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La lezione di Keynes e i paesi arretrati

Introduzione di Sergio Cesaratto*

1444810052 lIn occasione della recente pubblicazione, in lingua inglese (Review of Political Economy, Vol. 27, n. 2, 2015), di parti dello studio di Pierangelo Garegnani dal titolo "Il problema della domanda effettiva nello sviluppo economico italiano (1962), originariamente commissionato dalla SVIMEZ a Garegnani, la SVIMEZ, in collaborazione con il Centro di Ricerche e Documentazione ‘Piero Sraffa’, ha organizzato, il 14 ottobre 2016, l’incontro sul tema "Il ruolo della domanda nello sviluppo: il Mezzogiorno italiano, i Sud del mondo e la crisi dell’Europa."

L’intento è stato quello di realizzare una “rivisitazione” di quel contributo, e tramite esso di sviluppare un suo approfondimento ed un confronto di tesi che sottendono al confronto tra politiche dell’austerità ed economia dello sviluppo.

L’incontro di studio, tenutosi presso la Scuola di Economia e Studi Aziendali dell’Università Roma Tre, è stato aperto dall’Introduzione di Sergio Cesaratto (Università degli Studi di Siena). Hanno fatto seguito gli Interventi di Adriano Giannola (Presidente della SVIMEZ), Carmelo Petraglia (Università della Basilicata), Franklin Serrano (Università Federale di Rio de Janeiro), Antonella Palumbo (Università degli Studi Roma Tre).

A seguire si è tenuto un dibattito, al quale sono intervenuti Fabio Petri (Università degli Studi di Siena) Adriano Giannola, Sergio Cesaratto, Massimo Pivetti (Sapienza Università di Roma), Roberto Ciccone (Università degli Studi Roma Tre), Franklin Serrano, Antonella Palumbo.

Gli atti dell'incontro possono essere scaricati qui.

* * * *

Cominciamo innanzi tutto con i ringraziamenti alla SVIMEZ, al prof. Giannola e agli amici del Centro Sraffa, a Roberto Ciccone e a tutti gli altri amici che hanno organizzato questa giornata; a Gary Mongiovi che insieme a me ha curato questo numero speciale della Review of Politicai Economy dedicato ai dibattiti eterodossi sulla teoria della crescita, e che non poteva essere qui per ragioni didattiche della sua Università. Gary ci saluta assieme a Lynne Chester, editor della Review of Politicai Economy, e sono entrambi felici di questa iniziativa. Grazie a Franklin Serrano che è venuto dal Brasile, e a Carmelo Petraglia.

Mi riferirò ad alcuni elementi dello studio che Garegnani scrisse per la SVIMEZ e che fu pubblicato nel 1962 Non c’è stato modo, nelle scorse settimane, di rintracciare con maggiore chiarezza quale sia stato il rapporto di Garegnani con la SVIMEZ in quegli anni, forse più avanti si riuscirà a fare una più accurata ricerca di archivio, forse basterà guardare i rendiconti annuali per saperne un po’ di più.

Nel saggio Note su consumi e investimenti e domanda effettiva, basato sulla prima parte dello studio SVIMEZ e pubblicato su Economia Internazionale del 1964/1965, Garegnani stesso ci informa che lo studio della SVIMEZ fu preparato nel 1960/1961 e pubblicato nel 1962, in forma ciclostilata, come è scritto sulla copertina, “per uso interno degli uffici”.

Quello che inferiamo dalle note biografiche di Garegnani redatte dal prof. Fabio Petri (in P. Arestis e M. Sawyer (a cura di), A Biographi-cal Dictionary of Dissenting Economists, Elgar, 2000), è che per Gare-gnani erano anni molto intensi, aveva conseguito il dottorato a Cambridge nel 1958, poi a Roma era stato assistente di Enrico Travaglini, visi-ting al MIT nel 1961/1962, e nel 1953 aveva conseguito la cattedra a Sassari. Nel Rapporto SVIMEZ Garegnani non ringrazia nessuno in particolare, ma in Note su consumi ringrazia Napoleoni, Steve, Sylos-Labini e Travaglini. Immagino che molti di questi importanti studiosi fossero in quegli anni assidui della SVIMEZ.

Anni molto intensi per Garegnani, e anni di alta teoria e studi economici per la SVIMEZ. Da un resoconto di Fabrizio Barca, la SVIMEZ di Pasquale Saraceno nella seconda metà degli anni ’50 si immagina come un vero e proprio ufficio-studi dei governi che videro Ferrari Aggradi, Vanoni, Campigli e Ugo La Malfa alla guida dei principali ministeri economici. I collaboratori stranieri includevano i maggiori studiosi dello sviluppo come Colin Clark, Vera Lutz, Gardner Ackley, Richard Echaus, Hollis Chenery (all’appello manca solo Raùl Prebisch). Nel consiglio direttivo sedevano Paul Rosenstein Rodan, Jan Timbergen e Robert Mar-jolin. Interessante che il piano Vanoni, che Garegnani prende a riferimento per la parte empirica dello studio SVIMEZ - cito Barca - è stato sicuramente preparato nella sede romana della SVIMEZ ed è dovuto soprattutto alla stesura di Saraceno.

Nel giudizio di Saraceno - scrive Barca - le politiche meridionaliste, nella fase successiva alla ricostruzione, dovevano realizzare l’azione coordinata di due modelli, quello del Centro-Nord sostenuto dalla domanda e quello del Sud sostenuto dall’offerta. Poi il prof. Giannola ci dirà di più su questo aspetto del pensiero di Pasquale Saraceno.

La problematica dello studio SVIMEZ si riferisce all’applicabilità della proposizione keynesiana dell’indipendenza degli investimenti dai risparmi ad economie “sottosviluppate”, come erano allora definite, o ad un stato intermedio di sviluppo come quello italiano.

Osserva Garegnani nell’introduzione allo studio, la teoria economica dà a volte l’impressione di essere divisa come in due compartimenti stagni. Uno si riferisce ad economie sviluppate per le quali si ammette per lo più che gli aumenti dei consumi non comportino una diminuzione degli investimenti. L’altro compartimento si riferisce ad economie sottosviluppate, per le quali in generale si suppone invece che aumenti di consumi comportino riduzione dei risparmi e degli investimenti.

Interessante come in un articolo del 1957 di Gardner Ackley, l’autore si ponga la stessa problematica scrivendo: “Durante il mio soggiorno di studio - Ackley era veramente assiduo dell’Italia e della SVIMEZ, e a fine anni ’60 fu addirittura ambasciatore degli Stati Uniti in Italia - spesso ho notato tra gli economisti italiani riserve e dubbi circa l’applicabilità dell’analisi keynesiana allo studio dei problemi economici del loro Paese”. Poi dirò qualcosa su Ackley.

Ora, naturalmente, questo scetticismo degli economisti italiani verso l’applicabilità delle posizioni keynesiane all’economia italiana, non è, secondo Garegnani, completamente ingiustificato, in quanto - scrive Garegnani - nelle economie sottosviluppate si richiede soprattutto lo sviluppo dell’attrezzatura produttiva, piuttosto che di beni di consumo. Pur tuttavia - Garegnani aggiunge - appare però che relativamente poca attenzione sia stata prestata al ruolo della domanda effettiva e agli effetti che essa può avere sullo sviluppo della capacità produttiva nel secondo tipo di economia, cioè in quella sottosviluppata.

Quello che Garegnani suggerisce, e chiarisce nei passi successivi, è che nelle economie sottosviluppate, non pianificate, le forze di mercato non assicurano affatto che la capacità produttiva, per quanto insufficiente ad assicurare il pieno impiego delle forze del lavoro, sia a sua volta pienamente utilizzata.

Questa situazione è reputata da Garegnani ancora più rilevante in un’economia ad uno stato intermedio di sviluppo e con caratteristiche dualistiche come quella italiana. Il mancato pieno utilizzo della capacità già installata, ovvero il mancato incentivo da parte della politica economica a un volume adeguato di investimenti avrebbe, secondo Garegnani, un effetto cumulativo di riduzione della capacità futura di accumulazione, assai importante nel condizionare lo sviluppo.

La rilevanza dell’analisi keynesiana per Paesi come l’Italia, secondo Garegnani, ha due aspetti connessi. Da un lato, essa smentisce il precetto di politica economica tradizionale per cui un maggiore volume di investimenti necessario per assorbire la disoccupazione strutturale possa derivare da una più elevata propensione al risparmio. E dall’altro che, data la capacità esistente, vi siano meccanismi che assicurino un livello di investimenti adeguato ai risparmi potenziali, cioè quelli che si genererebbero in condizioni di pieno utilizzo degli impianti.

Tali questioni si ripercuotono di conseguenza sulle discussioni, ricorrenti in Italia, sulla politica salariale più adatta a favorire lo sviluppo dell’occupazione. I termini della questione sono ben noti.

Se fosse vera la tesi tradizionale che vede l’offerta di risparmio come determinante della capacità di accumulazione, un aumento dei salari reali non potrebbe che incidere negativamente sull’accumulazione, attraverso una minore propensione al risparmio. Viceversa, la validità della tesi keynesiana porterebbe a domandarsi se, invece, un aumento dei salari reali non possa agire di stimolo agli investimenti privati.

Le tesi della prima parte dello studio della SVIMEZ sono state da tempo pubblicate e sono dunque ben note.

Garegnani mostra come i risultati della critica alla teoria marginali-sta del capitale fossero funzionali a liberare Keynes dal lacci e lacciuoli che legavano la sua teoria al marginalismo, e che ne avevano permesso il rapido riassorbimento nell’alveo tradizionale. Si tratta, in particolare, della dimostrazione della non generalità della relazione decrescente fra investimenti e tasso di interesse. I risultati della critica alla teoria margi-nalista del capitale portano naturalmente a smentire l’adeguamento degli investimenti ai risparmi di capacità tanto nel breve che nel lungo periodo.

Ma Garegnani nella seconda parte dello studio, quella tradotta e poi pubblicata in questo volume della Review of Politicai Economy, va oltre; poi c’è una terza parte empirica non ancora pubblicata su cui dirò qualcosa, e forse anche Antonella Palumbo dirà qualcosa,

Nella seconda parte dello studio SVIMEZ, questa ora tradotta, Ga-regnani si domanda attraverso quali meccanismi, anche nel lungo periodo, siano i risparmi ad adeguarsi agli investimenti. E oltre a ciò egli conduce un’esplorazione delle determinanti oggettive degli investimenti nel lungo periodo e della relazione fra livelli di salari reali e decisioni di investimento.

La risposta alla prima questione è che come nel breve periodo, nei limiti della data capacità produttiva, maggiori decisioni di investimento determinano una maggiore offerta di risparmio attraverso un più elevato grado di utilizzo della capacità esistente; così nel lungo periodo le maggiori attrezzature installate consentiranno nel futuro, attraverso un più completo utilizzo della capacità esistente, un’offerta di risparmio potenziale adeguata a decisioni di investimento prese su più larga scala.

Circa la seconda questione, relativa alle determinanti degli investimenti, Garegnani ha fondamentalmente l’idea che questi ultimi siano una componente indotta di ciò che definisce domanda finale, oltre a una quota che dipende dal progresso tecnico ed è indipendente invece dalla domanda finale.

La domanda finale viene definita come quella domanda il cui scopo non è l’ulteriore produzione di beni all’interno dell’economia, comprendendo dunque in essa la domanda interna di beni di consumo privati e pubblici e le esportazioni al netto delle importazioni.

La domanda di beni di investimento viene esclusa dalla domanda finale in quanto, a parte la quota determinata dal progresso tecnico, tale domanda dipende proprio, ed è da ultimo giustificata, dall’espansione

della domanda finale. Quindi da consumi finali, pubblici e privati, ed esportazioni nette.

Garegnani richiama qui esplicitamente tanto il principio dell’acceleratore quanto l’esperienza comune per cui è la domanda di beni che, premendo sulla capacità, ne stimola l’espansione.

Per rispondere alla terza questione, l’influenza dei salari reali sugli investimenti, veniamo perciò rimandati allo studio degli effetti dei salari reali su consumi ed esportazioni, grandezze che a loro volta influenzano gli investimenti.

La risposta di Garegnani è complessa. Mi limito a riassumerla in maniera molto sintetica.

Da un lato egli ritiene che più elevati salari reali possano esercitare, attraverso una maggiore domanda finale per beni di consumo, un effetto di incentivo agli investimenti privati; dall’altro, tuttavia, l’aumento dei salari può esercitare un effetto negativo sulle esportazioni, e dunque sulla bilancia dei pagamenti. Il ragionamento di Garegnani è assai articolato ma molto limpido, e si estende alla considerazione degli effetti di aumento dei salari reali sul progresso tecnico.

Ma voglio un attimo dire qualcosa sulla terza parte, che è quella applicata, quella non ancora pubblicata, e che speriamo lo sia presto.

Contrariamente a qualche interprete di Garegnani - mi riferisco ad una discussione che ebbi con Salvatore Biasco su “l’Unità”, subito dopo la scomparsa di Garegnani - questi ha sempre mostrato un interesse straordinario per l’economia applicata e ha sempre incitato i suoi allievi tanto al lavoro teorico quanto al guardare i dati.

Nella parte empirica dello studio SVIMEZ, Garegnani esamina la questione del periodo allora appena trascorso, 1955-1960, che coincide sia con il miracolo economico italiano che con i primi cinque anni del Piano Vanoni. Il Piano Vanoni, per i più giovani, fu il primo tentativo in Italia di programmazione economica.

Secondo Garegnani il Paese avrebbe potuto effettuare un volume di investimenti superiore a quello effettivo. Anzi, meglio, vuole valutare questo: se per il Paese sarebbe stato possibile effettuare un volume di investimenti superiore a quello effettivo - che poi fu già superiore a quello del piano Vanoni, il piano Vanoni fu in un certo senso pessimista - in modo da generare ulteriori 550mila posti di lavoro.

Garegnani stima un accrescimento occupazionale di 350mila nell’industria e di altre 200mila unità nel terziario, senza dover ridurre i consumi, e dunque attraverso un più pieno utilizzo della capacità esistente, né generare pressioni insostenibili sulla bilancia dei pagamenti.

Data la distribuzione lungo i sei anni degli investimenti addizionali, la nuova capacità progressivamente creata avrebbe, secondo Garegnani, agevolato gli investimenti successivi. Cioè maggiori investimenti possibili, che Garegnani stima in 800miliardi di lire (del 1953), non sarebbero stati infatti tutti realizzati nel 1955, ma sarebbero stati ripartiti in vari anni, e gli investimenti effettuati all’inizio, oltre a un maggiore grado di utilizzo della capacità già esistente, avrebbero reso possibili investimenti successivi, senza che questi maggiori investimenti comportassero una riduzione dei consumi e quindi dei salari, e senza gravare sulla bilancia dei pagamenti.

Garegnani cerca di stimare gli effetti diretti e indiretti sulla domanda, e quindi sulla capacità di questi investimenti aggiunti, utilizzando molte stime tratte dal piano Vanoni e dalla tavola “interdipendenze strutturali” messa a punto nel 1956.

I risultati a cui Garegnani perviene sono positivi, nel senso che un investimento addizionale di 875 mld di lire (del 1953), lungo il suddetto periodo, avrebbe consentito l’aumento dell’occupazione, ipotizzato di 350 mila addetti nell’industria manifatturiera più 200mila nel terziario, senza una riduzione dei consumi dei già occupati.

Sulla scorta di questo risultato, Garegnani vede che questi investimenti aggiuntivi sarebbero stati possibili senza comportare riduzioni dei consumi. E sulla scorta di questo risultato, Garegnani si domanda come mai il settore privato non avesse effettuato quegli investimenti. E la risposta è che evidentemente esso non aveva ritenuto la domanda di prodotti tale da giustificare questa espansione addizionale di capacità produttiva. Certamente dunque di ostacolo agli investimenti, nel periodo esaminato, non fu il livello dei consumi, e anzi un minor aumento dei salari avrebbe inciso negativamente sull’accumulazione già effettuata.

Sarebbe stato, e sarà interessante, un confronto fra l’analisi di Garegnani e quella a cui arrivò Ackley in uno studio - di cui si può fare il download dal sito della SVIMEZ - pubblicato dalla SVIMEZ l’anno successivo, nel 1963.

Ackley, che si era posto il medesimo problema di Garegnani, e cioè che gli economisti italiani nella stragrande maggioranza ritenevano Ke-ynes non applicabile, dà nel 1957 una risposta un po’ deludente, nel senso di dire che in fondo essi avevano ragione; che l’Italia aveva bisogno di una sorta di politica dei due tempi, di stringere i consumi nel primo tempo per effettuare maggiori investimenti dopo, e una volta installata una più ampia capacità produttiva, sarebbe stato possibile allargare i consumi e restringere gli investimenti. Dava dunque ragione al pensiero degli economisti italiani.

Invece le risposte che Ackley dà nel suo studio del 1963 - io debbo dire che l’ho appena scorso - sembrano andare in una direzione più vicina a quella di Garegnani. La sintesi che ne fa la SVIMEZ è interessante: si tratta di un’interpretazione dello sviluppo dell’economia italiana nel corso degli anni ’50, di un rapido e continuo incremento del reddito durante il decennio 1951/1960. Questo viene spiegato da Ackley in base allo sviluppo rapido e continuo delle componenti autonome della domanda effettiva, della spesa pubblica, delle esportazioni nette, degli investimenti fissi realizzati nell’agricoltura, nelle abitazioni e in parte nei trasporti e nelle comunicazioni. Quindi qualcosa che è molto vicino alla domanda finale di Garegnani.

Vorrei infine - e mi avvio alle conclusioni - segnalare alcune questioni lasciate aperte da Garegnani.

La prima questione riguarda il concetto di “domanda finale” quale determinante ultima degli investimenti. Garegnani vi include i consumi indotti (dal reddito e in particolare dal livello dei salari reali), i consumi pubblici e le esportazioni nette. E’ tuttavia questionabile che una componente indotta, come i consumi indotti, possa far da traino a una seconda componente indotta, gli investimenti. In realtà sarebbe più coerente considerare come “domanda finale” solo quella parte dei consumi che è indipendente dal reddito (i cosiddetti consumi autonomi), i consumi pubblici (inclusi gli investimenti pubblici non indotti da considerazioni di domanda), e le esportazioni. Questo non significa che il livello dei salari reali non abbia influenza su domanda e investimenti privati, lo avrà attraverso variazioni della propensione marginale al consumo.

Una seconda questione riguarda un quesito che Garegnani si pone proprio negli ultimi passi della terza parte del Rapporto SVIMEZ. Ci sono delle implicazioni teoriche nella parte applicata dello studio di Garegna-ni, che sono infatti a dir poco molto interessanti.

In questi egli aveva studiato, come sopra ricordato, la possibilità di incrementare l’occupazione di 550mila unità, in parte nell’industria e in parte nel terziario, attraverso un maggiore ammontare di investimenti, valutando se questo fosse stato permesso da un più elevato grado all’inizio della capacità installata, e di quella di progressiva nuova installazione.

Il quesito che si pone Garegnani è se, tuttavia, tale investimento fosse giustificato dall’incremento atteso della domanda da esso stesso generato. Quindi, quello che fa Garegnani è una cosa molto interessante, e cioè di individuare un secondo livello di valutazione. Prima si domanda se questi investimenti sono possibili senza dover diminuire i consumi, e la risposta è positiva. Ma dal lato della domanda, cioè della domanda che questi stessi investimenti generano, sono essi giustificati? È una problematica che ricorda la problematica di Harrod.

Suggerisce Garegnani che è da valutarsi come e se l’aumento di reddito, che avrebbe origine da un’espansione delle attività industriali e terziarie, sia sufficiente a fornire la domanda per i prodotti ottenuti con quella espansione. Le stime di Garegnani in merito sono pessimistiche. Vale a dire che l’incremento di reddito e di domanda conseguente all’aumento di capacità produttiva tale da occupare 550mila unità aggiuntive, avrebbe giustificato solo un aumento del 65% di questa produzione. Quindi è una problematica molto interessante e ulteriore che Garegnani si pone. Questo investimento sarebbe giustificato dal lato della domanda? Quello che Garegnani conclude, mi rammenta un saggio di Kalecki del 1967, molto famoso.

Garegnani sostiene che questi investimenti sarebbero stato giustificati solo da ulteriori investimenti, che Garegnani stesso ritiene possibili nell’agricoltura e nelle abitazioni, oppure da maggiori esportazioni.

Lo studio SVIMEZ si conclude quindi con questo puzzle in un certo senso un po’ pessimista, circa adeguatezza strutturale della domanda nel capitalismo. Nella fattispecie maggiori investimenti e accrescimento dell’occupazione sarebbero stati possibili, ma con il problema che questi investimenti, in base alle stesse stime contenute nel saggio, potevano non essere giustificati dal lato della domanda se altre componenti autonome o degli ulteriori investimenti non fossero stati effettuati.

Mi avvio alla conclusione.

Alcuni ritengono che queste questioni possano essere discusse utilmente attraverso l’analisi del supermoltiplicatore, e questo è stato elemento di discussione tra noi allievi di Garegnani, ma non credo debba essere elemento di polemica.

Garegnani ci ha insegnato il limite dei modelli. Però, per analizzare alcune questioni, l’utilizzo di un modello può aiutare. L’avvertenza di Garegnani fa parte del nostro essere economisti, fra le mille cose che abbiamo imparato da lui.

Mi sembra interessante l’impatto di questo numero della Review of Politicai Economy, che ha avuto molti apprezzamenti fra gli economisti eterodossi internazionali e ha spinto molti economisti del filone dominante della crescita a guardare al supermoltiplicatore - anche Ackley usa il supermoltiplicatore! - e quindi questo mi sembra anche un motivo di soddisfazione per la nostra scuola, al di là dello stretto impiego di questo strumento analitico.

Noti studiosi eterodossi cominciano a studiare la crescita degli investimenti come componente fondamentalmente indotta da qualcosa che Garegnani chiama la domanda finale, che Ackley e altri chiamano componente autonoma della domanda, che Kalecki e Rosa Luxemburg chiamavano i mercati esterni. Questo apre un terreno comune, e mi fa piacere che alcuni articoli della rivista abbiano avuto un impatto in questo senso.

Mi fermo qui. 


* Professore Ordinario di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Siena.

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