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Il Mare (ex) nostrum al centro di dispute pericolose

di Gaetano Fontana

Negli ultimi mesi l’area del Mediterraneo è al centro di pericolose tensioni regionali ed internazionali. La Libia continua ad essere divisa al suo interno per essere spartita da forze esterne, in Siria le elites politiche e militari appaiono sempre più indebolite, ed entrambe sono chiaramente lontane dal trovare soluzioni pacifiche

canale sicilia sar messina 518Per rendere chiaro lo scenario che si sta delineando in questa area, che è bene ribadire è in piena evoluzione, conviene valutare le dinamiche dei singoli attori e i contrapposti interessi in gioco.

Il 15 settembre 2020 viene formalizzato il trattato di pace “Peace to Prosperity”, fortemente voluto da Donald Trump a suggello del suo mandato presidenziale. La “Pax Americana”, come la definiva the Donald, che prevedeva la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein, di fatto si potrebbe sostanziare nell’annessione da parte israeliana di 132 insediamenti in Cisgiordania. “ L’accordo del secolo” è in perfetta continuità con la politica estera americana avviata da Trump nel febbraio 2017 con l’incontro ufficiale alla Casa Bianca con il primo ministro israeliano Netanyahu e proseguita con lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme nel dicembre 2017 e con il riconoscimento delle alture del Golan come territorio di Israele nel marzo del 2019.

Il piano dell’ex presidente americanoTrump sottende però un progetto strategico di più ampio respiro. Grazie al rafforzamento dei rapporti con gli alleati storici degli Stati Uniti, cioè Israele e Arabia Saudita, l’amministrazione americana intende perseguire l’obiettivo di spaccare il fronte arabo e creare un contesto regionale che faccia da scudo militare contro i nemici statunitensi e dei suoi alleati israeliani, in una sorta di richiamo alla Middle East Strategic Alliance” nota come “Nato Araba” nella quale includere le ricche monarchie del golfo.

Questo consentirebbe ” di chiudere il cerchio di oltre 70 anni di ferree alleanze americane in Medio Oriente, una con lo Stato ebraico l’altra con la casa reale saudita, forgiata da Roosevelt nel 1945 ancora prima della fine della seconda guerra mondiale”[1].

Il contesto nel quale opera questa sorta di Nato araba non si limita al solo controllo del medio oriente, ma risponde alla necessità degli Stati Uniti di allargare la prospettiva all’Africa orientale e al quadrante indo-pacifico nella previsione di creare un blocco unico di stati (compresi i paesi del Golfo e l’India) per una condivisione di salvaguardia da minacce comuni provenienti da Iran, Russia e Cina.

E’ proprio la Cina il nuovo attore che si affaccia nel panorama medio orientale, infatti già nel 2017 Pechino firmava con Fayez Serraj un memorandum d’intesa di adesione alla nuova via della seta. La “Belt and Road Iniziative”, rimane un obiettivo strategico di primo piano per il governo cinese, da questo progetto dipenderà l’afflusso di merci cinesi in Europa, e sulla sua realizzazione si gioca gran parte del successo politico di Xi Jimping. Mentre il corridoio terrestre della Via della seta passa per Iran e Turchia, il corridoio marittimo vede i Paesi del Golfo al centro del progetto, ciò ha portato Pechino a fare ingenti investimenti negli ultimi anni in questa area. Inoltre « l’espansione economica degli ultimi vent’anni ha aumentato esponenzialmente la dipendenza cinese dalle importazioni di petrolio e gas naturale, portandola rispettivamente al 69,8% e al 45,3% del suo fabbisogno. Così, da zona marginale del mondo, il Medio Oriente è diventato un’area centrale nelle strategie di Pechino a partire dal 2008. Il documento che ancora guida la politica cinese in Medio Oriente è il China’s Arab Policy Paper, risalente al 2016»[2].

Che il Medio Oriente riveste un ruolo rilevante per la Cina si evince anche dagli investimenti che tra il 2005 e il 2020 hanno raggiunto 242 miliardi di dollari, e dall’interscambio commerciale con i Paesi Arabi che nel 2019 è stato di 317 miliardi di dollari.

Anche se l’interventismo politico di Pechino nella zona medio orientale mantiene un profilo basso, non gli ha impedito di firmare con l’ Iran un accordo di partenariato strategico commerciale e militare, che vedrebbe Pechino investire 400 miliardi di dollari in 25 anni. In un articolo apparso su “ The New York Times” dell’ 11 luglio 2020 a firma di Farnaz Fassihi e Steven Lee Myers il “documento di partenariato” indica come la cooperazione militare tra i due paesi sarebbe per la Repubblica Popolare un punto di appoggio militare in una zona che è sempre stata una priorità strategica degli Stati Uniti. La Cina ha già costruito una serie di porti creando una linea di collegamento dal Mar Cinese Meridionale al Canale di Suez, e anche se di natura commerciale nulla vieta che questi porti possano svolgere una funzione di tipo militare.

Del resto nel 2017 la Cina ha inaugurato la “base di supporto strategico” a Gibuti, che se pur formalmente nasce a sostegno di attività di antipirateria e peacekeeping, riveste un ruolo strategico quale avamposto a protezione degli interessi esteri cinesi così come prevedeva il “Libro Bianco” nella sezione “strategia militare della Cina” del 2015. Investimenti in infrastrutture come la linea ferroviaria che collega Gibuti con l’Etiopia, mettono altresì in rilievo come queste operazioni rientrino sia in una cornice di sviluppo economico e sia in quella di sicurezza strategica.

 

Ma la Russia non sta a guardare

La Russia nello scacchiere geopolitico mediorientale assurge ad un ruolo di attore primario grazie al suo intervento nel conflitto siriano del 2011. Iniziato come violenta repressione da parte di Assad verso le frange di oppositori, tale conflitto si trasforma in guerra civile, fino ad assumere valenza internazionale.

In quel contesto Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Turchia si schierano in appoggio ai ribelli mentre dall’altra parte Russia, Iran e Hezbollah sostengono il regime di Assad, successivamente la Turchia cambierà strategia passando sul fronte pro Assad a fianco della Russia anche e soprattutto per contenere le milizie curde probabili alleati del PKK.

L’avvento delle primavere arabe, e il progressivo ridimensionamento americano, favorisce la crescita di attori locali rimescolando le carte in gioco, si creano così le condizioni affinché quello che rimane dell’ex Unione Sovietica riassuma un ruolo rilevante, recuperando la concezione di “derzhavnost”, lo “status di super potenza”, per essere riconosciuta al pari delle altre potenze globali.

La Russia a seguito di richiesta formale da parte di Assad nel 2015 prende attivamente parte al conflitto, rifacendosi ad un vecchio accordo bilaterale siglato nel 1980, in rispetto al diritto internazionale. L’abilità diplomatica di Putin in questa occasione ha fatto si che da interventista la federazione russa sia passata a difensore dei diritti siriani in nome della lotta al terrorismo. Sigillando una forte alleanza risalente al 1971 quando al potere della Siria c’era Hafez al-Assad padre di Bashar l’attuale presidente, oltre a dimostrare di esser pronta a supportare i suoi alleati anche senza l’approvazione della potenza americana, mira a difendere le undici postazioni della sua base navale a Tartus, e contemporaneamente ribadisce il suo ritorno sullo scacchiere internazionale.

Da qualche anno a questa parte una questione spinosa mette alla prova le doti diplomatiche di Putin. La provincia siriana di Idlib è diventata una zona rifugio per i gruppi di opposizione espulsi dalla Siria, nonché luogo di concentramento dei guerriglieri caucasici antirussi, in più è da Idlib che partono i veicoli a pilotaggio remoto in direzione della base russa di Humaymim. Chiaramente Putin non ha intenzione di ritirarsi dalla Siria senza risolvere questo problema, raggiungendo per adesso un accordo di collaborazione con la Turchia di Erdogan.

Un’ulteriore dimostrazione di questa peculiare sensibilità strategica attualmente la Russia la sta dando ancora una volta nel Mediterraneo, dove tramite il ministro degli esteri Lavrov si propone come mediatore di spinose divergenze. Già in Siria Putin aveva sperimentato una nuova manovra diplomatica, giocando tra le divergenze strutturali tra turchi, iraniani e israeliani. Nell’area Mediterranea dove vengono toccati direttamente interessi russi in quanto esportatori di gas, che potrebbe vedere ridimensionata la sua posizione dopo il ritrovamento di grandi giacimenti nel mar nero, Mosca cerca di inserirsi tra le divergenze createsi tra la Nato e la Turchia, intrecciando con quest’ultima una strategica relazione geopolitica lungo la linea del fronte Mar Nero- Mar Arabico.

“Chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?”, la provocatoria domanda la pose Henry Kissinger per evidenziare la mancanza di una convergente linea politica estera nel vecchio continente.

"L'Europa - ha proseguito l'ex segretario di Stato Usa - ha la capacità di diventare una superpotenza, ma non ha né l'organizzazione né l'idea di diventarlo. Questa è una sfida per il concetto di Europa".

Ad una idea europea-continentale di matrice franco tedesca si è sempre opposta una spinta centrifuga di matrice anglosassone, a questa dicotomia corrispondono due concezioni differenti di relazioni internazionali, divergenze che ostacolano un progetto comune in politica estera e che danno senso alla provocatoria domanda di Kissinger.

L’unione Europea ha attraversato ed in parte superato sfide importanti negli ultimi anni, la gestione dei migranti, una crisi economico-finanziaria senza precedenti, la Brexit, ma il salto di qualità a realtà politica sembra ancora lontano da venire.

Quando a dicembre del 2019 Ursula von der Leyen ha formato la “Geopolitical Commission” lo scopo era quello di dotare l’Unione Europea di una commissione promotrice di una strategia condivisa per una politica estera di rilevanza internazionale, tramite anche l’istituzione della tanto attesa “ Direzione generale per Industria della difesa e Spazio (DG Defis)” come struttura autonoma. Ma ai fatti con il Mediterraneo che sta diventando sempre più una polveriera, detta commissione, sembra essersi eclissata.

Le prime avvisaglie di questa impotenza si sono avute in occasione del raid americano per l’uccisione del generale iraniano Qassem Suleimani, avvenuto il 3 gennaio del 2020, innescando un’ulteriore escalation di violenza nella zona, la “Geopolitical Commission” si è espressa pubblicamente solo tre giorni dopo l’accaduto, lasciando così spazio agli interventi diplomatici di Francia, Germania e Regno Unito (in piena fase Brexit).

Ma questo atteggiamento non arriva per caso, è figlio di “un’autorappresentazione della UE come potenza del diritto sprovvista di qualsiasi strumento coercitivo atto a far valere la sua concezione puramente normativa dei rapporti internazionali. Un malinteso cresciuto all’ombra della tutela militare e geostrategica statunitense, progressivamente erosasi dal 1989 e ora per certi versi aperta a discussione”[3].

 

Last but not least .

Abbiamo lasciato per ultima la Turchia non perché attore meno rilevante bensì proprio perché nello scenario Medio orientale sta giocando un ruolo di primo piano, tentando di ritagliarsi uno spazio di primazia nel suo estero vicino.

“L’impero bizantino si mantenne in contatto con gli altri grandi imperi del globo: da quello persiano a quello cinese, passando per l’impero Kushana, l’impero Gupta, il regno di Gandhara, il tollerante impero selgiuchide, l’immenso pacifico impero mongolo. E data la naturale posizione dello stato bizantino, a presidio delle due orbite geopolitiche asiatica e mediterranea, non c’è fase della storia medievale in cui, per capire quanto accadeva in Europa, non si debba osservare quanto stava passando dalle due grandi porte che delimitavano lo sterminato territorio di Bisanzio: quella aperta a nord-est sull’Asia Centrale e soprattutto quella aperta a sud-est, attraverso la Mesopotamia, sul Grande Oriente indoiranico”.[4]

La splendida descrizione di Silvia Ronchey, restituisce un’immagine di una identità turca, che affonda le proprie radici in un forte senso della patria e di un popolo tutt’altro che modesto che si sente consacrato sull’altare dell’impero ottomano, questo ci aiuta a capire con quale spirito si inserisce il sultanato di Recep Erdogàn nella voragine geopolitica apertasi a sud della fascia mediterranea, là dove si sta consumando la decomposizione della Libia.

Quanto è successo tra maggio e giugno del 2020 tra il porto di Gabès in Tunisia e il porto libico di Misurata anche se derubricato ad incidente di percorso, dà l’opportunità di misurare l’importanza attribuita dalla Turchia a questa area geografica. La cronaca racconta della presenza in zona del mercantile turco Çirkin scortato da tre navi militari turche, che fra il 19 e il 24 maggio dopo aver lasciato le acque territoriali del paese di origine, con il sistema automatico di tracciamento spento per non essere localizzato, raggiunge Misurata per scaricare materiale bellico e ripartire, ciò nonostante il convoglio sia stato avvistato a sud di Creta da un mezzo militare francese e aver rifiutato i controlli. La cosa si ripeterà il 7 e il 10 giugno, in questo caso è la fregata greca Spetsai impossibilitata a effettuare controlli per la presenze delle navi militari turche. Entrambi i mezzi francesi e greci operano in zona per conto dell’Alleanza Atlantica in ottemperanza all’embargo sulle armi alla Libia, ed in entrambi i casi questi non sono intervenuti dopo aver registrato un atteggiamento apertamente ostile da parte dei turchi, onde evitare uno scontro armato. Ad una riunione di emergenza della Difesa Nato seguita all’incidente Stati Uniti e Gran Bretagna si sono schierati a fianco della Turchia.

 

Vediamo di capire cosa spinge la Turchia in queste acque agitate.

“Mavi Vatan”, Patria blu. Il termine è stato coniato nel 2006 dall’ammiraglio Gurdeniz, indica gli interessi strategici della Turchia nelle acque territoriali interne e nella Zee la zona territoriale esclusiva, proiettando in mare il futuro della patria, e che in prospettiva andrà anche oltre la presidenza Erdogan. Nel progetto turco è previsto che da Cipro a Kastellorizo navi da guerra accompagneranno l’esplorazione delle risorse energetiche offshore, rimettendo in discussione le zone di sovranità marittima nel Mediterraneo, quelle dove trivellano le grosse compagnie come Total, Eni ed Exxon. Naturalmente la posta in gioco non lascia indifferenti attori locali come Egitto, Israele o Cipro, rendendo ancora più aspro il confronto.

 

La Turchia sul fronte libico.

La Libia dopo la caduta del regime del maresciallo Muammar Gheddafi del 2011, ha vissuto una infinita serie di scontri armati e caos amministrativi, trovandosi dopo circa dieci anni in perenne guerra civile, che vede la stessa Libia divisa sostanzialmente in due fronti: da una parte Tripoli che è sede del GNA acronimo di Government of National Accord guidato da Fayez al-Serraj riconosciuto dalla comunità internazionale a controllo della Tripolitania, dall’altra parte la Cirenaica controllata dal LNA l’esercito nazionale libico del generale Haftar, sostenuta da Emirati Arabi, Egitto e Russia.

In questo contesto a fine 2019, sotto la pressione della crisi incalzante al Serraj e il presidente turco Erdogan hanno firmato il Memorandum d’Intesa. «Esso prevedeva un duplice scambio: in primis l’accettazione da parte della Libia di un’area marittima sfruttabile in termini di risorse naturali, in base alle cosiddette zone economiche esclusive (Eez). L’altra parte dell’accordo sanciva l’intervento militare immediato da parte della Turchia qualora il Gna lo avesse richiesto. Cosa che di fatto è avvenuta»[5].

Ankara è consapevole di giocarsi una partita importante in questo quadrante, lo sviluppo della “patria blu” nei programmi del sultano sarà il sostegno per i piani egemonici e di leadership della nuova Turchia, proiettando la stessa oltre i confini tradizionali di influenza, aiutandola a superare l’isolamento regionale, lasciando così intendere che la presenza turca in Libia non è cosa estemporanea.

Questo stato di cose, è il riflesso di competizioni strategiche in piena evoluzione. La strategia statunitense esplicata nel 2017 nel “National Secutity Strategy of the United State of America”, metteva in evidenza come le priorità degli USA divenivano il contenimento dell’asse russo-cinese, disimpegnando il fronte mediorientale, lasciando così spazi di manovra a potenze regionali.

Le guerre civili in Siria e in Libia hanno accentuato la competizione tra le potenze regionali, trasformando quest’area in teatro di forte instabilità percepita dalla Turchia come una minaccia, accentuata dal fatto che tale bacino potrebbe divenire il terzo per volume di riserve di gas mondiale.

Fin dove sia intenzionata ad arrivare la Turchia non è facile capirlo, anche perché alla volontà di ergersi a potenza imperiale del suo sultano si contrappone una carenza di risorse disponibili a realizzarsi, vista la crisi economica e finanziaria che la flagella, anche se a parte la Russia a queste latitudini non si percepiscono altri rivali superiori.

Nei piani di Ankara rientra verosimilmente l’asse europeo per avanzare nei Balcani adriatici, e ancora più verosimilmente la realizzazione della Patria blu di cui sopra, che apra una strategia marittima che tocca interessi che vanno dal Mar Nero al Mediterraneo orientale, toccando territori importanti anche per i commerci e la sicurezza italiana. Si capisce come in questo contesto l’Italia potrebbe rivestire un ruolo importante, almeno dal punto di vista geografico, visto che quello di politica estera è stato ormai derubricato ad affare destinato ad altri.

Nel Mediterraneo si sta giocando una partita delicatissima, che sta coinvolgendo anche militarmente diversi paesi, sia per l’appropriazione di ricchi giacimenti di idrocarburi, sia per difendere lo spazio geopolitico di ognuno. I rapporti tra Parigi ed Ankara sono al loro minino storico, cosi pure quelli tra Grecia e Turchia, tutto questo fa di quello che un tempo fu il mare nostrum una vera e propria polveriera, le grandi manovre nel Mediterraneo orientale sono solo all’inizio, e nessuno dei protagonisti sembra disposto a lasciare campo all’altro. Come era prevedibile questa crisi epocale, aggravata dalla pandemia da Covid 19, sta mettendo in luce tutte le criticità del sistema capitalistico nell’era della guerra imperialistica permanente e ogni scintilla può essere quella giusta per far scattare la “Trappola di Tucidide”.


Note
[1] Alberto Negri: La pace dello sceicco Trump, il manifesto 16 agosto 2020.
[2] Vedi Terapie geopolitiche di Corrado Cok pubblicato su Babilon del 20 ottobre 2020.
[3] Europa chi? “ di Fabrizio Maronta in Limes gennaio 2020.
[4] Silvia Ronchey nel saggio introduttivo a “Il Buddha bizantino” di Jean Francois Boissonade.
[5] Federica Fasini Fasanotti, il bilico geopolitico della Libia. In “Mediterraneo allargato” settembre 2020 a cura dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.

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