Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Le radici della disuguaglianza”. L’emergere dell’Individualismo proprietario

di Gerardo Lisco

71jUaOZtJjLPARTE I

Hobbes, Rousseau.

Il lavoro si ripromette di indagare il tema a partire da il libro “ Le radici della disuguaglianza del filosofo della politica Antonio Martone. Il saggio individua le “radici della disuguaglianza” nel pensiero moderno, attraverso l’analisi di alcuni autori che per ciò che hanno scritto e sostenuto sono da considerare come una sorta di ideal-tipo della “modernità”.

Gli autori presi a riferimento abbracciano un arco di tempo che va dagli inizi del 600 alla fine dell’800: T. Hobbes, J.J. Rousseau, A. de Tocqueville, M. Stirner e F. Nietzsche. Passiamo dall’Assolutismo di Hobbes all’idea Democratica di Rousseau, dall’analisi critica della nascente Liberal-Democrazia americana di Tocqueville per concludere con Stirner e Nietzsche, i quali analizzano in profondità categorie quali Democrazia, Socialismo, Liberalismo e ne mettono a nudo le contraddizioni creando i presupposti per la critica alle ideologie e aprendo la strada al post-modernismo e all’egemonia dell’individualismo e del totalitarismo liberal-capitalista contemporaneo. In modo particolare questi ultimi due autori, con le loro potenti critiche, sono riusciti a produrre l’effetto contrario rafforzando ciò che intendevano combattere.

Ragionare sulle origini della disuguaglianza attraverso l’analisi delle riflessioni degli autori presi a riferimento non può prescindere dal contesto storico nel quale ciascuno di essi è vissuto e nel quale ha operato. T. Hobbes è il primo ad essere messo sotto osservazione. Riferendosi ad Hobbes e al concetto di uguaglianza proprio della trattazione del filosofo inglese, Martone parla di un’“uguaglianza omicida” ossia l’idea che l’homo homini lupus non sia altro che l’uguaglianza nell’essere potenzialmente omicida dell’altro uomo, motivata dalla naturale spinta alla sopravvivenza. L’uguaglianza è un dato naturale per cui tutti gli uomini sono uguali.

Hobbes con questa affermazione, se concorda con Aristotele sul significato della uguaglianza redistributiva, dissente da lui per quanto riguarda il significato dell’uguaglianza politica. Le ragioni di tale dissenso rispetto al pensiero aristotelico sono da ricercare nell’idea posta alla base della costruzione dello Stato, il Contratto Sociale, che per Hobbes è legge di natura.

Data l’estrema importanza dell’istituto contrattuale, Hobbes si sofferma a lungo sul concetto di leggi di natura, a tal proposito scrive nel De Cive1: <<Quelle che chiamiamo leggi di natura, non sono altro che delle conclusioni, conosciute mediante la ragione, intorno alle cose da fare o da omettere. Ma la legge, parlando propriamente e con precisione, è il discorso di chi con diritto comanda ad altri di fare o di non fare una cosa; quindi, esse non sono propriamente parlando delle leggi, in quanto procedono dalla natura. Tuttavia, in quanto sono state promulgate da Dio nelle Sacre scritture, (…) sono chiamate del tutto propriamente con il nome di leggi. Infatti, la Sacra scrittura è il discorso di Dio, che comanda su tutte le cose con il diritto più alto>>. La sottoscrizione di un contratto parte dal presupposto che i contraenti siano tutti uguali ossia titolari di un eguale diritto che, nel caso specifico, è dato dal diritto alla vita e all’autoconservazione. Scrive ancora il filosofo:<<La massima parte di coloro che hanno trattato delle repubbliche, suppongono, o pretendono, o postulano, che l’uomo sia un animale atto per nascita alla società, (…); e su questo fondamento edificano la dottrina civile. (…) Se infatti l’uomo amasse l’uomo naturalmente, cioè in quanto uomo, non vi sarebbe nessuna ragione perché ciascuno non dovesse amare ugualmente ciascun altro, in quanto ugualmente uomo (…). Quindi non cerchiamo per natura dei soci, ma di trarre da essi onore e vantaggio (…)2>>.

Dicevo che ciascuno degli autori non può essere trattato al di fuori del proprio contesto storico; nel caso specifico, Hobbes non è avulso ai fatti che interessarono l’Inghilterra del ‘600 al punto tale che tutta la sua opera, altro non è che l’analisi del contesto sociale in cui ha operato. Gli eventi da considerare non sono solo quelli politico – religiosi ma anche economici. È in quegli anni che matura l’impianto che determinerà l’evoluzione politico istituzionale dell’Inghilterra, pronta a diventare, con l’Atto di Unione del 1706, il Regno di Gran Bretagna e Irlanda3; è sempre in quegli anni che vengono creati i presupposti per lo sviluppo economico che farà del Regno di Gran Bretagna e Irlanda la prima potenza economica e imperiale che egemonizzerà il Mondo proprio durante i secoli nei quali vivrà ciascuno degli autori presi a riferimento da Martone per spiegare “le radici della disuguaglianza”.

Hobbes, come scrive L. Berns, è il padre del Liberalismo e <<concorda con la tradizione, che discende da Socrate e Tommaso d’Aquino, secondo cui gli obiettivi e la natura della vita morale e politica sarebbero determinati in relazione alla natura, in particolar modo alla natura umana. Tuttavia, stabilisce il criterio secondo cui la natura umana determina i valori per la politica in modo assai differente rispetto a quanto ha fatto la tradizione, cioè, costruendo una teoria dello “stato di natura”. La teoria dello stato di natura, dedotta, dice Hobbes, dalle passioni dell’uomo, è un modo di affrontare l’antico problema psicologico, un problema d’importanza decisiva per la filosofia politica: l’uomo è per natura sociale e politico? Hobbes lo nega. Le ragioni di questa negazione sono illustrate dalla teoria dello stato di natura, quella condizione prepolitica nella quale gli uomini vivono senza governo civile, o senza un potere comune superiore che li tiene in soggezione (…)4>>.Pertanto, è solo se analizzato rispetto alla genesi del Liberalismo che si può cogliere il senso della teorica di Hobbes. La necessità di uscire dallo “stato di natura” equivale a dire, per Hobbes, che l’uomo è dotato di ragione per cui: <<(…) è capace di calcoli razionali, il che è un altro modo per dire che è in grado di scoprire quali sono i mezzi più adeguati per raggiungere i fini voluti, e quindi di agire non solo obbedendo a questa o a quella passione, ma seguendo il proprio interesse5>> e il passaggio alla costruzione dello Stato è una scelta dettata appunto dalla ragione che ha come scopo quello di tutelare il diritto di proprietà privata e il luogo fisico individuato per la negoziazione tra le parti il mercato. Il mercato come luogo di scambio, da qui la condivisione dell’uguaglianza distributiva aristotelica, la proprietà di beni materiali come strumento per l’autoconservazione. Mercato e proprietà privata, il primo per poter funzionare, la seconda per poter essere protetta, necessitano di uno Stato forte e Assoluto, almeno questo secondo Hobbes. I recenti studi di antropologia economica hanno dimostrato che lo scambio può avere anche una diversa natura ad esempio di tipo morale, religioso ecc.6; Bohm – Bawerk, con Menger e von Wieser uno dei padri fondatori della Scuola economica di Vienna, ipotizzava che tra le prime forme di scambio vi fosse la scorreria ossia il conflitto violento, la natura “lupina” per dirla con Martone.

Scriveva Hobbes:<< La causa finale, il fine o il disegno degli uomini ( che per natura amano la libertà e il dominio degli altri ) nell’introdurre sopra di sé le restrizioni, entro cui li vediamo vivere negli Stati, è la previsione di ottenere in tal modo la propria conservazione, e una vita più confortevole; cioè, di uscire dalla miserabile condizione di guerra che è la necessaria conseguenza ( come si è mostrato) delle passioni naturali degli uomini, quando manca un potere visibile che li tenga in soggezione, e li vincoli, con la paura delle punizioni, all’adempimento dei loro patti e all’osservanza delle leggi di natura ( …)7>>, ed ancora,<< (…) come abbiamo mostrato, prima della costituzione dello Stato tutte le cose erano di tutti, e non vi è nulla di cui qualcuno possa dire che è suo, senza che qualsiasi altra persona, con lo stesso diritto, possa rivendicarlo come suo (dove infatti tutte le cose sono comuni, nulla può essere proprio di nessuno), segue che la proprietà ha avuto inizio con gli stessi Stati, e che è proprio di ciascuno, quello che può conservare grazie alle leggi e alla potenza dell’intero Stato, cioè grazie a colui cui è stato dato il potere supremo. Da ciò si comprende che i singoli cittadini possiedono qualcosa di proprio, su cui nessuno dei loro concittadini ha alcun diritto, perché sono tenuti alle stesse leggi; ma non possono avere alcunché di proprio, su cui non abbia diritto chi detiene il potere supremo, i cui comandi sono le leggi stesse, nella cui volontà è contenuta la volontà dei singoli costituito come giudice supremo. (…)8>>

Sulla funzione del Leviatano come strumento di difesa del diritto di proprietà e del funzionamento del mercato, è interessante quanto scrive Alejandro Pérez y Soto Dominguez, il quale affronta il pensiero di Hobbes dal punto di vista economico: <<Tradicionalmente se ha abordado a Thomas Hobbes como un teórico precursor del Estado Moderno. La propuesta de este artículo es elaborar una lectura económica de su obra para ubicar las consecuencias que tiene el planteamiento de la estructura institucional moderna. Se busca establecer el origen de la sociedad de intercambio y la propiedad como resultado de una estructura institucional enmarcada en el Estado Moderno. La ruptura de tipo antropológico de la visión hobbesiana, da lugar a una construcción institucional tal, que ofrece un espacio de relación entre los hombres por medio de la organización social construida alrededor del proyecto de la sociedad de intercambio.9>>.( traduzione mia << Thomas Hobbes è stato considerato un precursore teorico dello Stato moderno. La proposta di questo articolo è quello di elaborare una lettura economica della sua opera per individuare le conseguenze che la progettazione del moderno assetto istituzionale. Cerca di stabilire l’origine della società di scambio e del settore privato come risultato di una struttura istituzionale inquadrata nello Stato Moderno. La rottura antropologica della visione hobbesiana dà luogo a una tale costruzione istituzionale che offre uno spazio di relazione tra gli uomini attraverso l’organizzazione sociale costruita attorno al progetto della società dello scambio(…) >> ) L’approccio di Soto Dominguez è sicuramente funzionale a chiarire come Hobbes sia da considerare, nell’intenzione di Martone, il punto di partenza per analizzare “Le Radici della disuguaglianza”. Scrive Soto Dominguez <<El aporte Hobbesiano en torno a la conceptualización del hombre moderno lo realiza a partir del abordaje de una estructura mecanicista. Es un hombre que construye su racionalidad y su ethos con base en una estructura pasional, fundamentada en los sentimientos de deseo/aversión. La definición de lo humano en el autor es la esencia pasional, la cual da cuerpo al comportamiento del individuo que podemos llamar humano. Ahora él no responde a un ideal superior sino a uno propio, lo bueno no emerge de la voluntad divina, sino del deseo interno10>>; ( traduzione mia << Il contributo hobbesiano alla concettualizzazione dell’uomo moderno deriva dall’approccio di una struttura meccanicistica. E’ un uomo che costruisce la sua razionalità ed ethos sulla base di una struttura passionale, basata sui sentimenti di desiderio/ avversione. La definizione dell’umano nell’autore è l’essenza appassionata, che incarna il comportamento dell’individuo che possiamo chiamare umano. Ora non risponde a un ideale superiore ma al proprio, il bene non nasce dalla volontà divina, ma dal desiderio interiore >>) l’uomo moderno è animato costantemente dal “sentimientos de deso/aversión” e trova giusta realizzazione ne <<La propiedad: pasión institucionalizada. Como manifestación de lo anterior surge el establecimiento de la propiedad, la cual es un instrumento jurídico por medio del cual el Civitas extirpa una de las causas de la guerra total: el mutuo saqueo. Esta norma hará que el mutuo despojo que antes era deseado por los hombres cause aversión en los mismos11>>. ( traduzione mia << La proprietà : passione istituzionalizzata. Come manifestazione di quanto sopra, si pone l’istituzione della proprietà, che è un istituto giuridico mediante il quale la Civitas estirpa una delle cause della guerra totale: il saccheggio reciproco. Questa regola farà si che l’espropriazione reciproca che è stata precedentemente commessa dagli uomini provochi avversione nei loro confronti>>)

La lettura in chiave economica dell’opera di Hobbes ha spinto a interpretare il suo “comportamento morale” come strumento utile per il raggiungimento dell’equilibrio di mercato attraverso le relazioni di scambio.12Per Hobbes, come si evince dai compiti attribuiti allo Stato, la libertà individuale riguarda la sfera economica e cioè lo scambio e la proprietà privata; l’oggetto del “Contratto sociale” sottoscritto prima tra i singoli e poi tra questi e lo Stato/Leviatano, è la difesa della proprietà privata e il regolare funzionamento dello scambio ossia dei contratti. Non a caso Hobbes fa scaturire dal mancato rispetto degli obblighi contrattualmente assunti da parte del Sovrano il legittimo diritto di resistenza da parte degli “uomini” divenuti “sudditi” dello Stato. Se lo Stato deve essere Assoluto, fonte unica del diritto, ed il Sovrano è legibus solutus, è anche vero che quest’ultimo è comunque vincolato alla norma originaria che è il “contratto sociale” con il quale ciascuno ha ceduto parte della propria sovranità allo Stato 13. La difesa della proprietà privata dal potere assoluto del Monarca è parte della tradizione inglese. La Magna Charta, patto tra Monarca e Feudatari è a tutti gli effetti difesa della proprietà privata dalla sottrazione di parte dei frutti che essa produceva attraverso il prelievo fiscale operato dal monarca.

Passando a Rousseau: egli, con il “Discorso sull’origine della disuguaglianza”14, “Il discorso sull’economia politica”15 scritto su richiesta di Diderot per l’Encyclopédie, e il “Contratto sociale”16, prende atto dei limiti contenuti nella teorica di Hobbes spostando il tema dell’uguaglianza dalla sfera privata17 a quella pubblica; nello specifico di come le volontà dei singoli associati si traducano nell’interesse pubblico o “volontà generale” da non intendersi come sommatoria delle singole volontà individuali. Penso che oggi Rousseau parlerebbe di come attraverso un processo negoziale si arrivi alla formazione della volontà generale alla quale le stesse minoranze si assoggettano accettando la potestà legislativa dello Stato, potestà che ha come fonte il contratto sociale che sta alla base del passaggio dallo stato di natura alla società civile. Per Rousseau il “contratto sociale” di Hobbes, con il riconoscimento del diritto di proprietà e della difesa del mercato, legittima il “furto” operato da alcuni a discapito della massa che dà origine appunto alla proprietà privata. A differenza di Hobbes, per Rousseau il “contratto sociale” deve invece avere la funzione di salvaguardare l’originaria uguaglianza e ciò può realizzarsi solo se tale fine viene spostato sul piano politico. Rousseau non è pienamente coerente: ritiene che la libertà dell’individuo non coincida con il diritto di proprietà e definisce “la proprietà un furto”, però non sostiene l’eliminazione di tale diritto. Scrive Martone << Entra in gioco così il concetto di volontà generale. Quest’ultima, essenzialmente diversa dalla volontà di tutti, non è la somma delle volontà individuali, ma qualcosa che tutte le trascende – una sorta di essenza metafisica, uno “spirito santo” che si deposita sulle volontà individuali degli uomini, innalzandole nel cielo della verità politica. La volontà generale è l’unica, autentica sovranità legittima. Essa però non è data una volta per tutte ma deve manifestarsi ogni volta che il popolo è riunito in assemblea (…) La volontà generale riduce e tendenzialmente elimina lo spazio dei particolarismi: la democrazia “perfetta” è quella che cancella qualsiasi dissidenza (n.d.r: questa impostazione di Rousseau non è totalitarismo: nel contesto attuale Rousseau parlerebbe di Democrazia partecipata circa la formazione della “volontà generale”)18. L’unanimità è invocata da Rousseau in quanto prova ontologica dell’esistenza della democrazia migliore (…)>> Evidenzia Martone: << Nelle intenzioni dell’autore ( n.d.r.: Rousseau), la volontà generale servirà a combattere, oltre all’ineguaglianza naturale, anche quell’ineguaglianza civile che rappresenta il segno più deteriore della corruzione politica>>19. In merito Martone richiama il seguente passo del Contratto sociale: << Il patto fondamentale, invece di distruggere l’uguaglianza naturale, sostituisce, al contrario, un’uguaglianza morale e legittima a quel tanto di disuguaglianza fisica che la natura ha potuto mettere fra gli uomini i quali, potendo per natura trovarsi ad essere disuguali per forza o per ingegno, diventano tutti uguali per convenzione e per diritto>>. Il contratto sociale dovrà essere capace di produrre un cambiamento morale tra tutti i sottoscrittori. Martone sottolinea come, per lo stesso Rousseau, una tale impresa appariva titanica se non addirittura impossibile; eppure è questo il tema che interessa la riflessione politica contemporanea.

La questione che poneva Rousseau richiama, dicevo, il dibattito sulla Democrazia deliberativa. A tal proposito mi viene in mente ciò che scrive David Held:<< La legittimazione politica (n.d.r. della democrazia deliberativa) non poggia sull’urna elettorale o sulla regola di maggioranza in sé, quanto, piuttosto, sulla capacità di presentare ragioni, spiegazioni e proposte plausibili per le decisioni pubbliche. L’obiettivo chiave è la trasformazione delle preferenze individuali, attraverso un processo di deliberazione, in posizioni che possano superare l’esame e la verifica pubblici. La discussione può vincere le limitazioni dei punti di vista individuali ed esaltare la qualità del processo decisionale pubblico per tutta una serie di ragioni>>20. Rousseau, uomo del suo tempo, poteva conoscere e studiare i modelli di Democrazia dell’antica Grecia, della Roma Repubblicana, delle città comunali e, essendo ginevrino, il governo della sua città; non poteva certamente immaginare il dibattito contemporaneo sui nuovi modelli di Democrazia, tra i quali bisogna annoverare la Democrazia della Governance 21 se non addirittura la “concertazione tra parti sociali”.Questi ultimi due esempi di democrazia sono ovviamente lontani dal modello di Democrazia teorizzato dal ginevrino; il dato che li accomuna, però, con il modello di Rousseau è la Democrazia come negoziazione tra interessi, che per il Nostro dovevano essere quelli del singolo individuo, oggi espressione di una molteplicità di stakeholders.

Rousseau riscrive le clausole del “contratto sociale” di Hobbes sostenendo che la disuguaglianza è strettamente legata alla proprietà privata e con questa affermazione si discosta non solo da Hobbes ma dallo stesso Locke22 al quale si era, inizialmente, ispirato. Sull’origine della proprietà, scrive Rousseau: <<Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare questo è mio e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmato i fossati, avesse gridato ai suoi simili: guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti>>23.

Come scrive J.J. Chevalier 24, Rousseau dalla sua vita personale ha evinto le condizioni nelle quali versa una moltitudine affamata e priva del necessario. È a quella moltitudine che le clausole contenute nel “contratto sociale” di Hobbes hanno sottratto la naturale uguaglianza in nome dell’individuo proprietario tutelato dal Leviatano. La moltitudine affamata, resa tale dallo Stato assoluto tutore della proprietà privata e del mercato, non può nemmeno più recedere dal contratto perché lo Stato assoluto verrebbe meno ad uno dei suoi obblighi fondamentali e cioè il mantenimento dell’ordine pubblico.

Scrive Rousseau:<< La sola volontà generale può guidare le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, fine che è il bene comune. (n.d.r. da evidenziare il dibattito attuale sul bene comune, da intendere anche come dibattito sull’uso dei beni comuni e sul come porre un freno a diritti naturali che l’egemonia Liberale ossia la legittimazione assoluta della proprietà privata e del mercato puntano a privatizzare). Ciò che rende “generale” la volontà non è tanto il numero dei votanti quanto l’interesse comune che li unisce. La volontà generale, per essere veramente tale, deve esserlo tanto nel suo oggetto quanto nella sua essenza: deve partire da tutti per applicarsi a tutti>>. Da notare che Held non si discosta molto da ciò che scrive il ginevrino quando definisce il concetto di “Democrazia deliberativa”. È nella critica che Rousseau muove ad Hobbes che è possibile trovare “Le radici della disuguaglianza” che è propria della nascente società borghese, capitalista e liberale. Martone, giustamente, evidenzia che sia Hobbes che Rousseau, pur essendo individualisti, finiscono con il mettere in campo modelli fortemente anti – individualisti. Penso che l’individualismo di Hobbes e quello di Rousseau siano da considerare in contesti diversi. L’individualismo di Hobbes si esplicita nella sfera privata rappresentata appunto dall’uso della proprietà privata e dal mercato. Hobbes, da alcuni è considerato il padre del liberalismo ossia il “padre” dell’ideologia che giustifica la proprietà privata come elemento costitutivo della libertà individuale: l’uomo liberale è il proprietario e la relazione che ha con lo Stato è di difesa della proprietà privata dall’invadenza dello Stato. Su questo punto bisogna tener sempre presente il concetto di giustizia di Hobbes. Scrive in merito L. Berns: << Il diritto di natura è la libertà incontestabile di fare o di astenersi dal fare qualsiasi cosa ci sia possibile per preservare la propria vita. Il diritto implica anche un diritto ai mezzi per conseguire questo fine (…) ciascun uomo ha diritto per natura a qualsiasi mezzo egli giudichi utile per la sua conservazione. (…)25>>. Poiché la società civile è originata dal contratto sociale attraverso il quale ciascun individuo si vincola a rispettare gli obblighi contrattualmente assunti con l’altra parte e a non opporsi agli ordini dell’Istituzione che riconoscono come sovrana, dal rispetto dei contratti scaturiscono la giustizia o l’ingiustizia. Per cui, per Hobbes, non è l’oggetto della prestazione ad essere giusto o ingiusto, ma il rispetto o il mancato rispetto del contratto26. Il rispetto dei contratti, ossia dello scambio, è il fattore che determina l’ordine sociale. È in questo passaggio la fotografia del nascente sistema mercantile inglese: il riconoscimento del mercato come luogo di scambio e la necessità del rispetto dei contratti come comportamento funzionale, appunto, al nascente capitalismo. D’altra parte, Rousseau contesta l’ordine sociale che scaturisce dal rispetto formale dei contratti e si pone il problema della redistribuzione della ricchezza a favore delle masse sfruttate di allora. Afferma, infatti, con forza l’uguaglianza naturale che deve essere legata ad una redistribuzione delle risorse e che deve essere garantita dal “contratto sociale”. Da quanto sostiene Rousseau, in natura le risorse sono abbondanti: è la nascita del diritto di proprietà, e quindi della “società civile”, a renderle scarse e contendibili. Nel “Discorso sulla disuguaglianza” scrive27:<< è chiaramente contro la legge di natura (…) che un pugno di uomini nuoti nel superfluo, mentre la moltitudine affamata manca del necessario>>. Nel “Contratto sociale”28 afferma che <<ogni uomo ha naturalmente diritto a tutto quello che gli è necessario (…) nessun cittadino sia tanto ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi>>. Non ci vuole molto per capire come la concentrazione della proprietà della terra nelle mani di pochi rendesse scarso il bene terra o qualunque altro bene. Per capire fino in fondo Rousseau bisogna tenere sempre presente il contesto in cui è vissuto. Le bon savage è per Rousseau l’ideal-tipo della bontà primigenia sostenendo che tutto ciò che è opera di Dio non può essere corrotto; ma che a corrompere la naturale bontà originaria è la nascita della civiltà, ossia la volontà dell’uomo o, in altre parole, la sovrastruttura culturale che ha come scopo la costruzione di visioni del Mondo utili a giustificare la disuguaglianza tra gli uomini. Rousseau affronta la questione anche dal punto di vista pedagogico nell’Emile29. Che una Società nata dal Contratto sociale abbia come oggetto il rispetto dell’uguaglianza naturale è fondamentale per evitare che essa degeneri in un sistema dove regnano corruttela e disuguaglianza sociale. Rousseau affronta il tema della disuguaglianza anche dal punto di vista della teoria economica. Certamente pensare Rousseau come economista, soprattutto dopo il modo con cui venne frettolosamente liquidato da Schumpeter30, diventa difficile; eppure, secondo alcuni, merita di essere annoverato nella storia del pensiero economico ed, aggiungo, soprattutto ai fini del discorso sviluppato da Martone ne “Le radici della diseguaglianza”. Sulla questione è interessante quanto scrive l’economista spagnolo J.F. Bellod Redondo in un saggio dal titolo significativo “Reivendicacion De Rousseau”31 ( Traduzione mia “ Rivedicazione di Rousseau”) . A parere dell’economista spagnolo<<En contra de lo que sostiene Schumpeter, en los escritos económicos de Rousseau se encuentran muchas ideas y conceptos de la escuela fisiócrata, que era hegemónica en la época y en el país de economía agraria en que vivió. La fisiocracia fue un movimiento intelectual típicamente francés que surgió y se difundió en el siglo XVIII, cuya relevancia ha sido injustamente ensombrecida por el predominio del pensamiento económico británico y de su figura más destacada, Adam Smith. Cabe mencionar algunas ideas fisiocráticas que se encuentran en esos escritos: la invocación de la ley natural como principio explicativo, la condena del lujo, la preocupación por el descenso de la población en el campo en favor de la ciudad, la distinción entre trabajo productivo (en la agricultura) e improductivo (en el comercio y la manufactura), la defensa de un impuesto único y de un sistema fiscal más progresivo y, por último, un ataque frontal a los principios del mercantilismo. Igual que los demás fisiócratas, Rousseau considera la agricultura como única fuente de riqueza (excedente), de modo que juzga conveniente remover las trabas a su libre desarrollo. El lujo de los rentistas y los altos funcionarios públicos, así como las cargas tributarias impuestas a la agricultura para desarrollar y sostener a las ciudades y a sus habitantes, son lastres para la prosperidad. (…)>>. (traduzione mia << Contrariamente a quanto sostiene Schumpeter , negli scritti economici di Rousseau ci sono molte idee e concetti della scuola fisiocratica, che era egemone all’epoca e nel paese di economia agraria in cui viveva. La fisiocrazia era un movimento intellettuale tipicamente francese emerso e diffuso nel XVIII secolo , la cui rilevanza è stata ingiustamente oscurata dal predominio del pensiero economico britannico e dalla sua figura più importante , Adam Smith. Vale la pena ricordare alcune idee fisiocratiche che si trovano in questi scritti: l’invocazione della legge naturale come principio esplicativo, la condanna del lusso, la preoccupazione per il declino della popolazione nelle campagne a favore della città, la distinzione tra lavoro produttivo ( in agricoltura) e improduttivo ( nel commercio e nell’industria), la difesa di un’imposta unica e di un sistema fiscale più progressivo e, infine un attacco frontale ai principi del mercantilismo. Come gli altri fisiocratici, Rousseau considera l’agricoltura come l’unica fonte di ricchezza ( surplus) , quindi ritiene conveniente rimuovere gli ostacoli al suo libero sviluppo. Il lusso degli affittuari e dei funzionari pubblici di alto rango, così come gli oneri fiscali imposti all’agricoltura per sviluppare e sostenere le città e i loro abitanti, sono oneri per la prosperità(…)>>) . Come i Fisiocratici, Rousseau riteneva che la pressione fiscale sottraesse capitali all’agricoltura, unica fonte di ricchezza, spostandoli verso le attività commerciali e industriali con il conseguente impoverimento di tutti coloro che erano legati all’attività agricola. Se parliamo quindi di radici della disuguaglianza sul piano economico lo spostamento della ricchezza legata all’agricoltura verso la nascente industria è una delle cause se non quella principale. Tornando per un attimo ad Hobbes e al contesto rappresentato dalle guerre civili che interessano l’Inghilterra del ‘600, non si può fare a meno di evidenziare che il conflitto sia stato determinato dai diversi interessi economici in campo rispetto ai quali i temi teologico, filosofico e giuridico fanno da corollario: da una parte la nascente borghesia mercantile e industriale, dall’altra l’aristocrazia legata alla proprietà della terra come si evince dalla contrapposizione tra i Whig e i Tory. Questa contrapposizione,anche se in modo diverso, la troveremo di nuovo durante la Rivoluzione francese con gli sviluppi che da essa ne derivarono. Ritornando a Rousseau economista, scrive sempre Bellod Redondo32 : <<En la obra de Rousseau es muy difícil separar sus reflexiones económicas de su obra filosófica y en particular de su teoría del Estado. Su liberalismo es una defensa de la ley natural como principio para liberar a la humanidad de todo tipo de coacción, no es una defensa del capitalismo y, por ello, es un autor “incómodo” como defensor del nuevo régimen económico en tanto que avance inobjetable o causa de progreso en todos los campos del orden social. En general, el pensamiento económico del siglo XVIII atacó las instituciones económicas del Antiguo Régimen, y aunque se podría decir que promovía el capitalismo naciente, Rousseau escribió antes del inicio de la Revolución Industrial. Los pensadores de la época consideraban que la servidumbre, el mayorazgo y la heredad de la tierra, la organización gremial y el proteccionismo comercial impedían la libre circulación de bienes y factores productivos y, en consecuencia, frenaban el progreso económico( …)>>. ( traduzione mia <<Nell’opera di Rousseau è molto difficile separare le sue riflessioni economiche dal suo lavoro filosofico e in particolare dalla sua teoria dello Stato. Il liberalismo è una difesa della legge naturale come principio per liberare l’umanità da ogni tipo di coercizione, non è una difesa del capitalismo e,quindi, è un autore “scomodo” come difensore del nuovo regime economico come indiscutibile progresso o causa del progresso in tutti i campi dell’ordine sociale. In generale , il pensiero economico del XVIII secolo attaccò le istituzioni economiche dell’Antico Regime, e sebbene si possa dire che promosse il nascente capitalismo, Rousseau scrisse prima dell’inizio della Rivoluzione Industriale. I pensatori del tempo consideravano che la servitù, il maggiorascato e l’eredità della terra, l’organizzazione corporativa ostacolarono la libera circolazione delle merci e dei fattori produttivi e, di conseguenza, rallentarono il progresso economico (…)>>). In sostanza Bellod Redondo conclude il suo saggio evidenziando che Rousseau non viene considerato un pensatore economico perché non era un liberale nel senso smithiano del termine; per cui, pur meritando un posto tra gli economisti fisiocratici, non viene considerato tale perché fornirebbe un ventaglio interpretativo più ampio rispetto al passaggio dall’Ancien Regime al capitalismo liberale. Eppure, nonostante Rousseau non sia funzionale al nascente capitalismo liberale vi è un passaggio che proprio Bellod Redondo mette in evidenza nel suo saggio e riguarda il manifestarsi della volontà generale come espressione autentica del bene comune in relazione ai corpi intermedi, espressione di interessi particolari; da qui scaturisce l’interpretazione di un Rousseau ostile ai corpi intermedi. Rousseau è un individualista e l’individualismo è l’essenza del Capitalismo. L’individualismo proprio del Liberalismo introdotto nella Democrazia spianerà la strada ad una nuova e più raffinata forma di sfruttamento.

Il regista Gillo Pontecorvo, attraverso il personaggio di Sir William Walker, lo spiega agli schiavisti di Queimada nell’omonimo film. Lo storico del diritto Giovanni Cazzetta lo spiega attraverso un’approfondita analisi in un suo scritto dal titolo “Il lavoro”33. Per il Cazzetta due sono gli eventi che aprono l’età contemporanea all’insegna di grandi speranze: la rivoluzione francese, che avrebbe dovuto dare a tutti la libertà anche quella di lavorare e la rivoluzione industriale, che avrebbe dovuto assicurare prosperità. Levatrice di entrambe, la libertà individuale, che nel mondo del lavoro si tradurrà nella eliminazione delle Corporazioni, retaggio antico, addirittura romano. L’eliminazione delle Corporazioni, del maggiorascato, della manomorta, la vendita delle proprietà ecclesiastiche e l’abrogazione di tutta una serie di istituti che bloccavano la circolazione delle merci, tra le quali il lavoro, sono il prodotto della Rivoluzione Francese che in nome della libertà individuale di fatto crea le condizioni per nuove forme di schiavitù e di sfruttamento. L’istituto giuridico attraverso il quale la libertà individuale si esplicita è il contratto, che diventa l’istituto giuridico attraverso il quale le classi alte continuano a mantenere il proprio status sociale. Le corporazioni e i corpi intermedi che impediscono la libertà del lavoratore, verranno abrogate con le leggi d’Allarde del 2 – 17 marzo 1791 e Le Chapelier del 14 – 17 giugno 1791. Con l’abrogazione delle corporazioni vengono creati i presupposti per impedire che i lavoratori possano in qualche modo organizzarsi al fine di riequilibrare il rapporto contrattuale con i padroni. Questo passaggio,che si consuma durante la Rivoluzione francese, avrà effetti deleteri per milioni di uomini, i quali forniranno manodopera a buon mercato alla nascente industria in nome della Libertà e dell’Uguaglianza. La legge Le Chapelier, eliminando i corpi sociali intermedi, introdusse pesanti sanzioni per coloro che violavano la legge al fine di inibire le nascenti associazioni di lavoratori. Nella esposizione della legge, Le Chapelier prese a riferimento interi passaggi del “Contratto Sociale” di Rousseau. Gli effetti di tale provvedimento legislativo sulle masse proletarizzate furono deleteri e ci sarebbero voluti decenni perché potessero vedere migliorate le loro condizioni. Karl Marx, nel Capitale, definì questa legge un vero e proprio “colpo di Stato”.

Il dibattito sul significato della Libertà, della Democrazia e dell’Uguaglianza continua ad essere attuale. Interessante, per l’economia del discorso che sto sviluppando, è il contributo che Tocqueville diede al dibattito che interessò l’Assemblea Costituente della Francia del 1848 – 49. Da quel dibattito emerse in modo chiaro come la Libertà dei Democratici e soprattutto dei Socialisti è altra cosa rispetto alla Libertà dei Liberali. Sia chiaro, lungi da me condividere la differenza fatta da Croce tra Liberalismo e Liberismo, per quanto mi riguarda sono esattamente la stessa cosa. Tornando a Rousseau economista e sempre ai fini della individuazione delle “radici della disuguaglianza”, emerge con chiarezza che la disuguaglianza sia un dato relativo alla distribuzione della ricchezza e chela disuguaglianza politica sia una sua conseguenza. Nella sua Storia del pensiero economico, Henri Denis34 dedica un capitolo a Rousseau. Scrive Denis:<<È stato sempre al centro dei pensieri di Rousseau la preoccupazione di definire le misure adatte a concretare quest’eguaglianza, sia pur relativa, degli uomini nella ricchezza>>. Rousseau esplicita l’esposizione del tema della giustizia redistributiva ne “La Economia politica” scritto per l’Encyclopedia di Diderot. Scrive H. Denis35:<<Rousseau non propone pertanto di sopprimere la proprietà privata, bensì ipotizza semplicemente, per limitarne il potere e l’estensione, una serie di misure tipicamente “socialiste”. Egli afferma che lo Stato ha la piena facoltà di regolamentare le successioni ereditarie, poiché in effetti, ha cura di sottolineare, il “diritto di proprietà, per la sua stessa natura, non può certo estendersi al di là della vita del proprietario”. Parimenti, lo Stato ha il potere di intervenire per regolare l’alienazione dei beni, affinché non escano dall’ambito della famiglia. Ma infine e soprattutto, Rousseau concepisce l’imposta come uno dei principali strumenti al servizio della realizzazione dell’eguaglianza. (…) l’imposta non deve essere considerata (…) soltanto come un mezzo per rifornire di denaro lo Stato; essa, al contrario, deve “prevenire il continuo aggravarsi delle differenze sociali”>>. È del tutto evidente che l’Individualismo e la Libertà di Rousseau sono altra cosa rispetto all’Individualismo e alla Libertà dei Liberali. Il ginevrino attribuisce allo Stato la capacità di creare l’ordine sociale, i liberali alla Locke e alla Smith attribuiscono tale capacità al mercato. Da questa posizione di Rousseau molti evincono l’origine dello Stato Totalitario. Martone36 parla nel suo saggio di Leviatano democratico aggiungendo che: <<L’opera di Rousseau va compresa, però, a partire dalle contraddizioni del suo tempo. Egli si è fatto interprete, appassionatamente e contraddittoriamente, dell’imperiosa esigenza di giustizia egualitaria che si profilava in maniera irresistibile sullo scenario storico della seconda metà del diciottesimo secolo>>. Alcuni dei temi trattati da Rousseau, come ho provato ad argomentare, sono attuali altri meno o per nulla. Le ragioni sono dovute al contesto storico nel quale è vissuto. Rousseau aveva davanti a sé l’ascesa della società borghese e del sistema economico capitalista con i privilegi e con le disuguaglianza che la libertà dei Liberali portava avanti attraverso la protezione dello Stato Assoluto, come poteva essere appunto la Francia mercantilista (questo almeno fino a quando i benefici delle politiche dello Stato Assoluto non superarono i costi causando la Rivoluzione del 1789)o la Gran Bretagna che ai tempi di Rousseau appariva pacificata dalla lunga guerra civile che l’aveva interessata per tutto il XVII secolo. Più in generale i Governi degli Stati Assoluti del XVIII secolo, divenuti nel frattempo Illuminati, portavano avanti politiche economiche e finanziarie favorevoli all’ascesa della borghesia e al sistema economico e ideale da essa interpretato, il Liberal – Capitalismo, che aveva nell’individualismo proprietario la sua Etica. E’ a questo sistema che Rousseau si oppone con la sua idea di Democrazia fondata su un “Contratto sociale” che abbia in se anche fattori redistributivi; anche se, come abbiamo visto, le sue idee sono state utilizzate per introdurre leggi che oggi chiameremmo antisociali.

A differenza di Rousseau, come vedremo, Tocqueville ha di fonte a sé il primo sistema Liberal - Democratico Moderno e cioè gli Stati Uniti d’America; il sistema politico Britannico e l’esperienza della Rivoluzione francese del 1789 alla quale dedicherà uno studio specifico pubblicato, la prima volta, pochi anni prima della sua morte37; la rivoluzione del 1830, alla quale aderì senza molta convinzione e infine la Rivoluzione del 1848 con la successiva deriva Bonapartista. In un certo senso Tocqueville, rispetto a Rousseau, è stato fortunato perché ha potuto osservare il consolidarsi del Liberalismo e l’emergere di istanze Democratiche e Socialiste legate all’avvento delle masse sulla scena politica.


Note parte I
1 A. de Tocqueville Il pauperismo , a cura di M. Tesini Edizioni Lavoro 1998
E. Antonetti Il lavoro tra necessità e diritto. Il dibattito sociale nella Francia tra le due rivoluzioni 1830 – 1848 . Ed. Franco Angeli 2004
2 A. de Tocqueville La Democrazia in Americana ed. BUR 1982
3 A. de Tocqueville Viaggio negli Stati Uniti Ed. Einaudi 1990
4 Antologia di scritti politici a cura di V. de Caprariis e n. Matteucci – Tocqueville ed il Mulino 1978 pag. 31
5 A. de Tocqueville. L’Antico Regime e la Rivoluzione. Ed. BUR 1996 pag. 55
6 Ibidem nota 5 pag. 56
7 Ibidem nota 5 quarta di copertina.
8 Ibidem nota 5 pag. 61
9 Ibidem nota 5 pag.64
10 Ibidem nota 5
11 Ibidem nota 5 pag. 157
12 Ibidem nota 5 pag. 199
13 M. Foucault. Nascita della biopolitica. Ed. Feltrinelli 2005
14 K. Marx Il 18 brumaio di Luigi Napoleone Ed. Riuniti 1980
15 A. De Tocqueville – Viaggio negli USA ed. Einaudi 1990
16 W. Withman . Foglie d’erba. Ed. Einaudi 1973
17 Tocqueville. Antologia di scritti politici a cura di V. de Caprariis e N. Matteucci . ed. il Mulino 1978 pag.235
18 A. Martone. Le radici della disuguaglianza.Ed. Mimesis 2011 pag.
19 A. Martone . Le Radici della disuguaglianza . Ed. MIMESIS 2011 pag. 98
20 M. Stirner . L’unico e la sua proprietà. L’uomo anarchico. Ed. DEMETRA 1996
21 Ibidem nota 20 pag. 414
22 Ibidem nota 21 pag. 121
23 M. Young – L’avvento della meritocrazia ed. Comunità 2014
24 M.J. Sandel . La tirannia del merito . Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti . Ed. Feltinelli
A . Lavazza – Se il trionfo della meritocrazia porta a una società meno equa. Su Avvenire.it del 19 maggio 2021
V.Pelligra . La retorica della meritocrazia e la contrarietà agli ideali. Il Sole 24 Ore del 13 settembre 2020.
25 Ibidem nota 21 pag. 122
26 Ibidem nota 21 pag. 124
27 L. Boltanski – E. Chiapello. Il nuovo spirito del capitalismo Ed. Mimesis 2014
28 M. N. Rothbard. Sinistra e destra: l’evvenire della libertà. Ed Rubbettino 2012
M. N. Rothbard . Mercato, Diritto e Libertà.Ed. IBL Libri 2017
N. Ianniello Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003, 2 http://www.units.it/etica/2003_2/IANNELLO.htm Il libertarianism: saggio bibliografico
29 Ibidem nota 21 pag. 208
30 A. Martone. Le Radici della disuguaglianza. Ed. Mimesis 2011 pag. 190
31 C. Castoriadis – C. Lasch . La Cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo. Postfazione di J.C. Michéa ed. eléuthera 2014
32 Ibidem nota 30 pag. 193
33 Ibidem nota 30 pag. 207
34 F. Nietzsche. Umano, troppo umano. Volume primo Newton Compton Editori 1979
35 J. Delhomme. Nietzsche. Edizioni Accademia 1971 pag. 37
36Ibidem nota 34 pag. 44
37 J. Ortega Y Gasset. La ribellione delle masse ed. il Mulino 1982
38 F. Nietzsche. Verità e menzogna e altri scritti giovanili. Newton Compton Editori 1981
39 F. Nietzsche. Sull’utilità e il danno della storia. Ed. Newton Compton.1978 pag. 44 - 45
40 K. Mannheim . Ideologia e Utopia- ed. il Mulino 1978
41 M. A, Mariani. Svevo e Nietzsche – Allegoria 59 Anno XXI, terza serie, gennaio – giugno 2009
42 G. Vattimo Il soggetto e la maschera Ed.Bompiani 2003
G. Vattimo. La fine della modernità. Ed. Garzanti 1985
43 F. Nietzsche . Genealogia della morale. Scelta di frammenti postumi 1886 – 1887. Ed. Modadori 1979 pag. 5
44 A. Smith. La ricchezza delle Nazioni. Ed. Newton Compton Editori
A. Smith. Economia dei sentimenti. Ed. Donzelli 2011
45 D. Hume . Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale. Ed. Universale Laterza 1980
46 B. Mandeville. La favola delle api Ed. Hoepli 2011
47 K. Polayi . La grande Trasformazione. Ed. Einaudi 2000
48 A. Sen. Etica ed Economia. Ed. Laterza 2006

* * * * 

PARTE II

Tocqueville- Stirner – Nietzsche

La seconda parte come la prima si ripromette di indagare il tema “ a partire” da il libro “ Le Radici della disuguaglianza” del filosofo della politica Antonio Martone

Tocqueville non è stato solo un fine analista politico è stato anche un uomo impegnato nella vita politica della Francia della prima metà dell’800. Le sue analisi e i suoi studi hanno riguardato gli Stati Uniti e non solo. Tra il 1835 ed il 1837 venne incaricato dalla Società Accademica Reale di Cherbourg di compiere uno studio sul diffondersi della povertà in Francia.1 Gli studi per i quali Tocqueville è diventato famoso riguardano lo studio della società e delle istituzioni degli Stati Uniti 2; ma tutta la sua produzione è utile per capire il contesto politico della prima metà del XIX secolo. La sua opera principale è La Democrazia in America, anticipata dagli appunti presi durante il suo viaggio negli stati Uniti e in Canada3. Tocqueville, come provano altri scritti, è stato un attento e sottile osservatore capace di comparare sistemi sociali, economici e politici diversi. Lo si evince dall’analisi della proprietà privata in Sicilia4 quando scrive:<<Comprendo perfettamente, infatti, che in un paese molto avanzato, nel quale il clima porta all’attività e tutte le classi sono possedute dal desiderio di arricchirsi, come in Francia e soprattutto in Inghilterra, l’estrema divisione della proprietà terriera possa nuocere all’agricoltura e in conseguenza alla prosperità interna, poiché essa toglie grandi mezzi di migliorie ed anche di azione ad uomini che avrebbero la volontà e la capacità di farne uso. Al contrario quando si tratta di risvegliare e stimolare una popolazione infelice e paralizzata per metà, per la quale il riposo è un piacere e presso la quale i ceti elevati sono come sepolti nella loro pigrizia ereditaria e nei loro vizi, non v’è mezzo più efficace che la divisione della terra. Se, dunque, io fossi re d’Inghilterra, favorirei la grande proprietà; e se fossi signore della Sicilia, incoraggerei con ogni mezzo in mio potere la piccola. Non essendo né l’uno né l’altro… torno sveltamente al mio diario…>>. Capacità di analisi e realismo politico, dunque, come si evince dal passo appena riportato. Tocqueville è un Liberale con la convinzione che la Storia dell’umanità sia un continuo progredire verso l’Uguaglianza. Comprende che la Rivoluzione Francese ha solo demolito parte delle istituzioni politiche, economiche e sociali proprie del feudalesimo. La Francia nella quale lui vive ha ancora residui del passato feudale e in molti casi i vecchi istituti giuridici medievali sono stati semplicemente sostituiti da altri senza incidere sulle gerarchie sociali precedenti la Rivoluzione del 1789. Su questo tema illuminanti sono proprio le pagine che dedica alle cause della Rivoluzione Francese del 1789. Scriveva5:<< La rivoluzione non è stata fatta, come si è creduto, per distruggere il potere della fede religiosa; ad onta delle apparenze, è stata una rivoluzione sociale e politica; e, nell’ambito di tali istituzioni, si è proposta non già di perpetuare il disordine, di renderlo in certo modo stabile e di fare dell’anarchia un sistema, come diceva uno dei suoi principali avversari, bensì di accrescere il potere e i diritti dell’autorità pubblica. Essa non doveva cambiare il carattere che la nostra civiltà aveva avuto fino ad allora, come altri hanno pensato, né arrestarne i progressi, e nemmeno alterare nella sua essenza alcuna delle leggi fondamentali su cui poggiano le società umane dell’Occidente. Quando la separiamo da quegli incidenti che ne mutarono per breve tempo la fisionomia nei diversi paesi, per considerarla in sé stessa, si vede chiaramente che risultano di questa rivoluzione fu l’abolizione degli istituti politici che, durante parecchi secoli, avevano regnato in modo esclusivo sulla maggior parte dei popoli europei e che ordinariamente si definiscono come istituti feudali,per sostituirvi un ordine sociale e politico più uniforme e semplice, basato sull’eguaglianza delle condizioni>>. Continua il Visconte6: << Per quanto sia stata radicale, la rivoluzione ha tuttavia innovato meno di quanto si suppone in genere:dimostrerò in seguito che è stata molto meno novatrice di quanto si crede. È vero invece che essa ha distrutto interamente, o è in via di distruggere (perché dura ancora), tutto quanto nell’antica società derivava dalle istituzioni aristocratiche e feudali, tutto quanto vi si riallacciava in qualche modo, tutto quanto ne portava, fosse pure minima, l’impronta. Del vecchio mondo, ha conservato solo quanto a tali istituzioni era estraneo, o poteva esistere senza di esse. Perché la rivoluzione è stata tutt’altro che un avvenimento fortuito >>. Ritengo che “L’antico regime e la rivoluzione” ai fini dell’analisi de “Le radici della disuguaglianza” di Martone sia più incisivo de “La democrazia in America”. Tocqueville, come scrive Martone, affronta il tema del rapporto tra Libertà individuale e Democrazia ossia Uguaglianza, per cui riflettere sulle cause della Rivoluzione Francese diventa fondamentale. Nella sua introduzione al saggio sulle cause della Rivoluzione Francese, scrive lo storico Giorgio Candeloro7:<< L’idea fondamentale che scaturisce dalla ricerca del Tocqueville è quella di una sostanziale continuità tra la Francia dell’Antico Regime e la Francia dell’Ottocento; questa continuità è rappresentata soprattutto dalla tendenza all’accentramento amministrativo, che, secondo Tocqueville, è un elemento che spinge in direzione di regimi autoritari o che comunque pone molti limiti all’esplicazione della libertà politica, in nome della quale la Rivoluzione si era iniziata>>. Per capire questo passaggio bisogna far riferimento ad alcuni significativi brani dell’opera del Visconte. Scriveva Tocqueville8:<< Una cosa sorprende a prima vista: la rivoluzione che aveva per scopo di abolire ovunque ogni resto di istituzioni medievali, non è scoppiata nelle regioni in cui queste istituzioni, meglio conservate, facevano sentire maggiormente al popolo il loro rigore; in tal modo il loro giogo pareva più insopportabile dove in realtà era meno pesante. (…) Nulla di simile esisteva in Francia da lungo tempo: il contadino andava, veniva, comprava, vendeva, contrattava, lavorava a modo suo. Le ultime vestigia di servitù non apparivano che in una o due province dell’Est (…) Ma anche un’altra rivoluzione si era compiuta in Francia nelle condizioni del popolo: il contadino non solo aveva cessato di essere servo della gleba, ma era divenuto proprietario fondiario. (…) Per molto tempo si è creduto che il frazionamento della proprietà fondiaria datasse dalla Rivoluzione e fosse stato prodotto da questa; ma testimonianze d’ogni sorta hanno provato il contrario (…)>> scriveva sempre Tocqueville9:<< Risultato della Rivoluzione non fu la divisione della terra, ma la sua liberazione momentanea. Tutti quei piccoli proprietari si trovavano infatti molto imbarazzati per sfruttare le loro terre ed erano vincolati a molte servitù delle quali non potevano liberarsi >>. Tocqueville, come per la proprietà terriera, analizza anche gli istituti Corporativi, rispetto ai quali scriveva:10 << A torto si accusa il Medio Evo di tutti i mali che hanno potuto produrre le corporazioni industriali. Tutto fa capire che in origine le maestranze e i consolati delle arti furono solo mezzi per vincolare tra loro i membri di una stessa professione e istituire in seno ad ogni industria un piccolo governo libero che avesse il compito di proteggere e nello stesso tempo guidare gli operai. Non pare che San Luigi abbia voluto di più. Soltanto al principio del sedicesimo secolo, in pieno Rinascimento, si immaginò di considerare il diritto al lavoro come un privilegio che il re poteva vendere. Solamente allora ogni corporazione divenne una piccola aristocrazia chiusa e si videro istituire quei monopoli tanto dannosi al progresso delle arti e che tanto indignarono i nostri padri>>.

Citando Letrone, Tocqueville evidenzia che la ragione per la quale vennero istituite le corporazioni fu quella di garantire un gettito fiscale allo Stato Assolutista e accentratore. Secondo Tocqueville11, << Sarebbe dunque un grave errore credere che l’antico regime fosse un tempo di servilismo e di schiavitù vi regnava molta maggiore libertà che ai nostri giorni (n.d.r. siamo negli anni 50 dell’800): ma era una specie di libertà irregolare e intermittente, sempre contratta nel limite della classe, sempre legata a un’idea di eccezione e di privilegio, che permetteva quasi di sfidare tanto la legge quanto l’arbitrio e non giungeva mai a concedere a tutti i cittadini le garanzie più naturali e più necessarie. (…) Ma se questa libertà sregolata e malsana preparava i francesi a rovesciare il dispotismo, essa li rendeva meno adatti forse di qualsiasi altro popolo ad istituire al suo posto il pacifico e libero imperio delle leggi>>. Considerando queste affermazioni, è facile concludere che la Rivoluzione francese altro non fu che una rivolta contro l’Assolutismo e l’accentramento dei poteri nelle mani della Monarchia a difesa della proprietà privata e della sua libera circolazione. Le istanze Democratiche, e cioè di uguaglianza politica, cozzavano con l’interesse di coloro che, dopo decenni di “riforme economiche” ispirate dagli economisti, intendevano la libertà politica solo come difesa della proprietà privata. Scriveva Tocqueville12:<< Secondo gli economisti, lo Stato non deve solo comandare alla nazione, ma foggiarla in un dato modo; tocca ad esso formare lo spirito dei cittadini sopra un dato modello che si è proposto in anticipo; è suo dovere penetrarli di certe idee e fornire al loro cuore i sentimenti che giudica necessari. In realtà i suoi diritti non hanno limiti e quanto può fare non ha confini; non soltanto riforma gli uomini, ma li trasforma; forse dipenderebbe soltanto da esso farne anche degli altri! >> In questo passo emerge l’attualità di Tocqueville: in quel “lo Stato deve foggiare la nazione” si può intravedere il concetto di biopolitica propria di Foucault13. Tocqueville scrive “L’antico regime e la Rivoluzione”, dicevo, a metà degli anni 50 dell’800, pochi anni prima della sua morte. Durante la sua vita ha visto la Rivoluzione del 1830 e quella del 1848, ha visto il fallimento di quest’ultima e la sua trasformazione nel regime bonapartista 14. Tocqueville da studioso e da politico partecipa agli eventi che interessano la Francia fino alla sua morte avvenuta nel 1859. In questo arco di tempo ha visto come sia difficile se non impossibile conciliare le istanze di Libertà e di Uguaglianza sbandierate dalla Rivoluzione del 1789. I “Quaderni”15 che raccolgono le annotazioni del suo viaggio negli USA e nel Canada, lavoro propedeutico all’opera più importante che lo renderà famoso, consentono a Tocqueville di cogliere lo “spirito” di una Nazione che iniziava a muovere i suoi primi passi alla conquista degli spazi enormi che aveva di fronte, che è passato alla Storia come “lo spirito della frontiera” e che caratterizza ancora oggi la società USA. La libertà è per quella nascente Nazione, in primo luogo, libertà di muoversi e di organizzarsi. È una società dinamica, fortemente individualista (gli Stati Uniti che visita Tocqueville sono ancora integralmente W.A.S.P.). Tocqueville vede istituzioni politiche, giudiziarie ed amministrative in formazione, osserva la nascita dei corpi intermedi: non solo i partiti politici ma i singoli stati federali che sono da considerare una sorta di corpo intermedio rispetto allo Stato centrale; descrive la nascita della stampa e dell’opinione pubblica. Sono tutti elementi questi che rendono possibile la Libertà e la Democrazia. Ma tutto questo è possibile perché, come scrive Tocqueville: << Il punto saliente dello stato sociale degli angloamericani è di essere essenzialmente democratico. (…) Esso ha avuto questo carattere fin dalla nascita delle colonie e l’ha più ancora ai nostri giorni>>. Nella sua opera, Tocqueville dedica intere pagine ad analizzare la formazione della società americana partendo dalle prime colonie nella Nuova Inghilterra: è il dato religioso che anima l’egualitarismo e lo spirito liberale in America. Il poeta americano Walter Whitman16 canta il nascente spirito americano nella sua poesia; ma è la narrativa dei grandi scrittori americani dell’800 come Nathaniel Hawthorne, Edgar Allan Poe, Herman Melville, James Fenimore Cooper che lo incarna. Leggendo Tocqueville quello spirito emerge dalla sua analisi sociale, politica ed antropologica. Comparando la formazione della Società Americana alla Società degli Stati Europei quali Francia e Gran Bretagna è del tutto evidente che la prima rispetto alle altre due non ha una “tradizione” per così dire antica, radicata, è tutta da costruire ed è proprio lo spazio, la frontiera che favorisce Libertà, Uguaglianza e quindi Democrazia. Per cui penso che per comprendere le “Radici della disuguaglianza” nel pensiero di Tocqueville bisogna soffermarsi a riflettere sull’idea che egli ha della Libertà. Negli appunti per il secondo volume dell’opera sulla Rivoluzione francese dal titolo “Il gusto autentico della libertà17” si legge:<<L’odio che gli uomini liberi o degni di esserlo portano al potere assoluto nasce da un’idea ragionata e insieme da un sentimento istintivo. Quegli uomini hanno imparato, una volta per tutte, che l’arbitrio di un padrone ritarda sempre o arresta la prosperità pubblica, dà luogo bene spesso al dispotismo, ingenera la guerra e non garantisce neppure quel tanto di benessere che spinge gli uomini avidi o le nazioni degenerate tra le braccia della tirannide: e per questa ragione essi rifiutano di sostenerlo. Ma ciò che li induce a respingerlo, a sottrarsi ad esso ad ogni costo, è il gusto disinteressato, istintivo, involontario, quasi, dell’indipendenza, il piacere nobile e virile di poter parlare, agire, ragionare, respirare, senza costrizione alcuna, il piacere di sentire che non dipende da un uomo ma da Dio e dalla legge. (…) V’è, dunque, un attaccamento ragionato ed interessato alla libertà, che si origina dalla visione dei benefici che essa procura. E v’è poi, un gusto istintivo, irresistibile e come involontario, che nasce dalla stessa invisibile fonte di tutte le grandi passioni, non solo della libertà politica ma di tutte le virtù alte e virili… Questo gusto può, è ben vero, albergare in ogni animo, ma occupa il primo posto solo nel cuore di un piccolissimo numero…>>. È nel passaggio finale della “lettera” di Tocqueville appena richiamata che bisogna collocare le “Radici della disuguaglianza”. Non albergando in tutti gli uomini “virtù alte e virili”, non è nella Democrazia in quanto sistema politico ma negli uomini che si annidano “Le Radici della disuguaglianza”. Scrive Martone concludendo le sue riflessioni su Tocqueville18:<< conservo l’impressione che il merito fondamentale di questo grande autore sia stato quello di segnalare l’avvento di una nuova irresistibile potenza che si andava determinando sotto la forma della “barbarie democratica”. Egli si è chiesto cosa fosse e che cosa fare di essa; come rendere domestica e vivificante il suo essere barbarico; fuor di metafora, come impedire che l’uomo paghi il proprio benessere con la riduzione a piccola cellula di una massa indifferenziata di uguali. Insomma: come restituire legittimo orgoglio all’homo democraticus>>.

Hobbes, Rousseau e Tocqueville mostrano chiaramente la volontà di offrire un modello politico, o forse è più corretto dire una “cultura politica”, capace di tenere insieme le istanze di libertà dell’individuo con l’uguaglianza propria della Democrazia e la protezione da parte dello Stato. Dalla lettura dei tre si evincono chiaramente i limiti di ciascuna proposta. La grandezza di Hobbes, Rousseau e Tocqueville sta proprio nel proporre delle soluzioni pur nella consapevolezza che ognuna di esse presenta luci ed ombre. In Hobbes la consapevolezza dei limiti sta nel fatto che a vincere non sarà il suo modello di Stato e la sua parte politica; ma a vincere sarà il modello di Locke; Rousseau si rende perfettamente conto che la sua idea di Democrazia diretta, il concetto di “volontà generale” ha in sé contraddizioni tali da renderla addirittura irrealizzabile per il semplice motivo che l’idea di “Democrazia” richiede qualità, per così dire, non proprio umane. Possiamo dire che quella di Rousseau è una sorta di riflessione sui limiti umani per la realizzazione dell’Ideale democratico. Tocqueville alla fine ha anche lui ben presenti le contraddizioni ei limiti insiti nella Democrazia, limiti che, come dicevo prima, non sono nel modello in sé ma propri del singolo individuo. Non a caso Martone considera Tocqueville proto – esistenzialista in quanto consapevole del disagio che l’uomo borghese iniziava ad avvertire. Tocqueville muore nel 1859, in piena ascesa del Secondo Impero, dopo aver visto la crisi delle istanze Democratiche e sociali della Rivoluzione del ‘48. A partire da quegli anni ad evidenziare la crisi della società borghese che interesserà l’Europa dalla seconda metà dell’800 fino alla soglia della Grande Guerra saranno poeti come Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, Verlaine e romanzieri come Proust, Mann, Joyce, Musil, Zola. Sono autori che appartengono a correnti letterarie diverse ma hanno un elemento che li accomuna: descrivono i limiti e la crisi della società borghese ed implicitamente evidenziano i limiti dei sistemi politici Liberali.

Nella sua analisi sulle “Radici della Disuguaglianza” Martone richiama Stirner e Nietzsche. Rispetto a Stirner, esordisce individuando i punti in comune con Tocqueville, che ben emergono quando scrive:<<È sul piano politico che la trasposizione della teologia in moralismo laico consuma tuttavia i suoi fasti più recenti. La Rivoluzione francese, nell’ottica del filosofo di Bayreuth, ne costituisce l’esempio più chiaro. Mentre nelle società aristocratiche il gruppo corporativo di cui si faceva parte costituiva la mediazione (il contatto con Tocqueville anche qui mi sembra palese) rispetto alla comunità universale, il terzo stato, vincitore della Rivoluzione francese, rompe tale mediazione. Esso cancella se stesso come stato particolare ed assume un’identità che qualifica ciascuno dei propri componenti in quanto membri della società universale. Nasce così le citoyen, e lo Stato diviene nazione. Chi ci rimette però è ancora una volta il singolo. Quest’ultimo, infatti, nonostante la libertà sia l’icona fondamentale della Rivoluzione, è ben lontano dal potersi davvero liberamente autodeterminare. Non può che costituire emancipazione soltanto apparente quella che permette di liberarsi sì dalla particolare espropriazione di sé che obbligava l’aristocratico davanti alla propria classe e il membro del terzo stato davanti all’aristocratico, ma obbliga ciononostante a rimanere impigliati in quella inedita forma sacrale che ora si chiama nazione)>>19. Non a caso nell’analizzare Tocqueville ho scelto di soffermarmi soprattutto su “L’antico Regime e la Rivoluzione”, invece che sull’opera che lo ha reso famoso.

Quella di Stirner è una critica radicale al Liberalismo, al Socialismo e alla Democrazia. Nessuna di esse è in grado di rendere realmente l’Uomo libero. Da ciò che scrive Stirner20 evinco una sorta di “razzismo intellettuale” rispetto sia all’uomo borghese che all’uomo proletario. E’ quel disprezzo proprio della mentalità dell’uomo piccolo borghese che agogna di avere risorse maggiori che gli consentano di essere “proprietario di se stesso” e nel contempo avverte il pericolo di essere potenzialmente un “proletario”. Questo che è un vero e proprio dramma esistenziale emerge dalla conclusione della sua opera quando scrive:21 <<Padrone della mia forza sono io, nel momento in cui acquisto consapevolezza di essere unico. Nell’unico il possessore si dissolve nel nulla creatore, dal quale è nato. Qualunque essere superiore a me, sia esso Dio o l’uomo, impallidisce al sole di questa mia coscienza di essere l’Unico. Se in me stesso, nell’Unico, io faccio convergere la mia causa, essa diventa proprietà del singolo da cui tutto si crea e che ogni cosa e se stesso consuma; e io potrò dire: Io ho riposto la mia causa nel nulla>>. Il vuoto esistenziale che scaturisce dalla critica di Stirner non è altro che la mancanza di identità da parte di quello che è l’arcipelago sociale rappresentato dalla classe media. Da questo punto di vista il pensiero di Stirner anticipa i temi propri della società post-moderna, della “liquidità sociale” o meglio ancora del mercato nel quale soggetti “Unici” interagiscono con altri soggetti “Unici” come proprietari di se stessi. Stirner dedica molte pagine della sua opera al Liberalismo e alla classe sociale che è portatrice di quella ideologia, la borghesia22:<< La borghesia è la nobiltà del MERITO: “al merito il premio” è il suo motto>>. Questo richiamo al “merito” richiama i rischi ad esso connessi ben illustrati da Michael Young 23e M. J Sandel24. Giustamente Stirner evidenziava che25 <<Con il servire si acquista la libertà, cioè “il merito”, quand’anche il padrone fosse “Mammona”>> e continuava,26<< Libertà significa che la “polis” (lo Stato) è libera; “libertà religiosa”, che la religione è libera: allo stesso modo che “libertà di coscienza” vuol dire che la coscienza è libera. Libertà, dunque, non significa che “io” sono libero, indipendente dallo Stato, dalla religione, dalla coscienza. Non dunque la mia libertà, bensì la libertà d’un potere che mi domina e opprime; libero e solo uno dei miei padroni, sia esso lo Stato, o la religione, o la coscienza. Stato, religione, coscienza, questi despoti mi rendono schiavo: la loro libertà significa il mio servaggio.(…) La “libertà individuale” sulla quale vigila geloso il liberalismo borghese, non significa affatto una libera e illimitata disposizione di se stessi (per cui tutti gli atti sarebbero esclusivamente miei) bensì soltanto l’indipendenza dalle persone. Individualmente libero è colui che non è tenuto a dar ragione a nessuno del suo operato(…)>>, parole, queste di Stirner, illuminanti come illuminanti sono le critiche all’antitesi della borghesia e cioè alla classe operaia, quando scrive:<< (…) voi dovreste dare all’ozio un significato umano. Ma anche il lavoro voi l’intraprenderete, operai, perché spinti dall’egoismo, perché vi bisogna pur mangiare, bere, vivere; come dunque pretendereste poi d’essere meno egoisti nelle ore d’ozio? Voi lavorate unicamente perché dopo il lavoro è gradito il riposo, il dolce far nulla; quello che voi compirete nelle ore d’ozio sarà opera del caso. Ma se si vuol chiudere ogni porta all’egoismo, bisogna dedicarsi a un lavoro puramente disinteressato, al puro disinteresse. Questo solo è degno dell’uomo: il disinteresse è umano perché è proprio soltanto dell’uomo(…)>>. Questi passi tratti da “L’Unico e la sua proprietà” anticipano il dibattito culturale politico del ‘68, nello specifico la protesta “artistica del Maggio” parigino.27 L’individualismo di Stirner per molti versi richiama il pensiero del teorico dell’anarco – liberalismo Murray N. Rothbard28. C’è comunque da evidenziare che l’Unico di Stirner non è completamente avulso dal rapporto con altri individui. Scrive Stirner ne “L’Unico”29:<< La potenza è dell’uomo, il mondo è dell’uomo, l’io è dell’uomo. Ma non dipende forse da me il dichiarare me stesso quale mio proprio signore, mio proprio dominatore? Dunque io dovrò dire così: “La mia potenza è la mia proprietà. La mia potenza mi concede la proprietà. Io sono la mia potenza; per essa io sono proprietà di me stesso”>>. L’Unico proprietario di sé stesso, a meno che non si ritiri in un’isola sperduta, nella relazione con gli altri individui dovrà necessariamente operare nello spazio rappresentato dal “mercato”. Il Liberalismo che Stirner ha cacciato dalla porta rientra dalla finestra. Sia chiaro: Stirner non fa riferimento al mercato come luogo delle relazioni umane, ma la difesa della proprietà privata, l’attacco allo Stato e le critiche al Liberalismo quanto al Socialismo e al Comunismo anticipano alcune delle critiche che muoverà Rothbard. Concordando con Martone30: << Più in generale, si può concludere ricordando – ancora una volta – che nel tempo dell’individualismo secolarizzato e della “contrazione claustrofobica” del senso, l’Io è vuoto e privo di radici e, in quanto tale, esposto al duplice rischio (due facce della stessa medaglia) dell’identificazione populista/totalitaria da una parte, e della polverizzazione indocile ma serializzata dall’altra – comunque in affanno nel confrontarsi con la realtà a partire dalla propria (questa sì davvero unica) concretezza esistenziale. A forme di individualizzazione sempre più accentuate, pertanto corrispondono forme di controllo che appaiono, inevitabilmente, sempre più estese ed intense(…).>> Sulla modernità e i costi che essa ha determinato, della quale Stirner è sicuramente uno dei maggiori esponenti, merita di essere letto il saggio/intervista di Castoriadis e Lasch dal titolo “La cultura dell’egoismo”.31

Il saggio di Martone si conclude analizzando il pensiero di Nietszche. Martone parte comparando gli elementi che accomunano Nietzsche a Stirner e a Tocqueville, lavoro questo di vera e propria filologia. Scrive a proposito di Stirner e Nietzsche32 << (…) la scrittura e l’opera di Stirner è decisamente diversa da quella di Nietsche – se l’autore dell’Unico appare di una estrema stringatezza ed essenzialità, mostrandosi interessato alla valorizzazione dell’Io/Unico più di ogni altra cosa, in Nietzsche il discorso si svolge sondando ogni possibilità che l’espressione filosofica può offrire. (…) Allo stile (invero piuttosto grezzo) di Stirner, inoltre, risponde la scrittura rutilante e potentemente evocatrice di Nietzsche (…) A parte lo stile, però, a differenziare sostanzialmente i due filosofi sono i contenuti categoriali. Mentre l’Io di Stirner, pur appropriandosi dell’intera storia dello spirito, si presenta come un atomo perfettamente in grado (ove volesse) di riprendersi la sua “proprietà” , la soggettività in Nietzsche appare più realisticamente confitta in una situazione epocale che non consente di sottrarsi ad essa se non condannandosi a dover combattere (e magari perire) contro forze formidabili che non è facile, né forse possibile liquidare in breve tempo(…)>>.

Per quanto riguarda il rapporto di Nietzsche con Tocqueville scrive ancora Martone33: <<(…) non è soltanto una comune fenomenologia dell’uomo democratico che accomuna Tocqueville e Nietzsche. Una importante similitudine va riscontrata anche sul tema tocquevilliano del dispotismo di un nuovo tipo. Anche per Nietzsche, infatti, l’uomo democratico, rappresentando la mediocrità sulla scena della storia, incentiva parallelamente la nascita di uomini d’eccezione che, posti in un ambiente modesto, grazie alla loro spregiudicatezza e versatilità, potrebbero diventare veri e propri tiranni. (…)>>. Mi viene da pensare che entrambi sono spaventati dal fatto che in Democrazia possano emergere individui capaci di mettere in discussione la rispettiva superiorità che nel caso di Tocqueville riviene dallo status sociale di aristocratico oltre che valente intellettuale, nel caso di Nietzsche dal ritenersiÜbermensch/Sigfrido quanto meno tendere ad essere tale. L’“Oltre Uomo” di Nietzsche è ben rappresentato dalla musica di Wagner dal quale comunque si svincolerà a partire dal Festival di Bayreuth anche con quanto scriveva in “Umano, troppo Umano”34 . Interessante in merito è la lettera del 24 maggio del 1878 di Wagner ad Overbeck:35<< Da ciò che lei mi ha scritto, deduco che ora il nostro vecchio amico Nietzsche mantiene le distanze. Qualche sconvolgente cambiamento si è andato certamente verificando in lui: tuttavia chi ha avuto modo di assistere alle crisi psichiche alle quali va soggetto da anni, deve quasi dire che la catastrofe da lungo tempo temuta, che lo ha prostrato, non era del tutto inattesa. Io gli ho fatto la gentilezza … di non leggere il suo libro, e il mio augurio e la mia speranza più grandi sono che un giorno mi ringrazierà>>.

Per quanto mi riguarda il pensiero di Nietzsche è da ascrivere all’anticipazione della crisi della Società di massa in cui i processi di Democratizzazione, in atto a partire dalla seconda metà dell’800, stavano portando al superamento dei sistemi politici Liberali all’insegna dell’uguaglianza. Nietzsche è uomo del suo tempo e vive le contraddizioni proprie della nascita del Reich tedesco ad opera di Bismarck. Come scrive J. Delhomme nella sua biografia:<< La Germania degli anni Settanta aveva assistito alle battaglie bismarckiane contro il Cristianesimo organizzato nella Chiesa Cattolica (Kulturkampf) e contro i socialisti (leggi eccezionali; negli anni Ottanta ambedue queste battaglie si riveleranno perdute. Nietzsche sostanzialmente non perdonò mai a Bismarck né allo Stato tedesco questa sconfitta In essa egli vedeva la resa a discrezione di quelli che miticamente avrebbero potuto essere i “signori della terra” ( gli junker) alle masse dei “paria” e alla loro morale; e qui non interessa il fatto oggettivo della giustezza o meno dell’identificazione di socialismo e religione, ma interessa la visione di Nietzsche(…)36>>. Con la nascita delle Monarchie Costituzionali e la crisi degli ideali Aristocratici la stessa Libertà Borghese mostrava i propri limiti a causa dell’ascesa di istanze Democratiche dovute alla radicale trasformazione sociale ed economica che vedeva l’avvento delle masse. Come scriverà Ortega y Gasset37, questo si tradurrà in rivolta quando gli istituti Liberali non saranno più in grado di dare risposte adeguate. Il richiamo di Nietzsche alla cultura greca ha la funzione di mettere in campo una visione del mondo fondata su un pensiero autorevole come era appunto quello greco e rientrava a pieno titolo nei canoni della formazione culturale delle classi alte dell’epoca. Penso che il saggio “Verità e menzogna”38 di Nietzsche vada interpretato come strumento per mettere a nudo le contraddizioni proprie della Società borghese dell’epoca, l’ipocrisia filistea del suo tempo. Il Liberalismo è menzogna perché non rende liberi, la Democrazia è menzogna perché non rende uguali; il Socialismo è ancora peggio perché non è altro che massificazione; infatti, priva l’individuo di un elemento essenziale per la propria libertà, per quanto limitata: la proprietà privata.

L’avvento delle masse, attraverso le prime forme di organizzazione sociali e politiche, se mi si fa passare il termine, tramortisce l’ideale “aristocratico” di Nietzsche. Anche se si allontanerà da Wagner il suo “oltre uomo” rimarrà l’eroe romantico impersonato da Sigfrid, figura ben lontana dall’immagine del borghese intento ad arricchirsi o del proletario massacrato nel corpo e nello spirito da ore di lavoro che lotta per condizioni di vita migliori. “Verità e menzogna”, anche se pubblicato postumo insieme ad altri scritti giovanili, precede “Sull’utilità e il danno della Storia”. Quest’opera è da leggere con la precedente perché, con essa, Nietzsche analizza il ruolo della Storia e la sua funzione. Scrive:39<<Che la vita necessita della storia deve essere compreso altrettanto chiaramente quanto la tesi, che dovrà più oltre essere dimostrata – che un eccesso di storia danneggia l’essere vivente. La storia compete al vivente sotto tre aspetti: lo riguarda, quale essere attivo e che ha aspirazioni, quale essere che conserva e venera, quale sofferente e bisognoso di liberazione. A questa triplicità di rapporti corrisponde una triplicità di tipi di storia: nel senso che è permesso distinguere una specie di storia monumentale, una antiquaria ed una critica. La storia appartiene innanzitutto all’essere attivo e possente, a colui che combatte una grande battaglia, che abbisogna di modelli, maestri e consolatori e non può trovarli tra i suoi compagni e nel tempo presente(…)>>. In questo passaggio si condensa la critica Nietzschiana ai sistemi ideologici rilevandone la “menzogna” e facendo sì che il suo pensiero diventi strumento d’analisi della contemporaneità che, come scrive Martone, pone Nietzsche tra il pre-moderno e il post-moderno. Il tema della crisi delle ideologie verrà sviluppato in modo particolare da Karl Mannheim, il quale analizzerà le relazioni che intercorrono tra l’ideologia e l’utopia40. Potremmo dire che la Storia se presa in dosi massicce fa male perché rende l’uomo succube tanto del passato quanto del presente impedendogli di vivere liberamente/autenticamente la propria esistenza. Proprio il concetto di vivere in modo autentico la propria esistenza fa del pensiero di Nietzsche riferimento sia per Italo Svevo41 che per Gabriele D’Annunzio; poiché l’autenticità non è definibile perché attiene l’uomo oltre l’umanità storicamente condizionata si addice alla sinistra come alla destra. Non a caso Anna Kuliscioff a proposito di Mussolini si espresse dicendo che era un poetino che aveva letto Nietzsche. La critica radicale condotta da Nietzsche alla Società Borghese della quale il proletariato rappresentava l’altra faccia, ha fatto sìche, a partire dagli anni ‘60suscitasse interesse anche a “sinistra”. Cito uno per tutti: Gianni Vattimo42. L’essere oltre la dimensione umana rappresentata dalla modernità vuol dire la destrutturazione di ogni visione del mondo ed è ciò che Nietzsche fa nella “Genealogia della morale”43quando scrive:<< Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno trovare? (…) A questo scopo siamo sempre in cammino come animali alati per costituzione, come raccoglitori di miele dello spirito, e soltanto un’unica cosa ci sta veramente a cuore – portare a casa qualcosa. (…)>>. In questa frase si racchiude la condizione post – moderna propria della contemporaneità. Condizione post – moderna che si è tradotta in sradicamento, flessibilità, perdita di identità, libertà come vuoto frutto della crisi delle Ideologie ma anche delle Utopie.

Nelle sue conclusioni Martone scrive di aver preso in considerazione lo sviluppo del pensiero moderno analizzando come l’individuo abbia costruito, nel corso dei secoli, il rapporto con la comunità di appartenenza tenendo presente il contesto storico e l’autore. La caratteristica fondamentale che emerge dagli autori esaminati da Martone è che l’Individuo è fondamentalmente il proprietario di se stesso; egli, emancipandosi dai vincoli religiosi e morali, attraverso l’utilizzo della proprietà, in primis quella che esercita su se stesso, afferma la propria libertà rispetto al contesto storico nel quale si trova ad operare. Perfino Rousseau, che critica la proprietà privata ritenendola un furto, non ne sostiene l’abolizione; infatti, pone questioni di equa distribuzione della proprietà privata, sia tra individui contemporanei che tra generazioni, proponendo interventi legislativi tesi a limitarne l’uso non certamente ad abolirla. Il diritto di proprietà da intendere come diritto al possesso di se stessi è il dato della modernità che si addice al contesto storico egemonizzato dal pensiero unico Liberale.

L’esercizio della Libertà Individuale tramite l’uso della proprietà, in età medievale,trovava limiti di ordine morale, etico o semplicemente politico giuridico;erano presenti limiti anche nella “modernità”; ma, con la critica operata da Stirner e Nietzsche, ogni limite è venuto meno. Le Ideologie in qualche modo limitavano il diritto di proprietà; con la loro crisi e le rivelazioni di Nietzsche circa la “menzogna” del Liberalismo, del Socialismo oltre che delle stesse religioni, il Cristianesimo nello specifico, resta solo l’Individuo Unico e solo libero di poter utilizzare al meglio quello che è il suo “diritto naturale”la proprietà privata. Il contesto attuale ha fatto proprio questa idea con effetti deleteri rispetto alla Società e al senso di appartenenza ad una data Comunità. L’affermazione della Thatcher: << la Società non esiste, esistono solo gli individui. E l’economia ne ha cambiato l’anima>>, è quanto di più stirneriano e nietzschiano ci sia in circolazione. Né Stirner né Nietzsche erano economisti ma l’economia non è avulsa da temi valoriali, religiosi o psicologici. Non è sostenendo che ciascuno di essi è “menzogna” che si libera l’Individuo. Le ragioni dello scambio e della produzione di beni dipendono da una molteplicità di fattori, come provano gli scritti, solo per citarne alcuni, di Adam Smith 44, Davide Hume45, Bernard Mandeville46, Karl Polanyi47, Amartya Sen48.

Faccio mie le conclusioni di Martone: << Non c’è individuo senza comunità; non c’è comunità che non debba appoggiarsi sull’apporto imprescindibile dell’individuo. Occorre rilanciare l’idea olistica dell’intero, nella convinzione però che nessun intero potrà mai essere tale senza che ciascuna delle sue parti, costituendolo, lo determini.>>. L’esaltazione individualistica e della unicità di ciascuno ha di fatto assecondato l’egemonia del Liberalismo, del Capitalismo, del Mercato e, con essa, la fine dell’identità e del senso di appartenenza. Il vuoto ha semplicemente reso libero l’individuo di scambiare la sua unica proprietà, ossia sé stesso, al di fuori di qualsiasi regola; non a caso assistiamo allo sfruttamento brutale del lavoratore o a pratiche come l’utero in affitto e alla messa sul mercato dei diritti sociali.

La domanda alla quale provare a dare una risposta è come si ricostruisce la Comunità.


Note parte II
 

1 T. Hobbes. De Cive – Editori Riuniti. Pag. 113

2 Ibidem nota 1 pag. 80

3 R. Giurato –Stato, Corona e Chief Ministers. L’evoluzione politico – istituzionale inglese in età moderna. Ed. Il Chiostro 2° Edizione 2011

4 A cura di L. Strauss – J. Cropsey Storia della filosofia Vol. II politica - Hobbes di L. Berns Ed. il melangolo 1995 pag. 146

5 P. Tincani – I contrattualismi. Thomas Hobbes in Filosofia del diritto Ed. Le Monnier 2017 pag. 69

6 H. K. Scheneider – Antropologia economica. Ed. il Mulino 1985

J. Diamond – Armi, Acciaio e Malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Ed. Einaudi 1998

7 T.Hobbes Leviatano . Editori Riuniti 1982

8 Ibidem nota 7 pag. 138

9 A. Pérez y Soto Dominguez – Sobre el froge del estado y las sociedades mercantiles. Revista Temas 2012 pag. 35

10Ibidem nota 9 pag. 39

11 Ibidem nota 9 pag. 49

12 H. Grueso Hurtado – La moral hobbesiana como equilibrio de mercado. Investigaciones de Historia Economica June 2013

13 J.J. Chevalier Storia del pensiero politico ed. il Mulino vol. II

14 J.J. Rousseau – Origine della Disuguaglianza – ed Feltrinelli 2019

15 I.I. Rousseau – A Discourse on Political Economy – ISN ETH Zurich 2008 testo in inglese

16J.J. Rousseau.Il contratto sociale Ed. Einaudi 1984

17McPherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke Ed. ISEDI

18 A. Martone –Le radici della disuguaglianza. Ed. Mimesis 2011 pag.74

19 Ibidem nota 18 pag. 74

20 D. Held. Modelli di democrazia. Ed il Mulino 2007 pag. 410

21M. R. Ferrarese- La governance tra politica e diritto ed. il Mulino

M. R. Ferrarese – Promesse mancate – ed. il Mulino

22 J. Locke. Trattato sul governo – ed. Riuniti

23 Ibidem nota 14

24 J.J. Chevalier – Storia del pensiero politico Volume II – L’età moderna ed. il Mulino 1981

25 Ibidem nota 4 pag. 146

26 T. Hobbes Leviatano. A cura di Tito Magri Editori Riuniti 1982

27 Ibidem nota 14

28 J.J. Rousseau – Il Contratto Sociale. Ed. Einaudi 1984

29 J.J. Rousseau - L’Emilio. - La Scuola Editrice 1978

30 J. A. Schumpeter – Storia dell’analisi economica. Edizione ridotta a cura di Claudio Napoleoni. Ed. Boringhieri 1979

31 J.F. Bellod Redondo –Reivindicacio de Rousseau – Revista de economia Istitucional Vol. 18 n. 34 Primer semestre /2016 PP 19 – 37 pag. 30

32 Ibidem nota 30 pag.

33 G. Cazzetta In Treccani – Il contributo italiano alla storia del pensiero- Diritto – 2012.

34 H. Denis – La restaurazione dell’idealismo sociale : Jean Jacques Rousseau in Storia del pensiero economico Vol. I L Ed. Oscar Saggi Mondadori pag. 290

35 Ibidem nota 32 pag. 291

36 A. Martone . Le Radici della disguaglianza. Ed. Mimesis 2011 pag. 89

37 A. de Tocqueville L’Antico regime e la Rivoluzione. Ed. BUR 1996

Add comment

Submit