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il rasoio di occam

Materialismo e prassi emancipatrice in Alfred Schmidt

di Riccardo Bellofiore

Il concetto di natura in Marx” di Alfred Schmidt rappresenta uno dei classici della seconda generazione marxista della Scuola di Francoforte. Si tratta infatti di un libro che ha segnato profondamente lo sviluppo del dibattito degli anni '60 e '70 e che ha ottenuto un'ampia ricezione, in Italia anche grazie all'opera di Lucio Colletti. Ora ritorna in libreria per i tipi di Punto Rosso e grazie alla cura di Riccardo Bellofiore, della cui introduzione al testo di Schmidt pubblichiamo qui, per gentile concessione dell'editore e dell'autore, un ampio estratto

andrea ravo mattoni street art classicismoAlfred Schmidt è stato uno degli ultimi eredi della tradizione della Scuola di Francoforte di Adorno e Horkheimer, negli anni in cui si può dire che ancora si producesse ‘alta teoria’ nel solco dell’Istituto per la ricerca sociale, e che lì fosse ancora vivo ed organico un rapporto interno con la teoria di Marx, fuori da ogni sterile ortodossia e distante dagli stilemi del marxismo-leninismo. Il lettore italiano – in specie chi, come me, si è formato tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento – ha avuto la fortuna che quasi tutto di Schmidt fosse allora tradotto nella nostra lingua, per così dire in tempo reale. Schmidt, almeno il primo Schmidt, può essere dunque letto nella nostra lingua, rivolgendosi però alle biblioteche, perché la gran parte degli scritti che citerò sono fuori stampa. Per questo è benvenuta l’iniziativa delle Edizioni Punto Rosso di ripubblicare il suo libro forse più noto, Il concetto di natura in Marx, integrato da nuovi materiali.

 

Sul concetto di natura in Marx

Al cuore dell’impostazione del volume sta essenzialmente una duplice prospettiva, che dà corpo e sangue al materialismo di Schmidt: per un verso, una lettura del rapporto tra essere umano e natura come relazione tra soggetto e oggetto nel lavoro; per l’altro verso, il medesimo rapporto come definizione dell’originalità di Marx sul terreno della teoria della conoscenza.

Il primo versante definisce l’anti-idealismo dell’autore del Capitale; il secondo versante chiarisce in che senso Marx si ponga sulle orme di Hegel. La compenetrazione di natura e società avviene all’interno della natura: una valida teoria della società si dà solo sul presupposto di un materialismo naturalistico, per cui mai la natura può essere intesa come un derivato rispetto all’idea. Il punto di partenza non è lo Spirito Assoluto ma gli esseri umani in carne ed ossa. Hegel, certo, riconosce la differenza insopprimibile di concetto e realtà: la ‘svaluta’, però, attribuendola al lato soggettivo come mera determinazione dell’intelletto astratto.

Il primo capitolo è quello che ha per tema Marx e il materialismo. Se vi è – come vi è, ed è ineliminabile – una priorità della natura esterna, il riferimento non è però ‘ontologico’, alla realtà extraumana come oggettività immediata. La priorità della natura extraumana si dà da sempre (e sempre più) all’interno della ‘mediazione’, sicché la natura è, ad un tempo, un momento della prassi umana e la totalità di ciò che esiste. In questo orizzonte, il mondo è sì mediato dal soggetto umano (esso stesso parte della natura), come viene affermato dall’idealismo kantiano e post-kantiano: l’oggettività non si risolve mai però senza residui nella prassi umana come processo. Detta altrimenti: la non-identità non viene mai sciolta nell’identità, e si riafferma in ultima istanza la differenza, e con essa la (permanente) necessità del lavoro. La natura, in questo senso ampio, è l’unico oggetto di conoscenza, dove è possibile distinguere l’essere umano e il suo lavoro, da un lato, e la natura e i suoi materiali dall’altro. Nell’unità dei poli si ‘produce’ il mondo sensibile, di nuovo esso stesso naturale. Lo scarto che qui opera Marx è doppio. Da un lato, nega l’ ‘in sé’ di una natura non mediata dall’essere umano (posizione che attribuisce a Spinoza). Dall’altro, critica l’autonomia della coscienza (lungo la linea fichtiana). L’unità dei due momenti è da affermarsi in modo storicamente concreto: e per questo Schmidt prende le distanze da quello che definisce il travestimento metafisico di questa unità operato da Hegel. In questa lettura il materialismo marxiano, pur mantenendo un debito col materialismo precedente, si rivela inseparabile da un orientamento verso la ‘pratica’: è questo che lo allontana da Feuerbach, e che gli impone di superare (e al tempo stesso mantenere) la verità parziale di Hegel. Né lo spirito né la materia sono principio unitario di spiegazione del mondo. Nasce di qui una doppia polemica, che percorre tutto il libro: contro parte della riflessione di Engels; e contro tutta la dialettica materialistica di torsione sovietica, segnata dal teleologismo.

Il terzo capitolo è quello centrale, dedicato al rapporto tra società e natura, da un lato, e il processo conoscitivo, dall’altro. Il punto chiave è qui che il processo conoscitivo non è un processo teoretico-astratto ma concreto: non è cioè separato dal – anzi, è in fondo la stessa cosa del – lavoro come prassi, in cui gli esseri umani apprendono le ‘forme’, ovvero le leggi che esprimono la struttura e l’essenza della natura. Se l’essere umano ‘dipende’ dal mondo oggettivo e dalle sue leggi, quel mondo è ‘fragile’ rispetto alla prassi trasformatrice dell’essere umano. In questo momento ‘pratico’ della mediazione si compenetrano il peculiare ‘realismo’ (non ingenuo, ma gnoseologico) di Marx e il suo ‘soggettivismo’ (orientato in senso sociale). Vediamo in che senso.

La conoscenza non è per Marx, come sarà in larga misura per Lenin, ‘rispecchiamento’ passivo di strutture oggettive. Dopo Kant, è impossibile passar sopra al fatto che ciò che si dà immediatamente è mediato concettualmente: non è più possibile non tener conto, in forme che diverranno via via più precise, della circostanza che soggetto e oggetto si co-determinano, e che il metodo è inseparabile dal contenuto. In Marx, però, i concetti non sono il rispecchiamento degli oggetti esterni ma emergono dalle relazioni storicamente mediate degli esseri umani con questi ultimi. Il momento della ‘critica’ in senso kantiano non è più formale ed astratto – la domanda sulle condizioni di possibilità di una conoscenza distaccata dal contenuto – ma può darsi soltanto con riferimento a un contenuto concreto (è questo uno dei sensi di critica nel sottotitolo del Capitale). Questa contestazione a Kant, di origine hegeliana, viene resa concreta e pratica da Marx trasferendola dall’universo della conoscenza a quello del rapporto di lavoro: una torsione ‘pratica’ interna al discorso teorico che muta la riflessione gnoseologica quale costruzione speculativo-idealistica nel nuovo materialismo della ‘costituzione’ dell’oggettualità storico-sociale (ma dunque anche naturale).

La tesi materialistica che è propria soltanto di Marx – sottolinea Schmidt – è che in questo intreccio il passaggio dell’accento dall’oggettivismo al soggettivismo “riflette livelli pratici della produzione e il loro passaggio storico l’uno nell’altro.” (p. 107) Il processo di produzione nella realtà diviene una ‘scienza sperimentale’. Industria ed esperimento scientifico, così come il processo della vita sociale come un tutto e l’azione rivoluzionaria, rimandano alla dimensione ‘pratica’ rivendicata da Marx contro Feuerbach nella sua seconda tesi: “[n]ella prassi l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e la potenza, il carattere terreno del suo pensiero”.

Sul terreno della teoria della conoscenza, più precisamente della collocazione di Marx tra Kant e Hegel, Schmidt in poche righe risolve con nitidezza questioni che hanno affaticato generazioni di interpreti, prima e dopo di lui: “esiste tra Marx e Kant una relazione finora non sufficientemente considerata. Proprio come per Kant, anche per Marx forma e materia del mondo fenomenico si possono separare soltanto in abstracto, non sul piano reale. Per Marx come per Kant forma e materia restano esterne l’una all’altra (p. 112). Qui è davvero essenziale il riferimento a Hegel, grazie al quale la dialettica di Marx trasforma la ‘costituzione’ in senso kantiano nella plasmazione sociale di una natura in sé già formata:

“Tra Kant ed Hegel, Marx assume una posizione mediatrice difficilmente definibile. La sua critica materialistica alla identità hegeliana di soggetto ed oggetto, lo riconduce a Kant, anche se Marx non torna a concepire l’essere non-identico con il pensiero come un’inconoscibile ‘cosa in sé’ […] Marx, mantenendo la tesi kantiana della non-identità di soggetto e oggetto, ribadisce però la posizione post-kantiana che non trascura la dimensione storica e vede soggetto e oggetto entrare in sintesi e relazioni mutevoli”(112-113).

Il quarto capitolo è dedicato all’utopia del rapporto fra uomo e natura. Qui Schmidt chiarisce quanto era già chiaro in precedenza: che pur non dandosi una ‘rottura epistemologica’ tra il Marx dei Manoscritti e il Marx del Capitale, le categorie giovanili vengono tutte ridefinite a partire da quello snodo cruciale che sono i Grundrisse (un punto a cui Colletti ingiustamente resiste). Come ho sostenuto altrove, il Marx giovane va letto a partire dal Marx del Capitale, e vanno rigettate sia le letture che pongono una discontinuità radicale, come quella di Althusser, sia quelle che insistono a vedere nell’opera matura una mera prosecuzione, se non addirittura un impoverimento, del primo Marx. Nel Marx ormai maturo critico dell’economia politica niente più alienazione, pienezza naturale di vita, realizzazione dell’essenza umana, ritorno dell’essere umano in sé, culto romanticheggiante e feuerbachiano della natura, della donna, dell’essere umano. L’utopia marxiana afferma l’insuperabile finitezza dell’essere umano e le condizioni di possibilità della libertà concreta, sulla base del principio del comprendere e dominare ciò che è socialmente necessario. Non vi è qui alcuna esaltazione sovrastorica dei rapporti economici e delle forze produttive, semmai un materialismo che in prospettiva si ‘supera’. Il regno della libertà non abolisce il regno della necessità e neppure il lavoro, come condizione naturale eterna della vita umana e comune a tutte le forme di società. D’altra parte, Schmidt vede bene che Marx non propone alcuna astorica ontologia fondata sulla struttura del processo di lavoro, perché quest’ultimo è esso stesso storicamente mediato.

Marx, come Freud, “va annoverato tra i grandi pessimisti della storia.” (p. 129) La natura non è un principio metafisico positivo: “[l’]utopia segreta della psicoanalisi, come viene espressa nel Futuro di una illusione, è in fondo la stessa utopia di Marx, ‘vista dall’interno’”. (p. 130) Non è possibile, come in fondo fa Ernst Bloch, seguire Hegel nel pensare la natura come un soggetto assoluto che si media con se stesso. Bloch ha però ragione quando, riprendendo un tema di Schopenhauer, auspica una resurrezione della natura extraumana nelle condizioni di una società razionale. Anche se Schmidt teme che abbia piuttosto ragione Walter Benjamin quando osserva che le possibilità tecniche aperte all’essere umano si traducano in forze distruttive, e che il mutamento reciproco di soggetto e oggetto pensato da Marx si tramuti nella mutua distruzione.

 

La Darstellung come categoria chiave della critica dell’economia politica, e la ‘seconda ricezione’ di Hegel da parte di Marx

Nelle numerose ripubblicazioni del suo libro sulla natura risaltano due aggiunte significative, che in parte mutano l’accento del ragionamento. Si tratta dell’appendice del 1965 su storia e natura nel materialismo dialettico, e della nuova introduzione all’edizione tedesca del 1993 (tradotta in francese l’anno successivo, e più recentemente resa disponibile in spagnolo, e inclusa anche in questa nuova edizione italiana). Prima però di tornare su questi due testi, a dire ciò che in essi segna uno slittamento progressivo del discorso, è importante seguire il percorso della riflessione di Schmidt dopo la pubblicazione della sua tesi di dottorato. È un percorso scandito in due grandi fasi, la prima che va sino alla metà degli anni Settanta (e di cui fa parte l’appendice del 1965) e la seconda che si estende negli anni successivi (e sul cui sfondo si comprendono i toni dell’introduzione del 1992).

Il testo da cui partire è “Zum Erkenntisbegriff der Kritik der Politischen Ökonomie”, incluso nel volume da lui curato con Walter Euchner,  Kritik der politischen Ökonomie heute. 100 Jahre "Kapital", a partire da un colloquio a Francoforte del settembre 1967 per celebrare il centenario della pubblicazione del primo libro del Capitale. Giusto cinquant’anni fa. Si tratta di un saggio fondamentale (ecco qui un’altra svista di Colletti nella sua introduzione), che fa a pieno titolo parte, ed è anzi per molti versi all’origine, della rinascita degli studi marxiani di quegli anni, a partire dai seminari di Adorno, e da cui si dipanerà poi la Neue Marx-Lektüre: basti ricordare i nomi di Hans-Jürgen Krahl, Hans-Georg Backhaus (di cui è da poco uscito per Mimesis, a cura di Tommaso Redolfi Riva e mia, Ricerche sulla critica marxiana dell’economia. Materiali per la ricostruzione della teoria del valore), Helmut Reichelt, Oskar Negt, oltre allo stesso Schmidt. È lo scritto in cui viene in evidenza il concetto chiave di ‘esposizione’ (Darstellung), e il significato di dialettica per il nostro autore: “Allo stato attuale della discussione internazionale [Schmidt cita in particolare il saggio di Jacques Ranciére in Lire le Capital] non vi può più essere dubbio alcuno che una comprensione adeguata del metodo di Marx nel Capitale si regge o cade con il concetto di ‘esposizione’.” (Schmidt 1968, p. 97) L’esposizione – come aveva osservato Horkheimer negli anni Trenta – consente di dare significati nuovi ai contributi separati e individuali delle singole ed unilaterali ‘scienze’ come l’economia politica, significati inaccessibili se la totalità viene spezzata in parti che appaiono irrelate: in tal modo, l’esposizione del sistema del capitale si propone ad un tempo come la critica del capitale.

L’attenzione a questo lato metodico del sistema marxiano viene dalla convinzione che Schmidt ha maturato che la comprensione del Capitale richieda al lettore la coscienza che l’opera matura di Marx, dai Grundrisse in poi è segnata da una seconda ‘ricezione’ di Hegel da parte di Marx. L’opera di riferimento, in questo caso, è la Scienza della Logica, che ha per la struttura metodologica della critica dell’economia politica la stessa importanza che aveva avuto la Fenomenologia dello Spirito per la fase che precede la rivoluzione del 1848. In questo, si è aiutati solo sino ad un certo punto da Marx, perché l’autocomprensione che l’autore del Capitale ci ha consegnato in poche dichiarazioni, non sempre sistematiche e non sempre coerenti, è più povera di quanto l’autore stesso non ci dica, di fatto, attraverso la sua costruzione teorica stessa. E d’altra parte anche ciò non può stupire, perché in Marx il discorso sul metodo non si dà separatamente e in astratto, ma soltanto in relazione stretta con l’oggetto indagato.

Schmidt parte dall’osservazione che non esistono ‘fatti’ che possano essere compresi dentro i confini disciplinari tradizionali. L’effettivo ‘oggetto di conoscenza’ è l’intero della società, e dunque il capitale come totalità. Non si tratta di partire dalle condizioni empiricamente date della produzione: Marx, al contrario, intraprende una critica delle teorie e delle categorie della scienza ‘borghese’.Bisogna perciò tener fermi tanto la circostanza che l’oggetto della critica può essere colto solo ‘indirettamente’, quanto il fatto che ciò non di meno esso pur sempre in sé si dà ‘oggettivamente’. La teoria e il suo contenuto oggettivo sono in relazione, ma non si identificano. È per questo che il metodo della ricerca si distingue formalmente dal metodo della esposizione. Il metodo della ricerca elabora il materiale tratto dalla storia, dall’economia politica, dalla sociologia, dalla statistica, e così via, tramite il procedimento dell’ ‘isolamento e dell’analisi’ proprio dell’intelletto astratto. Il metodo dell’esposizione, all’opposto, deve portare questi fatti isolati ad una unità concreta. L’esposizione procede dall’esserci immediato all’essenza mediata, per cui l’essenza è il fondamento dell’essere. La realtà essenziale deve manifestarsi fenomenicamente (abbiamo a che vedere con una Erscheinung), e questa ‘apparenza’, che pure vive in parte una sua vita propria, è il presentarsi concreto dell’essenza: soltanto attraverso la manifestazione fenomenica si può accedere all’essenza che così si rivela. L’esposizione muove dai risultati compiuti dello sviluppo storico, in qualche modo ossificati, e ne rivela la genesi storica e umana: ma non nel senso della successione dei fatti concreti, semmai seguendo il percorso contrario. Schmidt non si stanca di ricordare che è l’anatomia dell’essere umano che spiega quella della scimmia. Espungere da Marx la dialettica che dà la sua impronta all’esposizione significa espungere dal Capitale il lato ‘negativamente razionale’ che rende possibile la comprensione critica dell’intero, e ciò che resta sono connessioni tra fenomeni puntuali poste soggettivamente dal ricercatore.

Schmidt insiste che per prima cosa, occorre ‘leggere’ Marx, e questo approccio, se rigorosamente filologico, può aiutare a dissolvere una serie di questioni che si sono incrostate nel tempo. D’altra parte, aggiunge, una lettura seria non può che fare emergere nodi problematici e questioni in sospeso, che l’ ‘interpretazione’ può provare a superare. Per mio conto, credo che l’interpretazione, se rimane dentro il recinto del riferimento al solo Marx, non basti a dirimere i nodi e le ambiguità, non sia sufficiente a costruire un edificio teorico solido. Le ambivalenze e difficoltà di Marx sono più profonde di quanto si potesse ritenere all’inizio del percorso di lettura e interpretazione: occorre, allora, una terza modalità di rapporto con l’autore, che definirei di ‘ricostruzione’, dove con più libertà ci si muove anche al di là delle intenzioni dell’autore. Si deve essere disposti ad andare dal ‘Marx secondo Marx’ al ‘Marx contro Marx’. Qualche cenno in questa direzione mi pare sia presente nel Korreferat di Oskar Negt che viene anch’esso tradotto in questo volume, con una premessa di Stefano Breda.

Il frutto più maturo di questa seconda fase della riflessione schmidtiana, che sviluppa a fondo il saggio del 1968, è il libro del 1971, Geschichte und Struktur [Storia e struttura], anch’esso tradotto in italiano tempestivamente da De Donato, nel 1972. Alfred Schmidt riprende con forza la tesi dell’Horkheimer degli Anni Trenta, che era parimenti critico, ad un polo, verso le posizioni ‘metafisiche’ che pensano di poter dire qualcosa di positivo sull’assoluto, e, all’altro polo, con le pretese di una scienza ‘positiva’ empirista: se si vuole ridurre all’essenziale, contro Heidegger così come contro il neopositivismo. Secondo Horkheimer, “la legalità che si tratta di scoprire nella storia non è né una costruzione a priori né una registrazione di fatti da parte di un soggetto gnoseologico pensato come indipendente, è invece prodotta dal pensiero esso stesso coinvolto nella prassi storica” (a pagina 16 della nuova edizione Mimesis di Teoria critica comparsa nel 2014). Nel Marx che ci presenta Schmidt, l’impiego del ‘metodo dialettico’ consente tanto la conoscenza critica del movimento storico (a partire dal presente come storia sedimentata) quanto, al contempo, la negazione dello stato di cose esistente. Il criterio cui si conforma la dialettica marxiana è dunque duplice: storico e logico. Storico non va però qui inteso come storicistico, come se la struttura logica dell’interpretazione debba ripercorrere descrittivamente la storia del suo oggetto. Piuttosto, secondo l’autore

[p]er Hegel, come per Marx, la realtà è processo: totalità ‘negativa’. Quest’ultima si presenta nell’hegelismo come sistema della ragione, vale a dire come ontologia chiusa rispetto alla quale la storia umana degrada a derivato, a mero caso di applicazione. Marx, invece, pone l’accento sulla irriducibilità e apertura del processo storico, che non si fa ingabbiare in una logica speculativa alla quale ogni essere obbedirebbe in eterno. La ‘negatività’ diviene così un qualcosa di limitato nel tempo e la ‘totalità’ si trasforma nell’insieme dei moderni rapporti di produzione.” (Schmidt 1973, p. 45)

Benché i moderni rapporti di produzione siano ricavati secondo un criterio storico-concreto – non nascono dal nulla o dall’Idea, afferma il Marx maturo, con un evidente accento polemico contro Hegel, non troppo distante dalla sua critica giovanile – quei rapporti, una volta costituiti, formano un sistema spiegabile puramente a partire da se stesso. Sta qui la verità della tesi secondo cui ciò che Marx riprende da Hegel è il metodo del presupposto-posto (punto che per quel che mi riguarda ho ripreso da Roberto Finelli sin dagli anni Ottanta, e sviluppato pur con accenti diversi). La logica immanente del capitale, sviluppata con rigore, deve condurre ad una doppia apertura: rispetto al divenire passato, e rispetto al possibile futuro. Gioca qui la già ricordata distinzione tra ‘oggetto di conoscenza’ eoggetto reale’ che costituisce un punto di tangenza con la scuola althusseriana, pur criticata a fondo in questo libro come in un lungo saggio di due anni prima, “Der strukturalistiche Angriff auf die Geschichte”, in Beiträge zur marxistischen Erkenntnistheorie (questo lungo saggio è stato tradotto in italiano come un breve libro da Lampugnani Nigri, nel 1972, con il titolo: La negazione della storia. Strutturalismo e marxismo in Althusser e Lévi-Strauss).

La storia ‘razionale’ del capitale, quella che discende dalla logica che gli è propria, ne segue i movimenti effettuali, non quelli contingenti. Non vi è parallelismo tra sequenza storica e sequenza logica, semmai, lo si è visto, la seconda segue un corso opposto alla prima, senza però, si badi, potersene mai autonomizzare compiutamente. Le categorie logiche che consentono di cogliere costruttivamente la realtà del capitale sono forme di pensiero ‘socialmente valide’, dunque ‘oggettive’, dei rapporti di produzione di un modo di produzione sociale storicamente determinato. Per questo l’esposizione ‘razionale’ di una totalità strutturata – la catena di deduzioni dialettiche che la rende comprensibile – risulta superiore, per Schmidt come per Adorno e Horkheimer, rispetto alla ricerca induttiva e specialistica lungo sfere di indagine separate.  A questa assenza di connessione interna tra frantumate astrazioni ‘intellettuali’ la tradizione di pensiero che discende dai due fondatori della Scuola di Francoforte affibbia l’etichetta, forse un po’ sbrigativa, di ‘empirismo’.

Nella ripresa marxiana di Hegel, Schmidt individua due movimenti, che si incastrano l’uno nell’altro: da un lato, la progressiva determinazione del cominciamento (in qualche misura, la ‘concretizzazione’ a cui ho fatto riferimento); dall’altro, il regressivo fondare quel cominciamento medesimo (in qualche misura, il circolo della ‘posizione del presupposto’), in una sequenza a spirale. Il movimento progressivo-regressivo del discorso di Marx non era sfuggito a Jean Paul Sartre, osserva il nostro autore. E’ chiaro che in questa impostazione alle categorie logiche non può che essere attribuita una ‘validità’ solo temporale, e pure che è il metodo logico stesso che deve mostrare i punti dove la considerazione storica e quella politica divengono essenziali (un punto importante anche per Cesare Luporini). Scrive Schmidt: “[i]l ‘fondamento’ mediatore del cominciamento – il mondo già dato delle merci – verso il quale tende la conoscenza non è un concetto assoluto, ma la storia, che rompe ogni immanenza logica e non accetta di essere spiritualizzata.” (Schmidt 1973, pp. 73-74) E’ qui evidente che la critica dell’empirismo, per lo Schmidt allievo di Horkheimer, non comporta una cancellazione della dimensione empirica della teoria marxiana, così come la critica dello storicismo non si traduce in una espulsione della storia dal processo conoscitivo.

 

L’appendice all’edizione del 1965 e la prefazione all’edizione del 1993

Veniamo al saggio in appendice del 1965. Qui Schmidt sostiene che il materialismo marxiano non può essere inteso se non in un legame stretto con il contenuto dell’economia politica. La stessa attribuzione di una dialettica al processo storico-umano invece che naturale è da prendere con molta cautela. Occorre qui differenziare gli stadi preborghesi dal modo di produzione capitalistico. E’ questo un punto di cui Lucio Colletti non coglie bene l’importanza, e che è invece è stato fondamentale nella mia ricerca (il titolo del mio primo saggio, “Sul concetto di lavoro in Marx”, era chiaramente una strizzata d’occhio a Schmidt, e dipendeva molto nel suo contenuto proprio dal saggio aggiunto nella seconda edizione). La ‘società’ in senso proprio si costituisce soltanto con il capitale, è soltanto in essa che la produzione diviene davvero ‘socializzata’ – conto di pubblicare a breve un piccolo libro dedicato alle Avventure della socializzazione nella discussione marxiana. Il testo chiave qui sono i Grundrisse, dove Marx con decisione si smarca da quei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che pure riprende (rimando al mio saggio del 1979 su “Ricerche economiche” per i dettagli). Nel manoscritto del 1857-58 si guarda alle forme di produzione precapitalistiche dal punto di vista della modernità capitalistica: dallo stadio del lavoro ‘libero’, e dello scambio contro denaro interno alla valorizzazione e riproduzione del capitale. La storia preborghese ha un carattere ‘naturale-astorico’. La cooperazione e la divisione del lavoro originariamente sono ‘naturali’, poggiano sulla proprietà comune della terra e delle altre condizioni della produzione, sul fatto che il singolo individuo non si è staccato dalla comunità. Gli individui in senso proprio sono, invece, concepibili soltanto come organi particolari di un intero astratto e immediatamente omogeneo. Sono dunque il risultato di un lungo processo storico di disgregazione di quella connessione naturale.

Negli stadi precapitalisti i soggetti si riferiscono alla terra come natura inorganica della propria soggettività, e come condizione data. Essa è, sì, già mediata da una totalità nella storia, ma da una totalità che non riesce ad uscire compiutamente dal suo stadio naturale: qualcosa che è pienamente possibile solo con la ‘separazione’ tra le condizioni inorganiche dell’esistenza umana e questa esistenza stessa; dunque quando si dà la Trennung tra capitale e lavoro. Negli stadi precapitalistici il lavoro stesso è condizione inorganica della produzione: le condizioni oggettive del lavoro sono terra-natura come ‘presupposti’ già dati, e che includono il soggetto e la comunità. Nello stadio capitalistico, invece, tutti i rapporti sono ‘posti’ dalla società. Di più, il lavoratore è ‘povertà assoluta’: è, in altri termini, capacità lavorativa puramente soggettiva, priva di oggettività. Da un lato, il portatore vivente di ‘forza-lavoro’ che deve essere appropriata dal capitale. Dall’altro lato, il capitale che si appropria di quella forza-lavoro nella compravendita sul ‘mercato del lavoro’, il che configura una vera e propria soggezione formale e monetaria del lavoro al capitale. Il capitale deve includere dentro di sé la forza-lavoro vivente e deve metterla al lavoro, e nel far ciò determina formalmente la stessa struttura tecnica del processo di lavoro. La forma di valore penetra dentro la stessa dimensione del valore d’uso. Per questo – ecco l’incomprensione di coloro che sono alla caccia di una astorica ontologia sociale del processo di lavoro – la riconduzione del processo lavorativo agli elementi comuni ai diversi modi di produzione è fallace, è una parvenza. Ciò che vale è l’inversione, “identica all’automovimento del capitale che produce il suo contenuto” (p. 172).

Nel mondo preborghese il rapporto tra l’elemento naturale e lo storico rientra nel grande contesto della natura; nel mondo borghese, anche per quanto riguarda la natura non ancora appropriata, quel rapporto rientra nella storia […] [i]l corso della storia per Marx è quindi molto meno lineare di come viene concepito generalmente; esso non obbedisce ad alcuna idea che ne costituisca l’unità e il senso, bensì si ricompone continuamente a partire da singoli processi originali. In questo modo alla formazione della società borghese spetta nel materialismo dialettico un ruolo metodologicamente decisivo, in quanto a partire da essa si dischiudono tanto il passato quanto anche le possibilità del futuro. (p. 171)

Il costituirsi storico del capitale viene assorbito in un sistema che può venire considerato nella sua pura immanenza (p. 175). Una ‘critica dell’economia politica’ – come critica, ad un tempo, dell’alienazione, del feticismo, e dell’ideologia – diviene possibile quando gli antagonismi oggettivi (e quello lavoro-capitale lo è) raggiungono il punto nel quale è pensabile la possibilità reale del superamento della realtà capitalistico. La dialettica marxiana è valida unicamente nella società del capitale al suo completo sviluppo. L’oggettività delle leggi sociali scompare quando esse vengono risolte in azioni razionali e l’opacità della struttura sociale viene lacerata (torna qui il tema già trattato del ‘metodo soggetto a revoca’; come anche la tangenza con, e però anche la critica dello, strutturalismo).

Passiamo ora alla prefazione del 1993. In essa il tono è non poco diverso. La preoccupazione per la distruzione dei fondamenti naturali della vita sociale, già accennata nella prefazione all’edizione tedesca del 1971 (che non si trova né nell’edizione italiana né in quella inglese), è al centro della scena: non è più attribuita sic et simpliciter al capitalismo, ma alle forme dell’industrialismo e del ‘progresso’. L’accusa di una corresponsabilità di Marx ed Engels in questa deriva ‘manipolatoria’ della natura ai fini del dominio da parte dell’essere umano, lungo la linea di un pensiero che da Bacone va a Cartesio, non è rigettata del tutto. Il ‘marxismo delle forze produttive’ vanterebbe una qualche legittima discendenza da un eccessivo ‘ottimismo’ dei due autori sul lato progressivo del capitale, dall’entusiasmo neanche mascherato per il cosmopolitismo dell’età della borghesia, da quel qualche ‘cinismo’ con cui talora viene riportata la mutilazione dell’individuo per un presunto vantaggio dello sviluppo della specie. A veder bene è qui all’opera ancora una qualche visione ‘stadiale’ della filosofia della storia, che pure Schmidt si era impegnato a relativizzare: almeno in quei passi di Marx dove lo sviluppo precostituisce le basi materiali del socialismo, e dove la transizione dal capitalismo è passaggio necessario della formazione di una individualità ricca e universale capace di controllare collettivamente il proprio destino. Su queste basi, e affiancandovi una messa in questione dell’idea marxiana di un ‘superamento’ troppo facile e meccanico del capitalismo, è possibile iniziare una critica seria della (talora unilaterale) antropologia marxiana, senza buttare via il bambino con l’acqua sporca, come è avvenuto troppo spesso nel femminismo e nel pensiero verde (con cui mi sono provato a dialogare in uno scritto del 1988, “Il rosso, il rosa e il verde. Considerazioni inattuali su centralità operaia e nuovi movimenti”, I Quaderni del CRIC, n. 3, 1988).

Schmidt affianca però a queste considerazioni un attento reperimento di quei passi ben diversi, soprattutto di Marx, in cui una ‘sensibilità ecologica’ è già ben presente. È il Marx che denuncia nello sguardo economico una prospettiva meramente ‘strumentale’, che avvilisce e disprezza la natura; che introduce il tema del ‘limite’ nel ricambio materiale con la natura, e sottolinea la necessità di ristabilire le condizioni, messe a rischio dall’agricoltura capitalistica, per garantirne la permanenza; che imputa al capitale non soltanto lo sfruttamento del lavoro ma anche l’esaurimento della terra, cioè la drammatica erosione delle due sorgenti della ricchezza.

 

In vece di una conclusione

Sia consentito un ricordo personale. Quando organizzai un convegno internazionale sul terzo libro del Capitale all’Università di Bergamo, nel 1994, pensai che fosse bene estendere il discorso sul Marx critico dell’economia politica al di là del recinto della ‘economia’. In particolare, cercai di costruire una tavola rotonda che avesse protagonisti quattro filosofi, che in qualche modo avevano suscitato il mio profondo interesse pressoché dall’inizio dei miei studi. Il lettore forse si stupirà, perché i loro nomi individuano ciò che in inglese si definirebbero unlikely bedfellows: Chris Arthur, Étienne Balibar, Wal Suchting, e appunto Alfred Schmidt. Arthur accettò, e ne nacque una grande amicizia personale, non soltanto una sintonia teorica. Balibar non poteva, ma siamo rimasti in contatto. Suchting mi scrisse che erano ormai molti, molti anni che aveva deciso di non partecipare ai convegni, che nella gran parte risultavano una perdita di tempo e comunque lo distoglievano dalla riflessione e dalla scrittura: iniziò però una continua corrispondenza epistolare, che mi consentì anche di godere della circostanza che Wal mi spedisse molti suoi manoscritti inediti, nella gran parte tuttora non pubblicati. Schmidt, se ricordo bene, mi rispose molto cordialmente, dicendomi però che era da tempo che i suoi interessi teorici avevano preso un’altra piega.

I nomi citati sono di un qualche interesse ai fini di questa introduzione. Arthur è, nei suoi scritti, in profonda sintonia, al di là dei dettagli, con molti aspetti di quella Neue Marx-Lektüre, in particolare nella sua prima fase (Backhaus e Reichelt) che proprio a partire anche dai contributi dello Schmidt degli anni Sessanta e primi Settanta del secolo scorso, approfondì il tema della omologia tra il Geist hegeliano e il Kapital marxiano. Lo Schmidt degli anni Sessanta aveva dovuto compiere un percorso che partiva dall’Horkheimer della teoria critica degli anni Trenta – che saldava il rapporto con l’idealismo tedesco ai contenuti della storia passata e attuale, e all’impegno per l’affermarsi di una libertà concreta – e che però andava oltre. In quell’Horkheimer la teoria non è riflesso ma costruzione, ma la costruzione fa riferimento ad una storiografia come successione temporale di stadi: abbiamo invece visto come debba esistere per Schmidt una (storicamente determinata) priorità del logico sullo storico, che determina il carattere ‘storico-naturale’ dello stesso processo capitalistico, carattere ‘naturalistico’ che pure si tratta di superare.

A me pare che Schmidt, con qualche ragione, non abbia percorso una lettura ‘logicista’ del Capitale di Marx sino a voler mettere ai margini la storia dal discorso teorico, come rischiano a volta di fare Backhaus e Reichelt: che egli sia molto più attento a quelle che io chiamerei le ‘aperture’ della totalità costruita da Marx. E a me pare che ciò sia legato all’accento ‘pratico’ del suo materialismo, che consente di comprendere come l’agire umano che sta dietro il carattere di feticcio di valore, denaro e capitale non stia solo nell’interagire sul mercato delle merci degli agenti come ‘maschere di carattere’: sia dunque compatibile con una nozione di ‘costituzione’ della totalità capitalistica che mette al centro il lavoro, la sua manipolazione da parte del capitale, il conflitto e potenziale antagonismo. In questo, il Balibar successivo a Leggere il Capitale è un possibile sviluppo del discorso. Non soltanto recupera il discorso sul feticismo, ma è sempre meno lontano, mi pare, da una serie di problematiche degli autori tedeschi: e insiste sulla centralità della ‘istanza’ della ‘lotta di classe nella produzione’, come lotta sempre e costitutivamente ‘da ambo le parti simultaneamente’. Il riferimento primo è qui, ovviamente, a La philosophie de Marx del 1993.

Wal Suchting è figura unica all’interno dell’althusserismo. Abbiamo qui a che fare con un fine conoscitore di Hegel, di cui ha co-curato l’edizione inglese dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Tra i suoi inediti vi è un saggio sulla Scienza della Logica (“Hegel’s Science of Logic as a logic of science”) dove si sostiene che Hegel è da leggere in continuità con la visione galileiana della scienza, che è forse uno dei pochi a comprendere con lucidità: la conoscenza deve ‘costruire’ il proprio oggetto, sia dal punto di viste dei concetti che dei criteri epistemologici che la giustificano. In qualche misura, Suchting propone una lettura del nucleo ‘materialistico’ del metodo di Hegel avviluppato in una visione idealistica, una mossa non molto lontana da quella di Alfred Schmidt. Più interessante ancora è il fatto che Suchting, che ha presentato una nuova traduzione delle Tesi su Feuerbach (si veda “Marx’s Theses on Feuerbach”: A New Translation and Notes Towards a Commentary”, in Issues in Marxist Philosophy, II: Materialism, John Mepham and David Hillel-Ruben eds., Harvester Press), offra anche lui una prospettiva secondo cui le pretese di verità non vanno valutate contro l’esperienza, ma per il tramite di una attività pratica trasformativa: una pratica che muta il soggetto mentre muta l’oggetto. Il fine ultimo non è una comprensione teorica ma una trasformazione ‘materiale’ in questo senso.

Non siamo lontani, in questo Schmidt e in questo Suchting, da una prospettiva come quella di Ian Hacking (Representing and Intervening, Cambridge University Press, del 1983: il titolo italiano della traduzione Laterza edita nel 1987 è un po’ diverso e distorcente, Conoscere e sperimentare), secondo il quale non va tanto rivendicato il ‘realismo delle teorie’ (secondo il quale le teorie mirano alla Verità, e qualche volta ci si avvicinano) quanto semmai quella dimensione sperimentale che può convincerci del ‘realismo delle entità’ (del fatto, cioè, che gli oggetti teorici non sono finzioni intellettuali ma esistono davvero). Non è la riflessione sul mondo, scrive, che ci spinge ad essere realisti scientifici, ma la sua modificazione, in conseguenza del nesso stretto tra conoscenza della e ‘intervento’ sulla realtà.

In altri scritti mi è capitato già di fare riferimento, più volte di quante possa ricordare, alla splendida chiusura del saggio posto in appendice a questo volume. Vale la pena di citare per esteso, perché si aggancia proprio a ciò che stiamo discutendo, ma anche perché forse ci dà la chiave per comprendere l’appannarsi del riferimento a Marx dello Schmidt degli ultimi decenni:

così viene a cadere anche la primitiva immagine della conoscenza come copia, nella quale oggetto e coscienza vengono rozzamente contrapposti, mentre viene del tutto trascurato il ruolo della prassi, che è costitutivo per l'oggetto. Il mondo oggettivo non è un in-sé che vada semplicemente rispecchiato, bensì è in ampia misura un prodotto sociale. Ciò che appare dal lato di questo prodotto «come proprietà quieta, nella forma dell'essere», non deve trarci in inganno, ché esso è un'aggiunta alla natura data originariamente, e già prima, dal lato del lavoratore, appariva «nella forma della irrequietezza », cioè dell'attività rivolta ad uno scopo. La coscienza in quanto spirito attivo entra quindi continuamente nella realtà da essa riprodotta. Compito della conoscenza è: non capitolare dinanzi alla realtà, che come una parete di pietra circonda gli uomini. E poiché la conoscenza rimette in vita i processi storico-umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realtà è un prodotto degli uomini e perciò trasformabile: così il concetto più importante della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione politica. (pp. 188-189, corsivi miei)

Una prospettiva teorica di questo genere è ‘fragile’ nel suo rapporto con la ‘realtà’. Non stupisce che in una fase in cui la capacità pratico-trasformativa veniva a oscurarsi, e il ‘soggetto’ di una possibile liberazione pareva ammutolirsi, se non svanire, la posizione da subito matura, positiva e concreta che lucidamente Schmidt era andato delineando, connettendo scienza e rivoluzione – la prospettiva di ‘un marxista sul serio’, nelle parole del Colletti che sto richiamando – entrasse in difficoltà, e rimanesse senza parole. Era in verità l’impasse di una generazione. Ma fuori dalle certezze, la prosecuzione di quel discorso rimane come compito e come sfida, per un’altra generazione a cui questo libro è dedicato.

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