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La corsa alla produttività e la distruzione della produzione di valore

di Norbert Trenkle

trenkle4«Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo» (Marx)

Ma questo obbligo ad ammassare quantità sempre maggiori di lavoro astratto tuttavia si oppone ad un'altra dinamica sistemica, quella che parallelamente appartiene all'essenza della logica capitalistica e che, in quanto tale, costituisce l'altro lato dell'autocontraddizione interna del capitalismo: se si è detto che il lavoro di ciascun individuo è socialmente valido solo in quanto "lavoro astratto", vale a dire come rappresentazione di un certo numero di unità di tempo astratto che sono state spese nella produzione di una qualsiasi merce, ciò include il fatto che la misura secondo cui ciascun lavoro viene valutato è allo stesso modo una categoria sociale che sfugge al controllo dell'individuo e della società nel suo insieme. La quantità di valore che rappresenta la realizzazione di un certo lavoro non si definisce a partire da quel lavoro, ma sempre in rapporto da uno standard sociale generale presupposto, che riflette il livello del progresso della produttività della società. In altre parole: il valore di una merce non è definito dal tempo di lavoro individuale che un individuo o una certa impresa impiega per la sua fabbricazione, ma dal tempo di lavoro che corrisponde al livello attuale della produttività della società Un lavoro è socialmente valido solo nella misura in cui viene utilizzato a tale livello.

Già nel primo capitolo del Capitale, Marx ha affrontato la questione: «Potrebbe sembrare che, se il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro spesa durante la produzione di essa, quanto più pigro o quanto meno abile fosse un uomo, tanto più di valore dovrebbe essere la sua merce, poiché egli avrebbe bisogno di tanto più tempo per finirla. Però il lavoro che forma la sostanza dei valori è lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza lavorativa umana. La forza lavorativa complessiva della società che si presenta nei valori del mondo delle merci, vale qui come unica e identica forza-lavoro umana, benché consista di innumerevoli forze-lavoro individuali. [...] Per esempio, dopo l'introduzione del telaio a vapore in Inghilterra, è bastata forse la metà del tempo prima necessario per trasformare in tessuto una data quantità di filato. Il tessitore inglese al telaio a mano aveva di fatto bisogno dello stesso tempo di lavoro, prima e dopo, per questa trasformazione; ma il prodotto della sua ora lavorativa individuale rappresentava ormai, dopo l'introduzione del telaio meccanico, soltanto una mezza ora lavorativa sociale, e quindi scese alla metà del suo valore precedente.» (MEW 23, p. 53/Marx, Il Capitale, Libro I). Questo tessitore inglese era quindi obbligato ad abbandonare il suo lavoro o a venderlo ad un prezzo corrispondente a metà del suo valore. Non serviva a niente ammazzarsi di lavoro e fare appello a tutta la sua abilità di artigiano; poiché il suo lavoro era stato svalorizzato attraverso un processo sociale su cui lui non aveva alcun controllo. Era chiaro, ancora una volta, che il valore non è affatto una semplice categoria economica, ma è ciò che inoltre costituisce una forma specifica di dominio sociale, che si caratterizza per mezzo di costrizioni astratte ed oggettive. Il tempo di lavoro socialmente necessario rappresenta una norma temporale generale che si pone di fronte agli uomini come una necessità oggettiva alla quale non si può sfuggire: «Per sopravvivere, non si è solamente obbligati a produrre e a scambiare delle merci, bisogna anche - se si vuole ottenere il "valore totale" del proprio tempo di lavoro - che questo tempo equivalga alla norma temporale espressa dal tempo di lavoro socialmente necessario» (Postone, Tempo, lavoro e dominio sociale) [*1].

Ma si tratta anche dell'essenza interna alla logica capitalista per cui questa norma non viene mai fissata, in quanto essa si evolve sotto la pressione della dinamica permanente e, per essere precisi, è in costante diminuzione. Il motore di questo movimento è la concorrenza. Così come gli individui, con il loro lavoro, si riferiscono alla ricchezza sociale nella forma astratta del valore (che tutti insieme producono sotto questa forma), ciascuno di loro cerca di accaparrarsi la più grande parte possibile di questa ricchezza astratta. Da ciò proviene la motivazione a produrre in maniera sempre "più produttiva" e "più efficiente" di quanto faccia la concorrenza, ricercando ed applicando continuamente dei nuovi metodi di razionalizzazione, cosa che significa, fondamentalmente, abbassare il tempo di lavoro necessario per il loro prodotto al di sotto della norma sociale in vigore in quel momento. Quelli che arrivano primi in tale corsa vengono ricompensati in quanto possono vendere questi prodotti con un margine di profitto più elevato, ossia realizzare un "profitto supplementare", oppure aumentare la loro parte di mercato a scapito di altre imprese, ed appropriarsi così di una parte più importante della massa del valore socialmente prodotto. Ma questo vantaggio a breve termine viene ad essere ben presto neutralizzato quando i concorrenti arrivano ed applicano a loro volta i nuovi processi di produzione. La corsa ai metodi più produttivi entra in un nuovo round, che tuttavia si stabilizza ad un livello generale più elevato di produttività e che da parte sua rappresenta soltanto una nuova rotazione della spirale senza fine della crescita della produttività.

Ma in quale misura questa dinamica entra ora essa stessa in contraddizione con la costrizione, analizzata in precedenza, ad accumulare continuamente sempre più una maggior quantità di lavoro? Per meglio comprendere tutto questo, dobbiamo innanzitutto osservare più da vicino il tipo di effetto prodotto dall'aumento della produttività sulla misurazione del valore. In primo luogo, bisogna sottolineare quello che ha prima vista potrebbe apparire come un paradosso: l'aumento della produttività non ha alcuna influenza sulla quantità di valore rappresentato da un'ora di lavoro sociale, vale a dire un'ora che è conforme alla norma sociale del tempo. Un'ora di tempo astratto rimane sempre un'ora di tempo astratto, e quindi rappresenta sempre la stessa somma di valore. La modifica delle condizioni di produzione non cambiano assolutamente niente; in quanto nella dimensione della ricchezza astratta, è proprio di queste condizioni concrete e materiali che si fa astrazione. Non di meno, ciò che cambia è la quantità di merci che devono essere prodotte in un'ora di lavoro sociale, e nelle quali il valore rappresentato da quest'ora viene ripartito. Un'ora di lavoro sociale si rappresenta quindi - dopo l'introduzione del mestiere del tessitore con il telaio meccanico, per riprendere l'esempio usato da Marx - con 40 metri di tessuto, al posto dei 20 metri precedenti; il che significa semplicemente che il valore per metro di tessuto è stato diviso per due.

La trasformazione della norma sociale del tempo nel corso della dinamica capitalista, comporta di conseguenza la diminuzione permanente del valore delle merci [*2]. Ma questo sviluppo entra in evidente contraddizione con il fine autoreferenziale della valorizzazione capitalista, con l'obbligo ad accumulare sempre più "lavoro morto". Al livello della merce particolare, questa riduzione del valore può certamente essere compensata per mezzo di un debito della produzione allargata (al posto del 20 metri di tessuto, ora se ne producono 40), ma in questo modo la contraddizione interna non viene superata, ma viene solo differita; in quanto essa si verifica ancora una volta ad ogni nuova tappa del livello di produttività sociale. Il debito della produzione supplementare necessario a compensare un certo guadagno di produttività cresce in maniera esponenziale. Se la produttività, nell'esempio di Marx, si raddoppia ancora una volta, sarà necessario produrre 80 metri di tessuto per poter rappresentare la medesima quantità di valore; alla prossima tappa, saranno necessari 160 metri, ecc.. Sotto quest'aspetto, il capitalismo partecipa permanentemente ad una gara contro sé stesso. Ma la corsa non si può mai fermare (a meno di un superamento del modo di produzione capitalista), in quanto essa basa la sua forza nell'essenza profonda della logica capitalista. Così, Marx descrive il capitale come "una contraddizione in processo": «Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.[...] Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato.» (MEW 42, p. 601-602/Marx,  Grundrisse).

Viene quindi dimostrato che il capitalismo, spinto dalla sua stessa dinamica interna, deve, presto o tardi, inciampare nel suo limite storico assoluto. In quanto l'imperativo inerente allo sviluppo senza posa della potenza produttiva è a lungo termine incompatibile con il fine limitato della produzione di ricchezza astratta. Tuttavia, la natura dell'auto-contraddizione capitalista vuole anche che i limiti della valorizzazione del capitale non siano mai fissi, ma siano spinti in avanti nel corso del suo dispiegarsi storico, di modo che in un lungo periodo di tempo l'auto-contraddizione capitalista riesca a compensare nell'insieme, per mezzo di un'espansione accelerata della produzione di merci - vale a dire attraverso una crescita rafforzata -, la diminuzione del valore dal lato della merce particolare. Dal punto di vista storico, è proprio tale effetto di compensazione che ha nutrito l'incredibile dinamica espansionista del capitalismo nel corso del XIX e del XX secolo. A partire dalla prima rivoluzione industriale, e per circa 150 anni, la produzione capitalista di merci si estende così rapidamente, a delle regioni e a dei rami di produzione sempre nuove, che, sotto un angolo assoluto (in rapporto all'insieme della valorizzazione capitalista), si accresce il bisogno di manodopera, nel mentre che, sotto un angolo relativo (in rapporto alla merce particolare), il lavoro è stato in permanenza "economizzato", grazie al progresso tecnico-organizzativo. Come tutti sanno, questa evoluzione è stata di sicuro tutto tranne che continua, ed è stata piuttosto attraversata da gravi eruzioni di crisi, che, nonostante le loro devastanti conseguenze, hanno potuto sempre, in fin dei conti, essere superate per mezzo dello sfruttamento di nuovi territori della valorizzazione del capitale. Sotto l'angolo storico, l'auto-contraddizione interna del capitalismo si trasforma innanzitutto in una sorta di potente motore dell'espansione capitalista sull'insieme di tutto il pianeta.

Ma non per questo il potenziale interno di crisi è stato disinnescato, e lo si vede semplicemente riprodotto e rafforzato su una scala sempre più grande. Poiché a ciascuna nuova ondata di razionalizzazione si accentua anche l'ampiezza dell'aumento della produzione necessaria per poter arrivare, almeno, a compensare la diminuzione del bisogno di forza lavoro. Come vedremo, il boom economico del dopoguerra ha costituito l'ultima occasione storica di vedere questa compensazione storica avere successo ancora una volta. Con l'attuarsi della terza rivoluzione industriale, il centro di gravità della potenza produttiva sociale si è definitivamente spostato verso l'applicazione della conoscenza sulla produzione, allo stesso tempo in cui l'impiego di forza lavoro immediata, nel processo produttivo, diviene sempre più marginale. In questo modo, la base stessa della produzione viene ad essere minacciata, e l'auto-contraddizione interna del capitalismo diventa la forza motrice di un lungo processo di crisi, che spinge inesorabilmente la società capitalista verso il suo limite storico.


NOTE:
[*1] - Su questo punti, è «la dimensione temporale del dominio astratto che caratterizza le strutture dei rapporti sociali alienati sotto il capitalismo. La totalità sociale costituita dal lavoro in quanto mediazione generale oggettiva ha un carattere temporale per cui il tempo diviene una necessità» (Ivi, in Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale"). Come sottolinea Postone, è questa forma di dominio storicamente specifico che costituisce la società capitalista come totalità: «La società capitalista si costituisce sotto la forma di una totalità che non si oppone solamente agli individui, ma che tende anche a sottometterli: essi diventano dei "semplici organi" del tutto"» (ivi, p.286). Gli sforzi di emancipazione devono quindi dirigersi contro la sussunzione degli individui al dominio astratto, vale a dire puntare al superamento della totalità, anziché affermarla, come fa il marxismo tradizionale.
[*2] - «La produttività aumentata non produce solamente una più grande quantità di ricchezza materiale, ma attua anche una riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario. Data la misura temporale astratta del valore, questa ridefinizione del tempo di lavoro socialmente necessario modifica la grandezza del valore delle merci individuali prodotte, e non il valore totale prodotto per unità di tempo. Il valore totale rimane costante e quando aumenta la produttività si trova ad essere semplicemente ripartito fra una più grande quantità di prodotti.»

- Estratto da - Norbert Trenkle ed Ernst Lohoff, "La Grande dévalorisation. Pourquoi la spéculation et la dette de l’Etat ne sont pas les causes de la crise", Post-éditions, 2014, pp. 32-38 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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