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Il comune, la comune

di Mario Pezzella*

La negazione della negazione è una sorta di colpo di stato dialettico, e tale rimane anche nella versione secolarizzata di Marx, che la fa derivare dalla contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La fede escatologica che l’estremo della negazione si capovolga necessariamente nel Mondo Nuovo deriva probabilmente dalla tradizione gnostica e dal suo spirito nichilistico-rivoluzionario: la ripetizione di questo tema nel contesto del capitalismo attuale ha tutti i caratteri di un mito storico, con una funzione analoga a quello della repubblica romana per i rivoluzionari francesi del 1789. E’ cioè un’immagine di sogno, che richiede interpretazione. Pure, viene riproposta in varie forme anche nel pensiero critico contemporaneo.

Il passo di Marx sulla negazione della negazione si trova in epigrafe a un importante capitolo del libro Comune di Hardt-Negri, e l’idea che dall’interno stesso delle contraddizioni del capitale fioriscano  le nuove soggettività che lo abbatteranno è ripetuta più volte nel testo. Per esempio: “Questo è il modo in cui il capitale genera i suoi becchini: se vuole perseguire i suoi interessi e vuole autoconservarsi, il capitale deve necessariamente incentivare il potere e l’autonomia della moltitudine che nel frattempo diventano sempre più grandi.

Quando l’accumulazione dei poteri della moltitudine oltrepasserà un certo livello, la moltitudine sarà in grado di padroneggiare autonomamente la ricchezza comune” (p. 310). Il termine moltitudine ha sostituito quello del proletariato, ma la logica del rovesciamento è la stessa [1].

Si può obiettare che ora questo ragionamento è giustificato dalle profonde trasformazioni del lavoro e dal suo divenire sempre più immateriale, cognitivo, fondato sull’estensione sociale del comune e della comunicazione. E’ questo lavoro mentale che il capitale non può non incentivare nella sua configurazione attuale, e che d’altra parte sfugge sempre più intensamente al suo controllo. Così dovrebbe essere: e però così non è, ed è molto difficile spiegare perché ciò che in potenza è liberatorio incrementi in forme inedite la schiavitù del lavoro e il suo soggiacere a rapporti di padronanza: “Anziché focolaio di crisi, la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio” (Virno, 105). Difficile pensare che il lavoro immateriale, in quanto tale, produca un attenuarsi dello sfruttamento, che invece si estende dal corpo alla mente, cancella ogni confine tra tempo di lavoro e tempo libero, produce forme inedite di controllo e di manipolazione: “L’innovazione tecnologica non è universalistica… Il postfordismo riedita tutto il passato della storia del lavoro, da isole di operaio-massa a enclaves di operaio professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo a ripristinate forme di dominio personale. I modelli di produzione succedutisi nel lungo periodo si ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una esposizione universale” (Virno, 112).

Può essere anche vero che il tempo di lavoro, in epoca postfordista, sia divenuto del tutto inadeguato a misurare il valore della ricchezza prodotta, come afferma un ormai commentatissimo passo dei Grundrisse di Marx, e tuttavia questa misurazione continua essere applicata, in modo spietato. D’altra parte, il progetto attuale del capitale sembra comporre in Uno tempi e luoghi difformi e apparentemente contraddittori: la diffusione del lavoro cognitivo e immateriale non esclude, ed anzi prevede, un feroce sfruttamento “fordista” o addirittura la violenza dell’accumulazione originaria (non solo fuori d’Europa, ma anche nelle “periferie” urbane dell’Occidente). Non si tratta di “ritardi” che verranno colmati, portando tutta la produzione al livello del general intellect. C’è un nesso strutturale fra tipologie di produzione “arcaiche” e l’astratto lavoro immateriale: “L’accumulazione del capitale si alimenta di ineguaglianze sociali e spaziali necessarie al suo metabolismo…” (D. Bensaid, pos. 610) e il suo disegno strategico si forma proprio cercando di far coesistere a proprio profitto le forme di dominio più arcaiche e il lavoro altamente qualificato della scienza.

Del resto, che il tempo di lavoro sia divenuto misura inadeguata del valore non vuol dire affatto che si sia trasformato o stia per trasformarsi in tempo liberato. Si può dire che la differenza fra tempo di lavoro e tempo libero si stia sempre più assottigliando a vantaggio di un “tempo di produzione” (Virno) generico e generale, che comprende anche le ore pseudo-libere passate al computer o al cellulare, addestrando comunque le proprie facoltà percettive e cognitive nel senso richiesto dall’attuale precarietà del lavoro; oppure si può mantenere la vecchia terminologia e considerare “tempo di lavoro” queste stesse attività, anche se si svolgono fuori dai luoghi di lavoro tradizionali.

E’ vero che l’operaio posto a controllare una macchina, che deve premere un pulsante esattamente ogni sessanta minuti, per cinquantanove resta apparentemente inattivo, sta accanto alla macchina senza far niente. Ma è davvero un far niente? In realtà la tensione muscolare inconsapevole, l’attenzione rivolta a non mancare il minuto decisivo, la latente tensione nervosa perché tutto il meccanismo funzioni regolarmente, i rumori e le luci, che comunque gli inviano messaggi dal macchinario, tutto ciò non è ancora lavoro, dispendio di energia fisica e mentale, sia pure diverso da quello “fordista”? Computando il lavoro in questo modo, è tutto da dimostrare che il “tempo” ad esso destinato sia effettivamente diminuito o non piuttosto si  sia esteso a quasi tutto il tempo di vita in generale. Certo si può dire, e in fondo non è molto diverso, che il tempo di produzione comprende ora “anche il non-lavoro, le esperienze e le conoscenze maturate al di fuori fabbrica e dell’ufficio”, oppure, con una sfumatura diversa dei termini, che la cooperazione sociale del “lavoro postfordista è sempre, anche, lavoro sommerso”, e che questo è in primo luogo “vita non retribuita, ossia la parte di attività umana che, omogenea in tutto a quella lavorativa, non è però computata come forza produttiva” (Virno, 109).

Resta il fatto che il tempo dominato e asservito in qual modo si voglia alla produzione di plusvalore relativo, tende nelle forme attuali di produzione ad aumentare a dismisura e nient’affatto a produrre forme di potenziale libertà, che attendano solo un colpo di gomito per superare l’egemonia del capitale. Per rompere il dominio del lavoro astratto, anche nelle condizioni di produzione postfordista, occorre dunque un’azione politica che rompa la continuità del dominio, e non si produce dallo sviluppo automatico delle forze produttive (neanche di quelle cognitive) e delle loro contraddizioni: queste al massimo producono una situazione di crisi in cui tale azione sarebbe possibile e pensabile, ma nient’affatto destinale o necessaria.

In che direzione conviene muoversi per costruire una tale soggettività? In un recente e interessante scambio di lettere con M. Hardt (http://www.democraziakmzero.org/ebook/), J. Holloway propone un ritorno alla qualità e alla specificità dei valori d’uso, dunque un mutamento della produzione che dovrebbe orientarsi verso forme comunalistiche in parte ereditate dal passato, in parte inventate ex novo. Si tratterebbe dunque di opporre il lavoro vivo e concreto al lavoro astratto del capitale, accettando se necessario un tasso di decrescita e una limitazione dell’attuale sfruttamento delle risorse della terra.

Hardt critica questa prospettiva, giudicandola affetta da regressione romantica verso il lavoro artigianale e contadino: “Nella tua riflessione, il lavoro astratto è un antagonista fondamentale e, se capisco bene, lo sono i processi concettuali più generali di astrazione… Un progetto politico che afferma il valore d’uso sul valore di scambio mi sembra un tentativo nostalgico di riedificare un ordine sociale pre-capitalista. Al contrario, il progetto di Marx, come lo capisco io, si apre la strada all’interno della società capitalistica per uscire dall’altro lato. Allo stesso modo, non credo che il lavoro astratto sia l’antagonista. Dire che senza lavoro astratto non ci sarebbe proletariato costituisce una semplificazione (anche se credo sia importante). Se il lavoro del muratore, del carpentiere, dell’agricoltore, del tessitore e del meccanico di automobili fossero concreti e incommensurabili, non avremmo un concetto generale del lavoro (del lavoro umano in generale, a prescindere da come è stato impiegato, come dice Marx) che potenzialmente li vincolino come classe”.

Probabilmente entrambi i corni di questa alternativa non giungono a soluzioni interamente soddisfacenti. Le riflessioni di Benjamin possono contribuire forse ancora al dibattito attuale. Sostanzialmente contrario a ogni ritorno al valore d’uso e al premoderno (concepibile solo con la restaurazione di forme mitiche e rituali-magiche di potere), egli è però anche radicalmente contrario a tutto il principio di astrazione sviluppato entro la dimensione del capitale. La seconda tecnica –che pone un rapporto armonico con la natura e una relazione di gioco intersoggettivo- prevede un principio di simbolizzazione altrettanto complesso ma radicalmente alternativo a quello del capitale. Esso non si sviluppa dal suo interno, ma sempre e decisamente contro di esso. Esiste una rottura epistemologica radicale tra prima e seconda tecnica, che presuppone una rottura politica altrettanto netta. Non si tratta dunque di opporre tecnica e comunitarismo artigianale, ma la scienza su cui fondare un comune capace di sviluppare il gioco e il riconoscimento intersoggettivo, contro una tecnica magica che sviluppa il dominio. Non è lo stesso utensile, costruito con lo stesso progetto, che basterebbe cambiare di mano per rendere da negativo positivo: è uno strumento materialmente e idealmente opposto, che prevede la distruzione dell’altro, come la tecnica delle energie naturali si basa su una visione antropologica e esistenziale incompatibile con quella fondata sul petrolio o sul carbone. La rivoluzione epistemologica è altrettanto radicale di quella politica.

Non ogni astrazione coincide necessariamente con quella sviluppata dal capitale: “…L’astrazione reale che Marx pone a base della sua analisi del Capitale…non è l’astrazione logico-mentale, che è propria dei processi conoscitivi” (Finelli, 244); questa capacità generalmente umana di simbolizzazione più che coincidere con la particolare figura della scienza capitalista collide con essa e con la sua intenzione di fondo, viene negata e atrofizzata. Si può infatti concepire una facoltà di simbolizzazione altamente raffinata, un lavoro della mente che si oppone alla sua contraffazione nel “lavoro mentale”, perché non è negazione della corporeità nel lavoro, ma il suo affinamento simbolico nel gioco: “… In esso il soggetto umano entra in un rapporto, non di scissione e contrapposizione, ma di distanziamento e simbolizzazione con il proprio corpo emozionale…” (Finelli, 246), in cui l’attività mentale e la physis si affinano reciprocamente nel “gioco” descritto da Benjamin e da lui opposto alla “magia” del lavoro astratto. Né ritorno al valore d’uso, né proseguimento della logica del lavoro astratto, ma costituzione di un ordine simbolico antagonistico rispetto a quello del capitale. L’attività simbolica e non l’astrazione capitalistica è una “funzione trascendentale dell’esperienza umana” (Finelli, 245) o – per usare un termine che verrà chiarito in seguito – un esistenziale storico.

*Nasce a Pisa, su impulso di Mario Pezzella, il Laboratorio pisano di filosofia politica critica, dedicato in particolare ai temi della democrazia. Eccone la nota preparatoria.
[1] Per inciso, la dialettica astratta della negazione della negazione è quella contro cui più giustamente si sono puntati gli strali di Kierkegaard, in modo – direi – definitivamente letale; per contro, la parte viva della dialettica hegeliana è quella della “negazione determinata”, che però non consente di dedurre – senza una discontinuità assoluta – il positivo dal negativo.

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