscisse ad affrancarsi delle idee della classe dominante, che colonizzano la sua visione del mondo, ed essere in grado perciò di esercitare a sua volta egemonia su altri gruppi sociali. L’ideologia ha da essere dunque tendenzialmente totalitaria, essere cioè autosufficiente e non dipendere da altro da sè, in quanto deve essere capace di unificare la realtà dell’essere sociale di una classe con la sua coscienza l’essere con il sapere dell’essere e per questa via maturare la condizione fondamentale a che si dia rovesciamento della prassi dominante: come conferma appunto la nozione gramsciana di blocco storico.

La struttura e le superstrutture formano un ‘blocco storico’, cioè l’insieme complesso e discorde delle sovrastrutture sono il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione. Se ne trae: che solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse per questo rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, già significa che esistono al 100% le premesse per questo rovesciamento, cioè che il ‘razionale’ è reale astiosamente e attualmente20.

La collocazione degli individui nella struttura economica per Gramsci un dato naturale e oggettivo, qualcosa che si riceve passivamente dalla nascita e dalla collocazione in una determinata condizione di relazioni sociali. L’ ideologia, in senso fortemente positivo ed organico, è l’atto che elabora quel fatto trasformandolo in una dimensione della volontà. E’ la prassi che supera la disgregazione della coscienza propria inizialmente dei ceti subalterni (quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità uomini-massa, la propria personalità è composta in modo bizzarro)21 e li conduce ad essere una soggettività collettiva capace di azione storia e di egemonia. In tal senso l’ideologia è lo strumento fondamentale di elaborazione del vero e proprio inconscio sociale, quale forma di coscienza passiva del proprio agire colonizzata e intenzionata da altri. E, in questo trascorrere dall’immediatezza naturalistica della struttura alla mediazione critica e consapevole della propria collocazione sociale di classe, è quanto esplicita e dà senso al cuore di quella seconda definizione marxiana che Gramsci significativamente traduce: “le forme ideologiche, nel cui terreno gli uomini diventano consapevoli di questo conflitto e lo risolvono (corsivo mio)”22.

Ma se la chiave di volta per intendere il significato di ideologia in Gramsci è “egemonia”, reificazione e feticismo sono invece i due termini chiave per intendere il significato di ideologia nell’altro autore citato, G. Lukács in Storia e coscienza di classe. Seguendo la terza definizione marxiana, l’ideologia, lungi dall’essere anche qui falsa coscienza, è falsificazione prodotta dalla realtà stessa dell’economia capitalistica. Essa consiste in un rovesciamento della realtà messo in atto dallo scambio generalizzato delle merci sul mercato, attraverso il quale le relazioni di lavoro e di scambio tra gli esseri umani appaiono come relazioni tra cose, dotate di prezzi e di movimenti oggettivi e autonomi. Ossia essa è la falsa coscienza prodotta dall’economia generalizzata della merce, la quale con le sue pratiche cancella i veri soggetti e propone come soggetti null’altro che movimenti e relazioni tra oggetti. Tale meccanizzazione e riduzione a quantità delle relazioni umane, proprie della “forma-merce”, si estendono per il pensatore ungherese all’intera realtà della vita sociale: per cui ogni ambito dell’agire e del sapere viene diviso in sfere parziali, rette da criteri di efficienza e da una connessione mezzi-fini, oggettivamente calcolabili e razionali, dotate di una struttura semiautomatica e non riducibili alla finalità e all’intenzione umana. L’ideologia coincide dunque per Lukács con la calcolabilità che reifica ogni sfera della vita, dalle fabbriche alle istituzioni burocratiche dello Stato, dal procedere giudiziario alle forme del conoscere, nei cui prodotti pietrificati la creatività e la prassi umana, alienate, non riescono più a riconoscere se stesse.

Tale concezione lukacsiana dell’ideologia come generalizzazione della forma-merce ha avuto un forte credito tra gli intellettuali di area tedesca della prima metà del ‘900 ed è stata infatti fortemente ispiratrice dell’opera dei pensatori della prima generazione della Scuola di Francoforte, come Horkheimer, Adorno, Marcuse, e, meno direttamente, W. Benjamin. Essa opera fortemente in Adorno, con la nota distintiva che la forma-merce generalizza un modo di pensare che più che sul calcolo è fondato sull’astrazione del valore di scambio e del denaro come strumenti che permettono di eguagliare e scambiare tra loro cose di diversa natura e qualità. Il valore di scambio sottrae differenziazione e molteplicità alla realtà, proponendo la sua identità solo quantitativa. E in questa riduzione del molteplice all’identico consiste l’operazione di fondo, per Adorno, del pensiero concettuale e ideologico che replica, in sede logica, l’astrazione economica del valore di scambio e produce sistemi teorici che astraggono dal divenire della vita. L’intero sistema occidentale, di produzione economica capitalistica, di industria della cultura di massa, di pubblicità e invasione mercantile del tempo libero, riduce l’essenza della vita, che risiederebbe in una costante non-identità, a un sistema di vita amministrata, nella quale il concreto è negato e mortificato dal dominio della ripetizione dell’astratto23. Tale concezione dell’ideologia come riducibile al principio di identità sarà poi non a caso, come vedremo nella seconda parte di questo testo, a base dei teorici post-strutturalisti e postmoderni, per i quali appunto ideologico sarà tutto ciò che oppone l’identità alla pluralità, l’unità alla differenza, il sistema al frammento, il centro al margine. Del resto anche per Marcuse, grande animatore dei movimenti di protesta degli anni ’60 e ’70, l’ideologia è sinonimo di una reificazione che pervade tutta la società capitalistica, con l’ulteriore specificazione che l’ideologia dominante contemporanea è, sempre più, quella di una pretesa onnipotenza della ragione quantitativo-calcolante, per cui si ritiene di poter risolvere qualsiasi problema, non solo tecnico, ma anche sociale, politico, con la metodologia analitico-matematica della scienza, per definizione priva di ambiguità, incertezze e contraddizioni.

Nell’ambito di questa tradizione di pensiero l’ideologia è diventata sinonimo con J. Habermas, di affi olimento, fi all’atrofi dell’agire comunicativo rispetto all’agire strumentale. Riproponendo l’antica distinzione aristotelica tra poieisis e praxis – la prima riferita all’azione lavorativa di un soggetto su un oggetto, la seconda all’incontro e al dialogo disserente di un soggetto con altri soggetti – l’ideologia è per Habermas la pretesa di applicare i criteri della razionalità produttiva di cose e di merci ai problemi, ai quesiti e alle decisioni, morali, etiche e politiche, di una comunità umana. Consiste nello scambio e nella sovrapposizione della ragione tecnica, il cui criterio di effi sta nel trovare il mezzo più utile ed economico per uno scopo, con la ragione discorsiva di una umanità dialogica, il cui valore costitutivo sta nell’includere invece quanto più possibili esseri umani nella discussione e nella deliberazione, in un reciproco riconoscimento, sui contenuti e gli scopi, quali essi siano, di quel confrontarsi e dialogare. L’ideologia, tipica della modernità, consiste dunque per Habermas nella negazione medesima di ciò che dovrebbe costituire il moderno, concepito come estensione della prassi comunicativa e della democrazia, fi alla pretesa, appunto solo e pienamente ideologica che la ragione tecnica, non solo non sia subordinata ad alcun procedere democratico-comunicativo, ma che invada lo stesso campo dell’etica e della discussione pubblica, procedendo ad una tecnicizzazione della politica, cioè ad una risoluzione della politica nel governo dei tecnici.

 

6. Louis Althusser e gli “Apparati Ideologici di Stato”

Infine per esaurire, in un modo ovviamente schematico, una rassegna veloce del concetto di ideologia nell’ambito della tradizione dei marxismi del ‘900, non si può che giungere a trattare il pensiero di L. Althusser con la sua teoria degli “Apparati Ideologici di Stato”. Per l’autore francese, reso celebre dalla supposizione dell’esistenza di una coupure epistemologiche nell’opera di Marx. l’ideologia non è più nè falsa coscienza, quale deformazione della realtà da parte di un occhio che, per la sua collocazione di classe nella divisione del lavoro, vedrebbe in modo distorto, nè deformazione della realtà in sè medesima, come hanno sostenuto le dottrine del feticismo e della forma-merce, bensì è autofraintendimento che l’essere umano procura a sè medesimo, entrando in una configurazione immaginaria di sè che è ben lungi dal corrispondere alla realtà della sua pratica di vita. Per Althusser, che accoglie fortemente la lezione dello strutturalismo e, con esso, il rifiuto radicale della tradizione dialettica dell’hegelo-marxismo, l’essere umano è un insieme composito e multiforme di funzioni, a seconda dei diversi contesti e delle diverse pratiche in cui si trova a vivere e ad operare. Sono le istituzioni pubbliche della cittadinanza (come la scuola, l’esercito e le pratiche politiche della democrazia) ma anche istituzioni come la famiglia, la Chiesa, che invece ci interpellano, ci danno un nome e ci vogliono responsabili in quanto individui unitari e coesi con sé stessi, ossia come presunti soggetti, dotati di una configurazione identitaria permanente. L’ideologia appunto consisterebbe nell’effetto rispecchiante di tali Apparati Ideologici, nei quali ciascuno di noi si rifletterebbe illusoriamente come soggetti capaci di autonomia e forza decisionale, a dispetto della nostra vera realtà di esseri senza centro e senza soggettività. Il che consente ad Althusser che l’ideologia non è illusione partorita dalla fantasia e dalla mente di un singolo, bene è questione materialistica di prassi, perché l’immagine di un falso Sè è l’effetto di una serie, reiterata, di azioni rituali ed obbligate che ogni individuo accumula in sé, a seconda dell’ambito, relazionale ed istituzionale, che si trova ad attraversare. Sono, ad esempio, le azioni rituali e collettive della pratica religiosa a produrre e confermare in una coscienza individuale la fede, così come sono i rituali dell’apparato parlamentare-politico, con la reiterazione degli atti elettorali, a ingenerare la credenza in una individualità libera e autonoma che presume essere, essa, principio e soggetto della politica. E’ dunque il soggetto, in generale, ad essere, non realtà, ma mero effetto ideologico, precipitazione dell’immaginario. Ed è effetto dell’immaginario a partire da un Altro Soggetto (da scriversi con la maiuscola perché eterogeneo e diverso da tutti gli altri soggetti individuali), che, come Dio nel caso della religione, interpella, appunto uno a uno gli esseri umani, esortandoli ad obbedire alle sue leggi e comandamenti. L’individuo cioè s’immagina di essere un soggetto a partire dalla chiamata di un Altro Soggetto, solo obbedendo al quale il primo viene riconosciuto e omologato nella comunità che si raccoglie in quell’Apparato specifico. Ogni soggetto risulta così, proprio nella peculiarità del suo nome proprio, ovvero nell’irripetibilità della sua individualità, esito dell’assoggettamento a una norma culturale, al cui obbligo si obbedisce attraverso la messa in scena di personaggi che appaiano recitare liberamente a soggetto, laddove eseguono solo ruoli di un copione prestabilito.

Ovviamente non è chi non veda quanto della metafisica psicoanalitica di Jacques Lacan ci sia in tutto questo. Il soggetto individuale è una configurazione fittizia e illusoria, precipitato insieme sia dell’Immaginario che del Simbolico, che, come tutti sono, sono due delle categorie centrali della pretesa rifondazione della psicoanalisi operata dal “Cagliostro” francese. Althusser oltre che dalla filosofia e dalla storia della scienza di Canghuilem, è stato profondamente esposto all’influenza sia dello strutturalismo che del lacanismo. E ciò si fa quanto mai evidente nella sua teoria dell’ideologia dove il trasumanar da individuo a soggetto avviene appunto attraverso la rispecchiamento nel desiderio dell’Altro e nella risposta alla sua chiamata. Vale a dire che la natura e il carattere del tutto ideologico del soggetto in Althusser risuona potentemente del canone fondamentale dello strutturalismo del darsi di qualsivoglia campo di realtà come un processo senza soggetto, come dell’heideggerismo di J. Lacan, per il quale la soggettività umana, essendo sempre fratta in sé medesima, perché impossibilitata a contattare il Reale da cui è generata, si costruisce e si compensa attraverso le configurazioni che attinge dall’Immaginario del gioco dello specchio e dal Simbolico delle leggi socio-culturali.

Ma questa idiosincrasia della soggettività che caratterizza tutta la cultura francese contemporanea, nella sua svolta antisartreana e anticartesiana, a ben guardare produce gravi aporie nel discorso althusseriano. Giacchè è molto difficile comprendere come una stessa persona possano convivere pratiche di vita e valori comportamentali, ognuna diversa e specifica, a seconda dell’Apparato ideologico che l’individuo in questione si trova di volta in volta ad attraversare. Rifiutata ogni istanza kantiana, sintetica e unificatrice, alla soggettività, rifiutata ogni funzione trascendentale della soggettività che non la renda eccedente in qualche modo ad una sua consegna passiva e totale alla Legge del Simbolico, non ne consegue necessariamente il rischio di una disgregazione e di una liquidificazione della stessa individualità biologica e materiale? Ed inoltre non è forse vero che alla tesi di una composizione così multiversa e a-centrata della soggettività althusseriana sul piano dell’ontologia personale non corrisponda sul piano dell’ontologia sociale una teoria della pari multiversità dei versi campi delle pratiche sociali, che, malgrado l’argomento della surdeterminazione in ultima istanza da parte dell’economia, trova molte difficolta a stabilire nessi di unificazione e di traducibilità da un comparto all’altro dell’essere sociale? Perché come avviene in ogni totalità sociale la distinzione di funzioni tra determinante, qual’è sempre l’economia, e dominante, qual’è la particolare sfera che a seconda dei tempi storici viene surdeterminata dall’economia ad essere dominante (come ad esempio la sfera dominante politica nel feudalesimo)? Soprattutto quando, come nella modernità capitalistica, l’istanza determinante appare coincidere con l’istanza dominante? Del resto l’estremizzazione strutturalistica in cui cade Althusser nel comporre una totalità sociale quale un processo senza soggetto, fatto delle relazioni tra varie istanze, ma difficili da ricondurre ad unità, si fa quanto mai palese nella separazione radicale che, per la sua fede assoluta nel materialismo, il pensatore francese deve necessariamente porre tra mondo reale e mondo del conoscere. Per rifiutare qualsiasi fondazione empiristica, con eventuali esiti scettici, al conoscere scientifico, e non ideologico, e per confermare il suo materialismo radicale quanto ad estraneità tra essere e pensiero, Althusser deve porre una radicale estraneità tra mondo reale e processo del conoscere, affermando che il conoscere può svolgersi e svilupparsi interamente solo all’interno del pensiero e che la scienza non è mai l’elaborazione di dati sensibili, che muovono dalla percezione del soggetto umano. La scienza, cioè il vero conoscere, consiste nel lavoro di un pensiero che non ha mai a che fare con il sensibile e con il corporeo ma che elabora e trasforma Generalità I attraverso Generalità II per trasformarle in Generalità III.

E proprio qui, io credo, si colloca la distanza maggiore della lettura proposta da Althusser dall’impianto scientifico ed epistemologico del Marx dei Grundrisse e del Capitale. Dato che il luogo e il criterio della verità stanno, almeno per chi scrive, in quel Marx della maturità nel materialismo del sentire dei corpi, ossia nella pratica generalizzata del lavoro astratto come effetto e norma dell’uso capitalistico della forza-lavoro. Perché solo un’astrazione generalizzata imposta al corpo della forza-lavoro, attraverso la disciplina e il comando del macchinismo, rende vera con il suo essere astrazione reale l’astrazione del valore-lavoro che Marx pone all’inizio come ipotesi della sua scienza:

Questo rapporto economico il carattere di estremi di un rapporto di produzione che contraddistingue il capitalista e l’operaio si sviluppa quindi in forma tanto più pura e adeguata, quanto più il lavoro perde ogni carattere d’arte; la sua abilità particolare diviene sempre più qualcosa astratto, di indifferente, ed esso diviene in misura crescente attività puramente astratta, puramente meccanica, e perciò indifferente, indifferente alla sua forma particolare; attività puramente formale o, il che è lo stesso, puramente materiale, attività in generale, indifferente alla forma. Qui si rileva ancorata volta come la determinatezza particolare del rapporto di produzione, della categoria qui capitale e lavoro -, diviene vera solo con lo sviluppo di un particolare modo di produzione e di un particolare livello di sviluppo delle forze produttive industriali. (Questo punto dovrà essere particolarmente sviluppato più tardi, trattando di questo rapporto; infatti qui esso è già posto nel rapporto stesso, mentre nelle determinazioni astratte di valore di scambio, circolazione, denaro, esso rientra ancor più nella nostra riflessione soggettiva)24.

Vale a dire che il lavoro astratto che all’inizio dell’esposizione del Capitale può apparire essere solo un’astrazione mentale operata sul mercato dagli attori delle compere e delle vendite, il luogo psichico di una generalizzazione logica, che, al fine di trovare una misura comune degli scambi, lascerebbe cadere le differenze dei lavori concreti per estrarne il concetto appunto di lavoro astratto, conferma di essere invece, non nota di concetto, ma nota di realtà dunque non principio logico ma principio ontologico solo con lo sviluppo delle relazioni di capitale nei luoghi della produzione e con un determinato uso e consumo della forza-lavoro. Ossia che il percorso metodologico della scienza sociale di Marx, attinente allo specifico della realtà capitalistica, consiste nel circolo del presupposto-posto, quale rilettura del circolo hegeliano per cui la verità dell’inizio (apparentemente solo ipotetica e logico-soggettiva) si fa realmente vera quanto trapassa dalla mente del ricercatore ad essere realtà e prassi di vita di un’intera classe di esseri umani. Quando dunque l’ipotesi si fa tesi, ossia il presupposto viene posto, nel senso di essere prodotto dall’agire e dal modo di vita di una sezione di massa della società contemporanea. Ma, appunto, come si diceva in questo circolo di epistemologia e insieme di ontologia sociale la funzione del corpo (o della mente nel caso del capitalismo digitale), come luogo di verità, è imprescindibile nella costruzione dell’intero.

Va aggiunto infine che nel circolo del presupposto-posto si gioca il vero ambito del nesso tra teoria e prassi che l’opera di Marx ha consegnato problematicamente alla tradizione e alla discussione dei marxismi successivi, giacché appunto è l’astrazione pratica, l’astrazione reale, imposta, attraverso il processo di lavoro, alla massa dei corpi che verifica e rende scientifica la teoria del valore-lavoro e la sua astrazione concettuale e che, nello stesso tempo, garantisce quella endiadi, quella mediazione tra intellettuali e classe subalterna di cui parlava Gramsci nei suoi Quaderni.

Ma certo tutta l’ispirazione culturale di L. Althusser non poteva che essere assai lontana dal poter intendere come un’astrazione reale (qual’è l’essenza della ricchezza del capitale) possa organizzare realtà storiche e sociali, costruire relazioni di classe e farsi il cuore della società contemporanea. Non poteva cioè accogliere la lezione, prima che di Marx, di Hegel rispetto a ciò, essendo l’idealismo hegeliano il primo filosofare che traduce, elaborandola profondamente, la categoria logica dell’astrazione in un vettore che costruisce invece realtà storico-collettive, articolando con il suo fare pratico istituzione e ambiti differenziati del vivere sociale. Ma la tradizione francese del cartesianesimo scientifico da cui proveniva, ultima ratio, Althusser impediva per principio la valorizzazione hegelo-germanica della dialettica. Tanto che, non a caso, l’interpretazione che Althusser dà della dialettica di Hegel, con particolare riferimento alla categoria di totalità, mostra di patire il limite di molte superficialità. In particolare quando (qui curiosamente qui in continuità con una lettura tradizionale schellinghiano-feuerbachiana di Hegel) critica la totalità hegeliana come una totalità espressiva, cioè come “una totalità di cui le parti sono ‘parti totali’, espressive le une delle altre ed espressive ciascuna della totalità sociale che le contiene, poiché ciascuna contiene in sé, nella forma immediata della sua espressione, l’essenza stessa della totalità”25.

Vale a dire che in Hegel, secondo il modulo classico della critica mossagli da Feuerbach, l’Assoluto sarebbe presupposto all’intero svolgimento del sistema, ragion per cui in ogni segmento del sistema tralucerebbe la presenza e il senso dell’Intero. Ossia, come argomenta Althusser, ogni parte dell’intero sarebbe espressione del tutto e la totalità sarebbe immediatamente presente ed estraibile da ciascuna delle sue parti. Tanto che per l’autore di Lire le Capital va rifiutata ogni lettura della società capitalistica come basata sul nesso di essenza ed apparenza, perché rimanderebbe a una teoria della visione che pretende di smascherare la fonte della realtà solo attraverso un approfondimento dello sguardo, a muovere dall’inaccettabile presupposto per Althusser di un pensiero che riuscirebbe a cogliere direttamente il reale.

A dire il vero a chi si iscrive nella tradizione del marxismo hegeliano, come l’autore di queste pagine, questa interpretazione althusseriana del rapporto fra parte e tutto nella filosofia hegeliana sembra assai manchevole, per non dire del tutto errata, in quanto non considera come quel nesso si costruisca non secondo immediatezza ed espressività bensì secondo mediazione, e, peculiarmente, secondo una mediazione che si configura come opposizione. Per cui l’apparenza, sia nel discorso dello Hegel della Scienza della logica che del Marx del Capitale, presenta sempre l’opposto dell’essenza. Come ad es. accade in Marx con la doppia natura della libertà moderna, la quale, nella sua strutturazione di opposti, costituisce il nesso di mediazione, e insieme di occultamento e dissimulazione, tra le due sfere, della democrazia del mercato e del dominio/sfruttamento della produzione. Per cui appunto la forza-lavoro è libera nel duplice ed opposto senso di essere soggetto autonomo da ogni rapporto di dipendenza personale sul mercato delle merci e nello stesso tempo di essere affrancata da ogni possesso ed uso del mondo-ambiente, rimasto monopolio di proprietà delle classi dominanti. E dove, a nostro avviso, si colloca, come già s’è detto, la sfera più propria dell’ideologia in senso marxiano, quale processo di dissimulazione che la struttura economica di sfruttamento produce attraverso l’opposto di superficie, fatto di eguaglianza ed equivalenza.

(fine prima parte)


Note
1 De Tracy (1798, 325).
2 De Tracy (1780, 34).
3 Foucault (1996, 253).
4 “Le Moniteur universel”, 21.12.1812.
5 Reden des Minister-Präsidenten Freihernn von Manteuffel seit dem vereinigten Landtage
(1851, 98 f.).
6 J. W. Goethe, Maximen und Reflexionen. Weimarer A.I/42/2, 209 – Hamburger A. 12, 439.
7 Marx (1983, 70-71).
8 Marx (1983, 58).
9 Marx-Engels (1972, 32).
10 Marx (1969 a, 108).
11 Per questa riflessione critica sul materialismo storico e sull’antropologia del primo Marx mi permetto di rinviare ai miei testi Finelli (2004) e Finelli (2014). Ma anche per quanto concerne il tema della fallace infinitizzazione di un finito nell’ambito della filosofia hegeliana cfr. Finelli (2009).
12 Marx (1969 b, p. 5).
13 Marx (1964, 104).
14 Marx (1964, 106).
15 Marx (1976, 246).
16 Marx (1976, 188).
17 Eagleton (2007, 70-91).
18 Anche su questo tema mi permetto di rinviare a Finelli (2005).
19 Gramsci (2007, 1595).
20 Gramsci (2007, 1051).
21 Gramsci (2007, 1376).
22 Gramsci (2007, 2359).
23 Adorno (1972).
24 Marx (1976, 246).
25 Althusser -Balibar (1968, 101).

Bibliografia
Adorno, T.W. (1972), “Beitrag zur Ideologienlehre”, Gesammelte Schriften: Ideologie, Frankfurt a. M.: Suhrkamp.
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