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ospite ingrato

Negatività, totalità e nuove forme della critica

di Giorgio Cesarale

Die Brucke e1607710800359Il Novecento ha voluto realizzare l’idea, ha detto Alain Badiou, ma per realizzarla, si potrebbe aggiungere, ha anzitutto provato a cambiarla.1 Esso è stato infatti un secolo rivoluzionario non solo dal punto di vista sociale e politico o da quello artistico e scientifico, ma anche da quello filosofico. Forme, contenuti, risultati dell’impresa filosofica moderna sono rimasti “spiazzati” da un discorso nuovo, caratterizzato dalla radicale ricombinazione dei materiali consegnati dalla tradizione. Se si dà infatti uno sguardo alla costellazione filosofica del Novecento, dall’ermeneutica alla fenomenologia passando per il pragmatismo e la filosofia analitica, ci si accorge che ciascuna di queste correnti ha inteso effettuare una svolta, capace di proiettare la filosofia fuori da una situazione considerata ormai priva di sbocchi, di ogni autonoma possibilità rigeneratrice. Sennonché, dire “filosofia moderna” significa anche dire, come è noto, “critica”. A quale destino si è perciò dovuta sottoporre la critica, tipico manufatto del pensiero europeo sette-ottocentesco, entro il contesto filosofico novecentesco? È una domanda cruciale, per l’insieme delle implicazioni che reca con sé, e non è perciò un caso che attorno a essa si sia venuta componendo una vasta e articolata riflessione. A tal proposito, la nostra convinzione è che, malgrado le sue difficoltà, tale riflessione debba proseguire, sebbene si tratti di volgerla verso margini inesplorati, o non esplorati con sufficiente energia, come sta peraltro accadendo nel dibattito che su questo tema si sta svolgendo sulle colonne dell’«Ospite ingrato». Le notazioni che seguiranno cercheranno di conferire a questa convinzione un profilo più preciso.

 

I. Critica immanente e negazione determinata

La tesi da cui vorremmo muovere, benché a essa si congiunga inizialmente un certo grado di forse inevitabile schematicità, è che il Novecento filosofico, anziché comprimere il discorso della critica, lo abbia piuttosto riarticolato e pluralizzato. Qual era infatti il modello vincente di “critica” con cui il pensiero filosofico si è dovuto misurare alla fine dell’Ottocento? Tale modello, prefigurato nelle opere di Hegel e Marx e incarnato da un soggetto sociale ben preciso e politicamente in ascesa, la classe operaia, era quello che abitualmente viene chiamato «critica immanente». Le caratteristiche fondamentali, generali, di questo modello sono quattro:

  1. la differenza fra nocciolo razionale di una realtà e suo guscio esteriore, per dirla in termini marxiani, o fra concetto e Verwirklichung, fra essenza e fenomeno, per dirla in termini più hegeliani e allo stesso tempo più vicini a certe espressioni della Scuola di Francoforte (Marcuse, Krahl);

  2. la differenza fra l’astratto e il concreto, fra ciò che è povero di determinazioni, e che in quanto tale “soffre” per la sua unilateralità e limitatezza, e ciò che è sintesi di molte determinazioni e perciò ricolloca in sé il motivo del suo esserci;

  3. l’idea che le condizioni della critica siano date all’interno dell’oggetto criticato, nella misura in cui esso è autonegativo, contraddittorio con sé. Il rovesciamento dei caratteri dell’oggetto non è dunque compito del suo osservatore, ma dell’oggetto stesso;

  4. l’unità fra teoria e prassi, detta in termini marxisti, o fra idea del vero e idea del bene, espressa in termini più hegeliani.

A tali requisiti della «critica immanente» si connettono tre ulteriori determinazioni. Ci riferiamo, in primo luogo, a ciò che il primo Lukács ha chiamato «il punto di vista della totalità»;2 in secondo luogo, all’assunzione della storicità come contrassegno dell’oggetto della critica così come del soggetto che, partecipandone, ne riflette gli svolgimenti; in terzo luogo, alla questione delle potenzialità utopiche custodite nel presente. Se infatti, per quanto riguarda il punto di vista della totalità, si afferma che la coscienza è immanente all’oggetto, e cioè che ciò che Hegel nella Filosofia del diritto avrebbe chiamato «il soggettivo»3 è sempre immanente allo spirito oggettivo, allora sarà inevitabile concluderne che il rinvio alla totalità – a qualcosa che sopravanza la soggettività pur includendola – è dimensione costitutiva della «critica immanente». Lungo la medesima direttrice bisogna procedere a proposito della storicità: se l’oggetto è scisso al proprio interno fra essenza e fenomeno, e il rapporto fra questi momenti non è di semplice identità, allora esso sarà percorso da una tensione, la cui forma di manifestazione è la storia. Entro questa storia, infine, l’utopico – l’aspirazione a realizzare un’«associazione di uomini liberi, in cui ciascuno ha la medesima possibilità di dispiegarsi»4 – può vivere nelle pieghe del presente solo perché quest’ultimo è fratto, dilaniato dalla lotta fra la razionalità della sua essenza e l’irrazionalità dei dispositivi di potere che ne impediscono lo sboccio.

Tuttavia, con ciò siamo giunti a uno stadio di elaborazione ancora inferiore, per grado di astrazione, rispetto a quello cui vorremmo approdare. La nostra impressione, infatti, è che il complesso delle caratteristiche della «critica immanente» che abbiamo fi qui enumerato sia descritto da ciò che Hegel ha chiamato, nell’“Introduzione” alla Fenomenologia dello spirito, «negazione determinata».5 Quest’ultima è una forma di negazione che – a differenza tanto della negazione proposizionale, che elimina il contenuto negato, quanto della negazione metafi a, che ha come risultato l’assenza di determinazioni6 – distilla un nuovo contenuto a partire dal rivolgimento interno all’oggetto. Ora, se si fi sa l’immagine di tale forma di negazione non è diffi intravedervi i lineamenti principali della «critica immanente». In tanto, infatti, la negazione determinata può essere, in quanto in essa 1) si esplicita la contraddizione fra l’essenza e le forme fenomeniche dell’oggetto; 2) si attingono ogni volta nuovi livelli di concretezza. Se infatti l’oggetto 1) non fosse abitato dalla diseguaglianza fra contenuto noetico e complesso delle manifestazioni ricavabili non si potrebbe produrre una diversa configurazione dell’oggetto stesso, data ogni volta dalla nuova connessione fra il primo e le seconde; ma 2) appena l’oggetto accoglie la negazione delle sue configurazioni precedenti esso diventa più concreto. Tuttavia, anche l’unità fra teoria e prassi, il quarto “criterio” della critica immanente, si costituisce nelle forme della negazione determinata. Se infatti la conoscenza è, secondo la concezione classica, già avanzata da Platone del Teeteto, «opinione vera giustifi ta», vale a dire un’opinione che acquisisce verità nella misura in cui corrisponde al mondo nella sua oggettività data, altra rispetto all’attività conoscitiva stessa, appena quest’ultima dovrà esibire le garanzie dell’unità fra pensiero e oggetto sarà costretta a evidenziare le connessioni dimostrative che la giustifi ano, negando con ciò, anziché conformarvisi, l’oggettività data. Ma negare al mondo esterno il suo au- tonomo valore conoscitivo signifi introdurre l’universalità del concetto nel mondo, signifi dare avvio alla realizzazione di ciò che, prima facie, appare opposto al vero, vale a dire il bene. L’unilateralità della pura attività conoscitiva, della theoria, è con ciò tolta, perché la conoscenza può raggiungere il suo scopo solo se diventa attuazione pratica del concetto, prassi, dunque il bene.

Sono note le vicende storiche che hanno condotto alla messa in crisi o all’indebolimento di questo modello della critica, persino dentro le postazioni che avevano provato a difenderlo. Non importa perciò, in questa sede, ripercorrerle. Più importante è riattraversare le specifiche ragioni teoriche che ne hanno decretato l’indebolimento. Su questo terreno, si può sostenere che per un verso la «negazione determinata» come anima della «critica immanente» è stata respinta perché, come la dialettica che la innerva, è sembrata portare a una chiusura forzosa dell’orizzonte storico, costretto, con l’insieme dei saperi che vi corrispondono, a ospitare solo i cambiamenti previsti nel modello teorico; per altro verso, perché essendo essa, la negazione determinata, dipendente dai rivolgimenti interni all’oggetto la critica immanente ha dovuto comprimere la sua libertà ricostruttiva, la sua capacità di incalzare l’esistente per allinearlo a bisogni e scopi razionali più alti. Se poi nell’oggetto, come è accaduto alla seconda generazione della Scuola di Francoforte (Habermas, Offe), è stata rintracciata una trama contraddittoria sempre più rarefatta e non-antagonistica, incapace di generare le condizioni per la riconfigurazione del suo assetto, affidarsi a tale modello della critica è apparso sempre più problematico. Per salvare la critica dall’estinzione si è ridislocato lo stesso luogo della critica, sbalzandolo fuori dall’immanenza all’oggetto.7

È in forza di tale consapevolezza che la ricerca novecentesca intorno alle forme della critica si è diramata in molteplici direzioni, spesso fra di loro molto distanti. Ciò cui abbiamo assistito è, così, una proliferazione delle forme della critica, in virtù dell’attraversamento di canali per un certo periodo poco battuti (si pensi qui alla massiccia ripresa nell’ultimo scorcio del Novecento dei motivi “normativi”, soprattutto nelle aree filosofiche di lingua inglese e tedesca) e dell’apertura di nuovi fronti (legati all’espansione di quel blocco teorico, particolarmente presente nelle aree filosofiche di lingua francese e italiana, che è variamente ricollegabile all’influenza di Nietzsche e Heidegger). Ne è venuto fuori un quadro eterogeneo, colmo di contaminazioni e formule nuove,8 nel quale sono tuttavia sempre ravvisabili, accanto al modello della critica immanente, di ascendenze “dialettica”, altri due grandi modelli: la critica del razionalismo liberaldemocratico, kantiano e illuminista, e la critica del pensiero negativo.9

Abbiamo appena detto delle difficoltà della critica immanente a tenere il passo con i profondi cambiamenti storici e teorici della seconda metà del Novecento. Ma anche le difficoltà della critica di stampo “normativo” e di quella del pensiero negativo, che avevano invece dominato la scena intellettuale a partire dal ’68, sono diventate negli ultimi anni particolarmente visibili, come avevano già avuto modo di segnalare Luc Boltanski e Ève Chiapello in Il nuovo spirito del capita- lismo. Boltanski e Chiapello, in particolare, rilevavano l’incipiente obsolescenza del paradigma della «critica artistica» al capitalismo, vale a dire la minore produttività contemporanea della critica romantica, variamente ispirata dalle trasformazioni del pensiero negativo.10 Tuttavia, anche la critica “normativa”, di ispirazione kantiana, è costretta oggi a misurarsi con sfide sempre più ardue da governare conservando inalterato il proprio impianto teorico. Sarebbe difficile per esempio ripromettersi oggi di scrivere una teoria normativa della democrazia della portata analoga a quella contenuta in Fatti e norme di Habermas, senza fare seriamente i conti, come purtroppo accade in questo libro, con gli effetti della mondializzazione capitalistica e delle più recenti trasformazioni della forma-Stato.

Ciò non vuol dire però che le critiche mosse al paradigma della critica immanente dal razionalismo normativo e dal pensiero negativo possano essere rapidamente rispedite in archivio. La loro riflessione sulle inadempienze della «negazione determinata», sulle sue chiusure deterministiche e sui suoi cedimenti giustificazionisti, rimane importante. Il paradigma della critica immanente, che oggi peraltro è nuovamente in grado di dispiegare potenti risorse concettuali, come è testimoniato dalla sua riattivazione in vaste zone del pensiero contemporaneo (con Jameson, Postone, Žižek etc.), deve riuscire a farvi fronte.11 Come? La questione va anzitutto affrontata a livello specificamente teoretico. A questo riguardo, la nostra tesi è che tali inadempienze debbano la loro origine alla separazione della «negazione determinata» dal più ampio decorso della hegeliana «riflessione determinante», vale a dire dal più complesso svolgimento di ciò che Hegel, soprattutto nella dottrina dell’essenza della sua Logica, ha chiamato «negatività». Ma che cosa è la negatività nella Logica di Hegel? Soffermiamoci, per capirlo, sullo stesso testo hegeliano.

 

II. Il concetto di negatività in Hegel

La negatività è la negazione determinata, ma in quanto applicata a se stessa, in quanto autoriferita, esito degli effetti della sua autoriflessione.12 Nella dottrina dell’essenza della Logica, la negatività fa il suo ingresso in corrispondenza del primo grado di sviluppo della riflessione, chiamato «riflessione ponente». La riflessione, anzitutto, è sempre un «ritornare», donde i suoi legami profondi con il «metodo trascendentale»: essa “ritorna”, rimbalza, dalla determinatezza di cui è il più generale correlato, di cui cerca di rispecchiare i caratteri. Ma qual è la determinatezza da cui la riflessione, quando è «ponente», ritorna? Parliamo della «parvenza». Quest’ultima è infatti una qualità che, dei due caratteri che costitutivamente le aderiscono, l’esserci e il non esserci (una qualità è tale perché altro rispetto al resto delle qualità), non sviluppa che il secondo, avendo la crisi della “metafisica”, di cui la dottrina dell’essere ha nel frattempo disegnato il diagramma, sottratto ogni positività, ogni stabile presenza, avrebbe detto Heidegger, alle determinatezze essenti. Ma se la parvenza è una qualità di cui è possibile rilevare solo l’esser per altro, ciò con cui avremo allora a che fare è una «immediatezza riflessa»,13 una determinatezza attingibile solo attraverso la sua negazione.

È in questo punto che la riflessione ponente irrompe: essa “ritorna” dalla parvenza, la inscrive nel suo movimento mediativo. D’altra parte, la parvenza stessa è tale solo in quanto autoriferimento negativo; ne consegue che ciò con cui la riflessione ponente ha a che fare quando si rivolge alla parvenza è di nuovo se stessa. Nella riflessione ponente si ratifica, così, l’avvenuta identificazione fra negatività e determinatezza immediata, fra riflessione e immediatezza. Ma che cosa succede quando la riflessione non ha più un altro con cui relazionarsi? Non avendo altro con cui entrare in relazione, la negatività eserciterà la sua azione solo su se stessa, diventando unità di sé e del suo opposto, del negativo cui essa mette capo negando continuamente se stessa. Tuttavia ciò che, in generale, nega il movimento mediativo è, di nuovo, una determinatezza. La riflessione ponente sarà perciò unità del movimento riflessivo e della determinatezza a esso immanente. Una determinatezza diversa, tuttavia, da quella dell’essere, esteriore e puntiforme, perché “partorita” dalla stessa negatività. È, questa, la specifica forma di determinatezza immediata prodotta dalla dottrina dell’essenza, ciò che Hegel chiama «esser posto».14

La negatività, tuttavia, non trova in questo «esser posto» requie. Deve agire ancora, perché non ha “dimenticato” la sua onnilateralità: se finora, infatti, essa ha negato l’immediatezza, incorporandola, d’ora in poi essa dovrà destituire il suo stesso meccanismo di produzione, dovrà superare lo stesso movimento di superamento della immediatezza. Movimento, lo abbiamo detto poc’anzi, che è posizione del proprio opposto, della determinatezza immediata in quanto esser posto. Ne risulta che la negatività dovrà negare lo stesso movimento di posizione dell’esser posto, dovrà annullare lo stesso meccanismo del «porre». Ma superare il «porre» vuol dire sottrarre a esso, anche solo per un attimo, il processo di determinazione dell’esser posto. La riflessione, dice Hegel, «trova prima di sé un immediato ch’essa sorpassa e dal quale essa costituisce il ritorno».15

Questa negazione del movimento di posizione dell’esser posto è la «riflessione presupponente», con la quale si presenta tuttavia un problema potenzialmente distruttivo: il procedere della negatività è, a questo livello, inarrestabile, con ciò precludendo ogni forma di “stabilizzazione” di sé. Si prospetta una situazione teorica analoga, nella sua improduttività, al divenire della prima triade della Logica, al terribile “cominciamento”, nel quale determinazioni stabili e consistenti con sé si palesano solo allorché il divenire diviene altro da sé, dissolvendosi. Hegel ha avvertito seriamente questo rischio e ha dovuto mettersi seriamente all’opera per allontanarlo. La via d’uscita presentata consiste nella costruzione, complessa e difficile, del passaggio dalla riflessione ponente alla riflessione esteriore.

Il motivo di fondo del passaggio hegeliano si può cogliere appieno solo compiendo una completa rotazione di prospettiva, osservando l’intera vicenda logica non dal lato del movimento mediativo, ma da quello dell’esser posto. Quest’ultimo, dicevamo, è un’immediatezza presupposta alla riflessione che tuttavia si mostra a quest’ultima omogenea sia perché in essa destinata a tramontare sia perché sua proiezione. Ma se così è, se l’esser posto ha acquisito a sé tutte quelle determinazioni che, prima, sembravano appartenere solo alla riflessione, esso diventerà equivalente alla riflessione. Anche l’esser posto non avrà più null’altro al suo fianco, avendo assorbito entro di sé il movimento mediativo. Come tale, come alcunché di autonomo, l’esser posto perderà la spinta a trascorrere in altro, nella riflessione stessa. Ma ciò che è autonomo, in quanto resiste, hegelianamente, al dileguamento, è qualitativamente differenziato; la variazione melodica è finalmente più forte.16

Con la transizione dalla riflessione ponente alla riflessione esteriore, l’esser posto riguadagna, dunque, un più elevato grado di stabilità. È per tale ragione che in questo luogo si affaccia il concetto di «determinazioni della riflessione», le quali si differenziano dalle determinazioni dell’essere, perché mentre quest’ultime, dice Hegel, sono transeunti, semplicemente relative, e che stiano nel riferimento ad altro; […] le determinazioni riflesse hanno la forma dell’essere in sé e per sé; esse si fanno quindi valere come essenziali, e invece di essere trapassanti nelle loro opposte, appaiono anzi come assolute, libere e indifferenti le une rispetto alle altre.17

La riflessione esteriore, tuttavia, con il suo richiamo a una logica qualitativa, impedisce al ciclo della riflessione, della mediazione pura, di compiersi. È con l’avvento della terza parte della riflessione, la riflessione determinante, che questo blocco della riflessione, questo cortocircuito fra riflessione e determinatezza, appare chiaramente. Anche il fare, dice Hegel a questo riguardo, della riflessione esteriore è un fare della riflessione überhaupt: essa però è un fare che pone un immediato come esteriore, che si sdoppia fra l’inaggirabile esplicarsi della mediazione e il momento appena maturato di esteriorità “qualitativa”. E, a questo proposito, Hegel aggiunge: la riflessione esteriore «diventando determinante, pone un altro, l’essenza, al posto dell’essere superato; il porre pone la sua determinazione non al posto di un altro; esso non ha presupposto».18

Il linguaggio filosofico hegeliano è irto di difficoltà, ma il messaggio che vi è depositato può essere in ogni caso appreso: mentre la riflessione ponente si muove all’interno di sé, riproducendo, “tautologicamente”, se stessa, la riflessione esteriore compie una “reale” mediazione perché sostituisce la originaria determinatezza “qualitativa” con l’essenza, e cioè con il movimento riflessivo stesso. Essa muove dalla determinatezza “qualitativa”, ma in seguito scopre che questo riflettere sul suo punto di partenza non è che il fare della riflessione stessa. Si attua una negazione concreta: il ritorno della riflessione nega, infatti, il dominio della determinatezza “qualitativa”. E poiché nel pensiero critico di derivazione dialettica non solo omnis determinatio est nega- tio, ma ancora di più, omnis negatio est determinatio, ogni negazione è sempre determinazione, questa scansione concettuale è chiamata «riflessione determinante».19

 

III. Negatività e critica

Con il passaggio dalla riflessione esteriore alla riflessione determinante appare un momento decisivo per tutte quelle prospettive critiche, di tipo, lato sensu, “trascendentale”, che hanno voluto scavare un più profondo solco fra l’ideale e il reale: la negatività o riflessione, se vuole essere fedele al suo fondamentale obiettivo di mediazione, non può

incontrarsi con una determinatezza a sé già del tutto omogenea. Reale mediazione, reale negatività, si hanno solo quando la determinatezza altra è davvero tale. Per inciso, questo è il motivo per cui l’«esser posto», in quanto determinatezza immediatamente risolvibile nella riflessione, non può adeguatamente rappresentare il concetto di riflessione. Essendo integralmente penetrato dalla negatività, l’esser posto non può sollecitare nessuna attività da parte di essa. Ma è decisivo anche quanto Hegel sostiene a proposito della negatività pura dispiegatasi con la riflessione ponente. Se l’attività negatrice, dunque critica, assorbe tutto all’interno di se stessa, allora essa sarà costretta negare anche se stessa, e quindi a porsi come qualcosa di presupposto. Essa cioè si negherà in quanto attività, trasformandosi nel suo opposto, in una nuova determinatezza, priva nondimeno di quella mobilità e di quella dinamicità che sembrava possedere nella precedente configurazione.

Nel rilevare il destino “nichilistico” della negatività pura Hegel compie, a nostro avviso, un gesto oltremodo significativo, che depotenzia ante litteram il dispositivo del pensiero negativo. Quando una delle fonti di questa tradizione, Heidegger, sostiene infatti che «la distinzione di essere ed ente è il fondamento ignoto e infondato, eppure ovunque reclamato, di ogni metafisica»,20 si sta riferendo al fatto che – fin dal Talete che «alla domanda su che cosa sia ciò che è (das Seien- de) risponde: è acqua, [spiegando] qui ciò che è a partire da un ente (das Seiende aus einem Seienden), pur cercando in fondo che cosa è l’ente in quanto essente (das Seiende als Seiendes21 –, la metafisica ha obliterato il fondamento della differenza fra essere ed ente, e dunque la circostanza per cui l’essere di cui pure la metafisica va in cerca non è una realtà ontica, pur tentando ogni volta di identificarlo con quest’ultima. La negatività è insomma il fondamento originario, obliato, ma sempre ricercato e malamente oggettivato, della metafisica. Al contrario, per il pensiero dialetticamente critico la negatività è sempre qualcosa di secondo, una ulteriorità, come abbiamo potuto constatare delineando prima i tratti della riflessione ponente, la quale sorge sulla base della corrosione dell’ultimo resto della dottrina dell’essere, la parvenza, e introducendo poi alla figura delle determinazioni della riflessione, le quali presuppongono il darsi positivo dell’essere. Con ciò Hegel non solo anticipa lo Adorno della Metacritica della teoria della conoscenza e della Dialettica negativa, critico sferzante del mito del Primo e dell’Originario, ma mette sotto scacco anche ogni tentativo di costruire una filosofia della riflessione intesa come filosofia della pura correlazione fra riflessione e determinatezza, fra pensiero e essere.22 L’anteriorità della determinatezza rispetto alla riflessione negativa è hegelianamente cruciale, come in un certo senso aveva intuito il Lukács di Il giovane Hegel e dell’Ontologia dellessere sociale, particolarmente interessato a valorizzare i momenti “materialistici” del pensiero critico-dialettico.

Meditando sull’anteriorità del positivamente discreto sul processo di mediazione riflessiva ci procuriamo, tuttavia, anche i mezzi per ripensare la relazione della negatività con la negazione determinata, alla natura della quale abbiamo dedicato le nostre prime note. Se la negazione determinata è, anzitutto, negazione che produce un mutamento nell’oggetto, mentre fa apparire la differenza fra il nucleo essenziale della cosa e il suo fenomeno, quanto abbiamo appena detto sul potere “corrosivo” della essenza rispetto alla determinatezza conferma, potenziandola, tale capacità della negazione determinata, così come la contraddizione fra essenza e fenomeno che la rende possibile. Persino l’unità fra teoria e prassi, la trasformazione dell’oggetto nella misura in cui la theoria stessa si trasforma, è rappresentata nel passaggio dalla riflessione esteriore alla riflessione determinante, giacché la prima può “passare” nella seconda solo perché traduce il contenuto concettuale nel mondo.

Ma allora, cercando di ricapitolare il ragionamento, dove risiede da ultimo la superiorità teorica della negatività o negatio duplex sulla negazione determinata o negazione prima? La superiorità sta nel fatto che essendo la negatività negazione autoriflessa, negazione autoriferita, sottoposta fin da subito ai tormenti dell’autocontraddizione, essa ha, oltre che uno statuto critico, anche uno statuto autocritico. Essa corrode la datità e l’oggettività irriflessa corrodendo allo stesso tempo se stessa. Ha cioè una intenzionalità critica nei confronti sia di ciò che la vecchia teoria critica avrebbe chiamato “positivismo” sia nei confronti di una trascendentalità e di una normatività che si pongano come costituenti e non mai come qualcosa di costituito, storicamente costituito. La negatività è cioè una trascendentalità che si fa ragione storica, capace di porre le forme mentre le fa inerire ai contenuti e così ritornare su di sé. Filosoficamente, è questo il passaggio che più fortemente manca nelle posizioni trascendentaliste contemporanee, anche in quelle più sofisticate. Si esamini, a questo riguardo, la prospettiva di Karl-Otto Apel: se è suo incontestabile merito aver concepito la comunità ideale e illimitata di comunicazione a muovere dal carattere autoconfutativo di ogni posizione che rivendichi validità pur sottraendosi alla discussione, a muovere cioè dalla negazione determinata di tutte le istanze soggettive parziali e difettose – con ciò avvalorando la necessità di un atto che “ritorni” in sé dalle parziali determinatezze, chiamato, non a caso, «riflessione trascendentale» –, egli non è però giunto ad assegnare allo stesso standard di valutazione un carattere autocritico, autonegativo, storicamente tale. In Apel, la negazione determinata non diventa mai negatività.

Ma come si confronta una filosofia della negatività con i rimproveri di determinismo e debole impulso correttivo che sono stati tradizionalmente indirizzati, lo dicevamo sopra, a una critica impostata sul modulo della negazione determinata? Per un certo verso, la necessità della negatività è rigorosissima: essa porta fino alle estreme conseguenze il meccanismo autonegativo; per altro verso, questa necessità è quella che la consegna al suo stesso annullamento, all’assoggettamento a ciò che è a essa radicalmente altro, vale a dire il primato della determinatezza discreta ed esteriore.23 Né il debole impulso correttivo della negazione determinata trova, crediamo, continuazione nel procedere della negatività: con la separazione della riflessione ponente da quella presupponente e con il nesso fra riflessione esteriore e riflessione determinante ciò che si viene articolando è un’autonomia della funzione critica, non inferiore a quella rivendicata dalle vaste legioni dei pensatori neokantiani contemporanei.24 Solo che, come capita spesso, chi si pone sulle orme di Hegel vuole essere molto più conseguente e radicale: la critica che non diventi autocritica non ha forza trasformativa effettiva, è solo un gesto rassicurante e consolatorio rispetto ai nostri già delineati orientamenti di senso.


Note
1 A. Badiou, Il secolo, trad. it. di V. Verdiani, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 53.
2 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, trad. it. di G. Piana, Milano, Mondadori, 1973, p. 201.
3 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, trad. it. di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 1999, § 25, p. 40.
4 M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in Id., Teoria critica, trad. it. di G. Backhaus, Milano, Mimesis, 2014, vol. II, p. 164.
5 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 52.
6 C. Iber, Metaphysik Absoluter Relationalität: Eine Studie Zu den Beiden Ersten Kapiteln von Hegels Wesenslogik, Berlin-New York, De Gruyter, 1990, p. 221.
7 W. Privitera, Il luogo della critica. Per leggere Habermas, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996.
8 Federica Gregoratto, in Il doppio volto della comunicazione. Normatività, domi- nio e critica nell’opera di Jürgen Habermas, Milano, Mimesis, 2013, pp. 48-58, enuclea per esempio sei modi della critica (ricostruttiva, costruttivista, interpretativa, dischiudente, genealogica, anti-ideologica).
9 Su questi tre modelli della critica che sono anche tre diversi modi della sinistra politica cfr. C. Galli, Sinistra, Milano, Mondadori, 2011, cap. I e G. Cesarale, Una nuo- va stagione per la teoria critica e per la sinistra?, in «Etica & Politica», 22, 2020, pp. 639-648.
10 L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, ed. it. a cura di M. Guareschi, Milano, Mimesis, 2014, pp. 469-471. Il legame fra negatività, attitudine romantica e critica è splendidamente delineato da W. Benjamin, Il concetto di critica darte nel romanticismo, ed. it. a cura di N.P. Cangini, Milano, Mimesis, 2017.
11 Ne ho parlato in G. Cesarale, A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, Roma-Bari, Laterza, 2019.
12 Riassumo in questo paragrafo quanto contenuto in G. Cesarale, La mediazione che sparisce. La società civile in Hegel, Roma, Carocci, 2009, pp. 96-103.
13 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni rivista da C. Cesa, Roma-Bari, Laterza, vol. 2, p. 439.
14 Ivi, vol. 2, p. 447.
15 Ivi, vol. 2, p. 446.
16 Vincenzo Vitiello argomenta la sua proposta «topologica», che dovrebbe consentire la coappartenenza di ordine strutturale e temporalità plurime e sincroniche, enfatizzando la rottura fra «riflessione ponente» e «riflessione esterna» (V. Vitiello, Vincenzo Vitiello, in Storia della filosofia. Filosofi italiani contemporanei, a cura di D. Antiseri e S. Tagliagambe, Milano, Bompiani, 2010, vol. 14, p. 641). Ma tale rottura, come diciamo nel corpo del testo, non è così grande da impedire la loro relazione.
17 G.W.F. Hegel, Scienza della logica cit., vol. 2, p. 450.
18 Ivi, vol. 2, p. 451.
19 Il discorso sul passaggio dall’«esser posto» alle «determinazioni della riflessione» è a un grado molto alto di astrazione. Ma esso è la premessa diretta per pensare lo statuto delle determinazioni della riflessione di cui fa ampiamente uso la scienza sociale critica. Nessuna teoria della «forma di valore», come quella marxiana del Ca- pitale, sarebbe potuta decollare senza l’ausilio delle determinazioni della riflessione, come confessato dallo stesso Marx.
20 M. Heidegger, Nietzsche, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2018, p. 705.
21 M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, ed. it. a cura di A. Fabris, Genova, il Melangolo, 1990, p. 306.
22 La filosofia della riflessione hegeliana non soffre di “correlazionismo”, come altre correnti del Novecento (la fenomenologia husserliana in particolare). Le critiche che Quentin Meillassoux (in Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contin- genza, ed. it. a cura di M. Sandri, Milano, Mimesis, 2012) ha acutamente rivolto al correlazionismo non si applicano perciò a essa.
23 L’assolutizzazione hegeliana della negatività di cui parla giustamente Roberto Finelli nel suo intervento al dibattito non è dunque coincidente con la sua ipostatizzazione, al contrario di quanto Finelli stesso ritiene. L’assolutizzazione della negatività conduce piuttosto al suo “contraccolpo”, al passaggio irruento nella determinazione contrapposta.
24 Autonomia della funzione critica non signifi , sia detto a scanso di equivoci, separatezza del momento “ideale” rispetto a quello “reale”. Che si possa essere critici pur abolendo tale separatezza è precisamente l’obiettivo del discorso qui abbozzato.

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