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Il Capitale sorvegliante. Il neo-panoptismo globale

di Emiliano Bazzanella

iStock 1140691167 scaled e1654762497584Introduzione

Questo breve scritto racconta una storia. Quella di un capitale che non costituisce nella una essenza uno stock, un insieme di prodotti collettivi; e quella di un capitalismo il quale invece controlla, accumula e gestisce i capitali, cambiando sempre forma e metamorfizzandosi in figure sempre inattese e sorprendenti. L’ultimo capitolo di questa storia, almeno per il momento, riguarda il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”, surveillance capitalism. Come afferma Shoshana Zuboff che ha divulgato questa terminologia, si tratta di qualcosa di unprecedented, qualcosa di inaudito: non si capitalizzano più cose, oggetti, prodotti, monete, banconote, bensì informazioni personali che riguardano i nostri sentimenti, i nostri desideri, le nostre emozioni, i nostri comportamenti (behavioural data). Si tratta invero di un’informazione subdola poiché ciò che viene captato e capitalizzato sono informazioni per così dire collaterali del nostro vissuto, una sorta di “rumore informativo” di cui siamo per lo più inconsapevoli e che viene analizzato, profilato e ridisegnato nostro malgrado. E così avviene che quando navighiamo in rete, abbiamo l’impressione di conoscere cose già note o quantomeno famigliari, mentre se desideriamo comperare qualcosa pare di trovarci innanzi al commesso virtuale perfetto, che conosce già i nostri gusti e le nostre preferenze.

Ci sono vari ingredienti in questo processo: un discorso sulla proprietà in senso ristretto ed allargato (che cos’è la proprietà e di chi sono i dati che vengono sorvegliati e sottratti?), un discorso sul carattere narcisistico, psicotico e “panoptico” della nostra società (cioè basato sul volere “vedere-sapere” tutto e, simmetricamente, sull’essere-visto e l’essere-saputo dall’Altro), un discorso che riguarda il grande inganno di questo nuovo capitalismo che, sotto il mantra di una nuova libertà e uguaglianza conquistate grazie ad internet, nasconde nuovi focolai di potere e nuove sperequazioni.

Non pensiamo tuttavia che un’analisi “classica” di questa nuova forma di capitalismo possa essere sufficientemente esplicativa: dobbiamo in effetti ripensare al capitalismo come se fosse un sistema di senso rivoluzionario che svolge una doppia funzione, quella di autodomesticare e proteggere la comunità rispetto alle proprie interazioni e agli eccessi cumulativi che produce (ipotesi immunologica), e quella di crescere ipertroficamente conquistandosi un’autonomia la quale tecnicamente non necessiterebbe più dell’uomo (ipotesi post-transumanista). Questi due versanti della questione conducono ad un’analogia che pare all’impatto un po’ azzardata: dal punto di vista strutturale e morfologico, il capitale e ciò che genericamente chiamiamo “digitale” sono assolutamente analoghi. In altre parole il processo di digitalizzazione che ha caratterizzato almeno l’ultimo trentennio del nostro tempo, corrisponde ad una nuova fase del capitale e del capitalismo, il quale non si fonda più sull’accumulo del denaro, reale o virtuale che esso sia, ma sui dati o, meglio, sui cosiddetti big-data. In breve, quando facciamo una ricerca su Google, guardiamo Wikipedia, giochiamo o facciamo qualche acquisto su Amazon, muoviamo una quantità infinita di dati che già nel loro puro movimento emulano quello dei capitali e si autovalorizzano. Il capitalismo è entrato cioè nella nostra esistenza e se è vero che ormai vediamo il mondo attraverso bit ed algoritmi, è parimenti vero che vediamo nostro malgrado il mondo con occhi capitalistici, come probabilmente non è mai avvenuto in nessun’altra epoca della nostra storia.

 

1. Per una definizione relazionale del capitale

1.1 Il capitale è una “cosa”?

C’è un gran parlare oggi di capitalismo, post-capitalismo, tardo-capitalismo, surveillance capitalism, capitalismo della sorveglianza; oppure – come potremmo denominare la situazione all’interno di una catena di definizioni – c’è una giungla capitalistica, un jungle capitalism; ma soprattutto c’è uno “spettro” non troppo nuovo che s’aggira sempre più inquietante nel mondo: il capitale. Così lo definisce Marx nel Manifesto: “il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante un’attività di molti” (Marx-Engels, 1948, p. 25). Il capitale rimanda ad una collettività, è un “prodotto” e quindi l’effetto di un’azione sociale e comunitaria. Non si tratta ancora di un possesso, ma di un “agire” che sfocia in un factum, in un fatto. Riscontriamo qui un discrimine che sembra chiarire le cose, ma in fondo pone delle varianti non prive di ambiguità: sono in gioco l’essere-con di una comunità, un operare collettivo più o meno organizzato e il consolidarsi del tutto in una “cosa”, in un “prodotto” a sua volta soggetto a manipolazione, uso, controllo. Ecco il primo elemento che vorremmo sottolineare: in gran parte delle narrazioni neo-liberiste, anti-capitalistiche e conservatrici il capitale sembra perdere il suo carattere sociale-dinamico per consolidarsi in una “cosa”, in qualcosa di “oggettivo” che “è” influenzando significativamente le società umane. Il capitale, insomma, “esiste” essendo qualcosa di potenzialmente tangibile e tendenzialmente concreto che si relaziona, talvolta traumaticamente, al soggetto. “È” un’istanza positiva (anche in senso etico), quasi taumaturgica, capace di sorreggere uno stato, una nazione, una comunità; “è” un demone che alligna nelle società occidentali e che crea disuguaglianze e sopraffazioni. “È”…

La natura di “cosa” del capitale emerge peraltro anche nella recente definizione che ne dà Thomas Piketty: “il capitale è uno stock. Corrisponde alla quantità totale posseduta in un determinato momento. Lo stock proviene dalla ricchezza acquisita e accumulata nel corso di tutti gli anni precedenti” (Piketty, 2013, p. 86). Sembra in apparenza un circolo vizioso: il capitale è lo stock delle ricchezze accumulate, le quali a loro volta costituiscono degli stock ulteriori. Si tratta quindi di uno stock degli stock, di un accumulo degli accumuli, dove probabilmente questi ultimi derivano da un’attività individuale, pur in un contesto sociale, mentre il capitale assume il ruolo di un’astrazione e, quindi, di un’istanza metafisica, una “cosa non-cosa” intersoggettiva.

Emergono evidenti contraddizioni, ma anche alcune suggestioni per ridefinire il concetto astratto di capitale in senso relazionistico: queste suggestioni riguardano il carattere operativo-sociale del capitale e il suo derivare da un’attività di accumulo o, meglio, di controllo delle attività accumulatrici tipicamente umane. Non si tratta di un’idea così discosta dalla realtà: la tecnologia blockchain – quella che sta alla base del Bitcoin e delle altre criptovalute – non fa altro che identificare il capitale e la transazione, con tutti gli annessi sociali di sicurezza, condivisione, irreversibilità temporale. Il cumulo non è altro che un blocco, cioè un certo numero di transazioni crittografate, il quale rimanda ad altri blocchi e ad altri ancora, in un processo infinito ma controllato. Il valore che ne consegue è soltanto quello del mantenimento della transazione e della sua securizzazione, ovvero ciò che crea effettivamente valore consiste nel fatto che la transazione esista, sia temporalizzata ed integri – in modo astratto – un incontro con l’Altro.

Considerare invece il capitale come “cosa” costituisce ciò che chiamiamo capitalismo, cioè quel sistema di senso che ha quale fine l’immunizzazione e l’implementazione parossistica dell’attività cumulativa. Quindi, anticipando un po’ la nostra riflessione, possiamo dire che il capitalismo è quel pensiero, quel movimento di senso che considera il capitale una “cosa”. Il capitale è invece un operatore relazionale che accumula e, nello stesso tempo, istituisce delle enclaves (proprietà), opera delle esclusioni (disuguaglianze) e tende ad iterarsi in modo eccessivo. Il capitalismo viene meno a se stesso allorquando oblia la propria natura transattiva per soffermarsi sugli oggetti e sulle plus-valenze oggettualizzate che sono appena un effetto delle transazioni, mentre al contempo enfatizza i risvolti negativi di siffatte transazioni. In breve, il capitalismo si focalizza sul carattere oggettivo e plus-valente del capitale, gestendo e governando le disuguaglianze e le esclusioni che attorniano la proprietà.

1.2 La proprietà come formazione immunitaria

Non abbiamo accennato al “controllo” casualmente: una relazione fondamentale che costituisce il soggetto può essere sintetizzata dalla preposizione “con”. Noi veniamo al mondo “con gli altri”, “con un mondo”, “con degli oggetti già prodotti da altri uomini”, etc., cioè veniamo “alla” molteplicità; e il nostro modo d’essere nella molteplicità è a sua volta quello di creare incessantemente dei concatenamenti di cose, parole, numeri, esperienze. Un bambino, a pochi mesi di vita, non appena riesce ad afferrare degli oggetti, mette in atto tutto un susseguirsi di operazioni di raccolta, accumulo, divisione degli stock, appropriazione e sottrazione: sposta i suoi giochi prima in un angolo della sua stanzetta, poi li differenzia in sottogruppi per infine ricomporli in un cumulo ancora più grande. L’uomo, in sintesi, è per sua natura cumulativus e ciò non può avvenire che nell’ambito di una comunità, ossia di un essere-con-gli-altri.

Ma non solo: quest’essere cumulativo è anche caratterizzato dall’eccesso, da un raccogliere oggetti, spazi, persone in maniera superiore al bisogno. L’uomo è territoriale, per cui accumula territori; è faber per cui crea e produce manufatti in guisa incessante; è sociale per cui opera sempre in gruppi e comunità. Quella invece che chiamiamo proprietà non costituisce un elemento primo, basico e fondamentale, bensì una forma di immunizzazione degli eccessi cumulativi, inoculando strutturalmente delle differenze, delle inclusioni e delle esclusioni, delle necessarie sperequazioni. L’organizzazione del mondo in proprietà, siano esse materiali o immateriali, corrisponde ad una necessità immunologica di difesa e di controllo nel confronto delle accumulazioni; e il capitale, a sua volta, costituisce un’immunizzazione dei cumuli di proprietà, attraverso un movimento che paradossalmente corrisponde ad un esproprio, cioè una vera e propria astrazione del cumulo concreto posseduto attraverso la sua valorizzazione in denaro.

Dunque, il capitale non è uno stock; lo stock, il cumulo sono già l’effetto del capitale come operatore astraente e funzionale che fa circolare i cumuli, rendendoli commensurabili e mettendoli in relazione. Nell’epoca attuale questo scambio relazionale ha preso ad esempio la forma del rapporto credito-debito, con tutti gli effetti di assoggettamento ed asservimento sui quali torneremo. Dalle scuole dell’obbligo alle esequie tutto ormai si determina in una contabilità doppia del dare-avere.

1.3 La disuguaglianza

Sin qui il capitale ha messo in gioco almeno due versanti relazionali: il “con” e l’ “in”. Il capitale non può essere che il frutto di un’azione collettiva e, quindi, ha una valenza sociale; nella misura in cui, per ragioni immunitario-difensive, si articola in proprietà, esso istituisce l’essere a casa-mia, nonché le nozioni di prossimità e di famigliarità spaziale (il latino prope significa eloquentemente “prossimo, vicino”, ma anche il latino cum rimanda ad una certa similarità). È probabilmente difficile pensare allo spazio organizzato dal capitale, anche perché ciò contraddirebbe le tesi marxiane sulla proprietà borghese quale effetto dello sfruttamento nei confronti dei lavoratori. Eppure negli stessi concetti di capitale famigliare, capitale societario, capitale nazionale, etc. la proprietà in quanto rapporto immunitario talora esuberante con il “luogo”, svolge un ruolo preminente e costituisce forse il paradigma di ogni capitale. Le problematiche relative all’immigrazione e alle paure che essa evoca sono probabilmente motivate da questa strana affiliazione cosicché quando parliamo di “terra”, di “casa”, di “frutto del lavoro”, parliamo sempre di qualcosa di “proprio”, del “mio” inalienabile per diritto, di una “proprietà” che ha anche un preciso connotato topologico.

C’è tuttavia un’ulteriore relazione che riguarda l’operatore-capitale e che abbiamo tentato di sintetizzare con la preposizione greca διά che indica un attraversamento, un “tra”, ma anche una separazione, una disgiunzione: nell’attività di accumulo e di controllo degli accumuli è implicito dunque un elemento di differenza e disuguaglianza. La differenziazione fa sì che ci sia un ordo rerum nel caos cumulativo e che questo ordo rerum si articoli nella quantificazione numerica e, successivamente, nella monetizzazione, di qualsiasi forma essa sia. Pare evidente, dunque, che in presenza di cumuli indifferenziati, la possibilità di una valutazione quantitativa e qualitativa renda più addomesticabili questi eccessi, rendendoli commensurabili, scambiabili, in breve: controllabili. Probabilmente, prima ancora del denaro, il cumulo ha imposto la necessità immunologica della matematizzazione, aprendo così la strada a quella che sarà la “digitalizzazione” (cfr. § 3) e prima ancora alla valorizzazione tramite il denaro.

Ci stiamo muovendo qui ad un livello quasi fenomenologico – e quindi non politico-economico, né tanto meno sociologico – per tentare di rintracciare per così dire quegli a priori che hanno innervato il capitalismo dagli albori sino ad oggi. In questo senso la differenza, la sperequazione sono inscritte nella relazione di accumulo e nelle strategie immunitarie che l’uomo, storicamente e forse inconsciamente, ha attivato per difendersi dagli eccessi degli oggetti e degli spazi. Il nomos, cioè la legge, come elemento connaturato al capitale (eco-nomia) palesa la medesima ambiguità secondo Karl Schmitt: questa parola indica infatti nello stesso tempo un’appropriazione primaria e un accumulo territoriale; una distribuzione e quindi una differenziazione che consente lo scambio e la comunicazione all’interno della comunità; infine una produzione (dal latino: pascere), cioè la manifattura di cose ed oggetti, con la loro accumulazione. Nomos e capitale, dunque, tendono costitutivamente ad integrarsi e prima che riguardare il male e il bene, il pio e l’empio, il giusto e l’ingiusto, implicano una certa strategia immunitaria di gestione degli stock eccedenti, strategia rispetto alla quale lo sfruttamento dei molti da parte di pochi, le disuguaglianze distributive, i vari asservimenti del soggetto non sono che delle parziali disfunzioni nell’ambito di un progetto immunologico molto più ampio. “La parola greca che misura la prima misurazione, da cui derivano tutti gli altri criteri di misura: la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria, è nomos” (Schmitt, 1974, p. 54).

1.4 Il debito come differimento

Sin dagli albori, dunque, il capitale è relazionale, è un modo – mediato – di essere in rapporto con l’Altro. Il dono costituisce probabilmente uno degli indizi di questa matrice relazionale. Nel termine stesso di communitas, comunità, risuona il termine munus il quale implica nel medesimo tempo il dono appunto, nonché una certa obbligazione normativa che implica la restituzione del dono stesso. La radice indoeuropea del latino habere, avere, è gha-b, portare dalla quale derivano con una certa sorpresa il tedesco geben, dare e l’inglese gift, regalo; ma un’altra radice sah- allude a un tenere donde il greco ècho=saho. Il possesso insomma è legato a un ricevimento-trattenimento e a un dono “portato” dall’Altro, il quale però deve essere contraccambiato, cosicché colui che è stato “onorato” dal dono è tenuto a restituirlo, in un meccanismo primitivo di credito-debito e in un movimento socializzante che sembra anticipare la circolazione delle merci di Marx.

Assistiamo all’introduzione di ulteriori afferenze semantiche: il credito, quindi un rapporto fiduciario, di trust, quasi di fede per cui c’è un affidamento; il debito, quindi un dovere che implica anche dipendenza, obbligazione ma anche connessione, collegamento; una comunità che si radica su un habitus, un’abitudine che sfocia in un’etica, ossia in una norma di comportamento. In altre parole il modo con cui ci relazioniamo socialmente agli altri è uno scambio e una transazione di cumuli che realizzano un determinato tempo e una non coincidenza. Il debito non viene mai saldato immediatamente, ma grazie alla fiducia reciproca si crea uno spazio sociale di differimento, un prendere-spazio e un prendere-tempo che libera il soggetto dall’assillo comunitario. Nello stesso processo, c’è una fissazione del tempo, un timestamp come s’usa dire nella terminologia dei database, che si pone alla base per la formazione di ulteriori cumuli (l’aggio, le commissioni per i blocchi, le commissioni per le transazioni, etc.).

All’interno di una molteplicità noi utilizziamo i surplus cumulativi per attivare delle relazioni intersoggettive il cui fine è quello di differire spazio-temporalmente il saldo, creando uno spazio fiduciario che è simultaneamente una presa di distanza e un rimanere legati all’interno del gruppo. Il termine “fede”, dal latino fides, rimanda in effetti ad una funicella, ad un “legare” da cui anche l’inglese bind, nastro o vincolo o il tedesco binden, legare o rilegare. Il termine inglese trust indica una fiducia che è anche legame più o meno occulto, donde il termine tecnico anti-trust, il cui significato è ormai noto. In breve si apre uno spazio “vincolato” o immunizzato di libertà individuale all’interno di una comunità fondata sul munus e sulla fides.

Possiamo così osservare che quando parliamo di capitale, convochiamo tutta una serie di meccanismi immunitari che riguardano l’uomo in quanto essere sociale che cerca di proteggersi da se stesso, dalla propria esuberanza cumulativa, dalla propria aggressività, creando degli spazi franchi e “liberi” (parzialmente scevri da vincoli) i quali, tuttavia, mantengono allo stesso tempo la coesione sociale attraverso le transazioni. Nella medesima misura in cui si instaurano disuguaglianze e differimenti, s’innescano dei meccanismi compensativi di aggregazione e comunione, in una continua dialettica tra il “con” della molteplicità cumulativa, dell’ “in” della proprietà e del διά del debito. Per tali ragioni il capitale è sempre asimmetrico e crea continuamente degli spazi di crisi nella misura in cui si instaurano disuguaglianze, dipendenze e differimenti: “il soggetto indebitato effettua contemporaneamente il lavoro salariato e il lavoro su di sé necessario affinché egli sia in grado di promettere, di ripagare i debiti, di assumere su di sé la colpa connessa all’indebitamento. (…) È qui che l’asimmetria tra creditore e debitore diventa palpabile: l’ ‘imprenditore di sé’ è più attivo del soggetto della precedente, e più disciplinare, modalità di governo; tuttavia, privato com’è della capacità di amministrare il proprio tempo o di giudicare i propri comportamenti, la sua autonomia è severamente limitata” (Žižek, 2014, p. 53).

1.5 Il ritorno

Il capitale ri-torna. Lo spettro è revenant, redivivo, osserva Jacques Derrida: la sua caratteristica è quella di avere un passo in più, di eccedere nell’iterazione, di ripresentarsi quando meno ce l’aspetteremmo. Se costituisce una forma di immunizzazione dei cumuli, l’immunizzazione medesima costituisce un nuovo cumulo o molteplicità, e così via all’infinito. Il primo passaggio è il controllo del cumulo attraverso un processo di astrazione, che ne fa un “ente” e perciò qualcosa che può essere concettualizzato e più facilmente manipolato. Ma a loro volta i capitali, iterati più e più volte, assumono una consistenza reale e si trasformano in un nuovo cumulo. Nell’iterazione, il capitale, da semplice finzione immunitaria, assume una consistenza ontologica ed inizia ad avere degli effetti reali. Nell’economia digitale possiamo pensare ad una saturazione dei meta-server e alla necessità di sovrastrutturare gli apparati tecnologici con un incremento non indifferente dei costi energetici: l’eccesso di dati-capitale abbisogna di una ristrutturazione delle strategie di cumulo, con nuove tecniche di criptazione, compressione, securizzazione, etc., tutto affinché la transazione, il rapporto tout court, possa divenire quasi-reale con la marca dell’irreversibilità e dell’immutabilità temporale. Gli antichi riti religiosi come la comunione, il matrimonio, etc., miravano a consolidare una transazione tra soggetti che sia garantita, fiduciaria nel tempo e irreversibile; e in effetti anche l’economia finanziaria classica ci fornisce un chiaro esempio di questi passaggi: la singola “azione” costituisce una forma di immunizzazione attraverso la proprietà di una serie di accumulazioni di capitale di una determinata società quotata in Borsa. Essa è un’entità simbolica che storicamente si riassumeva in un foglio di carta ed ora si è smaterializzata in una serie di bit gestiti in cloud computing e in database organizzati in blockchain, ma la sua ripetizione, lo scambio e l’ipervalorizzazione ne hanno fatto qualcosa di sostanziale, che possiede una consistenza. L’azione, da semplice processo simbolico di sostituzione, è divenuta qualcosa di reale che può essere accumulata e a sua volta ri-simbolizzata o “sur-codificata” in vari modi (i cosiddetti derivati): la crisi del 2008, oltre ad una crisi globale del debito e del sistema bancario, ha evidenziato come un semplice gioco di immunizzazione dei cumuli può comportare effetti decisivi nella realtà, addirittura a livello planetario.

Ogni movimento di questo tipo – ma potremmo parlare anche del denaro e dei suoi processi di smaterializzazione e di ulteriore cumulo – si profila come un ritorno. E ogni ritorno possiede una valenza rivoluzionaria, istituisce un nuovo mondo e nuovi scenari. Il capitalismo come sistema di senso che immunizza il capitale costituisce pertanto un’istanza prettamente rivoluzionaria ed ogni rivoluzione non può che essere riassorbita nel capitalismo. Ciò che si rivoluziona sono le modalità di transazione e di rapporto, ovvero il con-essere dell’uomo nella sua essenza.

1.6 Il plus

C’è infine un ultimo asse relazionale: oltre al “con” della molteplicità, all’ “in” della territorializzazione e della proprietà, al diá della differenza, della disuguaglianza e del differimento, al “ri” del ritorno, della deterritorializzazione e dell’azione rivoluzionaria sulla realtà, dobbiamo maneggiare anche una relazione che riguarda tutte le precedenti e che con Alan Badiou possiamo definire un “operatore” dell’eccesso. Grazie ad esso invero ogni singolo movimento di difesa, tende ad eccedere e debordare, creando così la necessità di nuove azioni immunitarie e di continui ri-torni. Se il “con” della molteplicità e del cumulo non fosse così esuberante, non avremmo ad esempio quel sur-plus della produzione e della demografia che si pone alla base di ogni capitalismo, cioè di ogni gestione dei cumuli. La disuguaglianza non assumerebbe quel connotato così negativo, ma sarebbe semplicemente un fattore di ordinamento sociale che rispetta le singole differenze e, quindi, gli individui nella propria singolarità. L’ “in” si trasformerebbe in un semplice “abitare” la terra e non nel sistema dei possessi e delle sperequazioni fondiarie. Il “ri” manterrebbe la sua semplice funzione di rassicurazione (il “ritorno” della mamma evocata dal gioco del rocchetto di Freud, ad esempio) e non avrebbe assunto le fogge di una rivoluzione continua che tutto cambia e tutto fagocita.

Il problema, dunque, non si situa soltanto a livello delle singole relazioni e delle forme difensive messe in atto, ma della generica tendenza all’eccesso che conduce al plus-valore e, quindi, alla creazione infinita di ulteriori cumuli. Ogni transazione costa energia e quindi deve monetizzarsi in un plus-valore che a sua volta andrà nuovamente a cumularsi. In questo senso, pensare ad un esaurimento del capitalismo non rappresenta un’utopia, ma un’errata fantasia: se ci potrà essere un cambiamento dell’orizzonte di senso nel quale nostro malgrado viviamo, questo dovrà passare attraverso la modificazione delle pratiche di soggettivazione che comunque alla fin fine sono alla base dei processi cumulativi. Detto altrimenti è soltanto attraverso una specifica pratica soggettiva che si potrà aprire uno spazio di emancipazione e questa pratica dovrà avere a che fare con un’immunizzazione dell’eccesso che non sia quella semplicistica del cumulo capitalistico. Il plus è probabilmente legato a fattori antropologici, nonché genetici, manifestandosi sin dall’infanzia con una certa predilezione-paura nei confronti dell’altezza: “ogni bambino sperimenta, nel rapporto con la madre, un alto (Oben) presimbolico e sovraspaziale, verso il quale solleva lo sguardo ben prima di imparare a camminare. anche il padre e i nonni sono ‘là in alto’ (da oben), ben prima appunto che il bambino inizi, nei suoi giochi, a costruire torri di mattoncini sovrapposti e a mettere un ultimo mattoncino, il più alto, sopra a tutti gli altri. (…) Dal gesto infantile di ‘sollevare lo sguardo’ verso i genitori e gli adulti in genere, tra i quali vanno annoverati, in particolare, gli eroi culturali e chi trasmette il sapere, si sviluppa un sistema di coordinate psicosemantiche caratterizzato da una marcata dimensione verticale. Si potrebbe quasi dire che il mondo della psiche infantile sia monarchico” (Sloterdijk, 2009, p. 140). Secondo il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, insomma, una certa tendenza alla verticalità è costitutiva dell’essere-uomo, sin dall’infanzia, così come una tendenza all’arricchimento inesauribile e di tipo compensatorio: “il materiale di partenza, per ogni serie di metamorfosi del lusso nelle culture locali e nelle sue elaborazioni esplicite nella civilizzazione contemporanea, va ricercato nella seconda parte della gestazione umana, nella quale il lattante, nella misura in cui si corrisponde in modo adeguato ai suoi bisogni preformati sul piano evolutivo almeno in una certa misura, soggiorna in una situazione di nicchia simile a quella uterina, come polo junior del campo madre-figlio. Egli si trova lì non semplicemente come un gioiello nel proprio astuccio. (…) Perciò, la ricchezza viene esperita come un trascendentale materiale e come qualcosa che semplicemente c’è; la si può collocare sullo sfondo come qualcosa che c’è e rispetto al quale non ci sono smentite. Essa agisce, in quanto tale, da condizione di possibilità del mondo” (Sloterdijk, 2004, pp. 720-721). L’uomo viene al mondo nella ricchezza e nell’abbondanza quali dati primari della sua esistenza futura. Se quindi vogliamo osare una definizione alternativa del capitale dobbiamo dire, seguendo queste suggestioni, che esso deriva dalla tendenza innata dell’uomo ad eccedere verso l’ “alto” in tutte le sue manifestazioni esistenziali e a recuperare una ricchezza da sempre perduta: tutto ciò che chiamiamo con le etichette di metafisica, trascendenza, progresso, evoluzione, crescita, etc., non sarebbero che un derivato capitalistico proveniente da un’univoca propensione antropologica al “più”, al plus e alla riconquista di una ricchezza infantile probabilmente legata ad un immaginario mai realmente vissuto.

 

2. Dalla parte del soggetto

2.1 Riassunto

Abbiamo sin qui trattato il capitale molto formalmente. Si tratta di una serie di relazioni o transazioni che riguardano oggettivamente la specie umana, e forse non solo. Esso controlla e organizza delle relazioni essenziali che riguardano il soggetto: il “con” delle molteplicità che caratterizzano la vita umana nella sua tendenza alla socialità e all’accumulo degli oggetti e dei ricordi, l’ “in” che riguarda semplicemente il “dove siamo?” al di là di ogni geo-localizzazione o cartografia, il diá che consente il nostro riconoscerci come individui e consente la categorizzazione della realtà in concetti, generi, cose, etc., il “ri” che rende possibile la memoria ma che soprattutto rassicura dando stabilità al mondo in cui viviamo. Ebbene, che lo accettiamo o meno, il capitale presenta la medesima struttura relazionale di qualsiasi rapporto interpersonale e, quindi, un po’ paradossalmente, caratterizza il nostro essere nel mondo. Dove c’è transazione o relazione, ivi c’è il capitale. Non si tratta di un fattore economico, o non soltanto, né tanto meno dell’indice di un movimento di senso eccessivo che genericamente chiamiamo capitalismo: Félix Guattari accenna ad una sorta operatore semiotico a-significante, cioè di un’istanza che presenta una struttura relazionale simile ad altri sistemi come ad esempio i linguaggi matematici, i diagrammi, gli algoritmi, la musica. Non ci sono significati da veicolare, né narrazioni o racconti, bensì strutture relazionali che sono in grado di agire direttamente nella realtà. L’uomo è nella sua natura “capitaliforme”; il problema insiste nell’aberrazione capitalistica che, invece, istituisce sensi, significati, gerarchie, differenze ed asservimenti. Sul problema del capitalismo, soprattutto nella sua nuova veste “sorvegliante” torneremo in seguito: per ora ci limitiamo ad osservare che esso deriva da un “eccesso”, un “plus” all’interno di una determinata struttura relazionale che privilegia l’asse originario madre-figlio e rilegge metaforicamente le ragioni fisiologiche dell’accrescimento e dello sviluppo.

2.2 Il “luogo” del soggetto

Sino a questo punto, pare che sia stata rimossa la figura del soggetto. Al contrario, proprio quando si parla di capitalismo, si tende a sottolineare la condizione dell’individuo, come se essa potesse essere sufficiente a definire il capitalismo medesimo: sistema di sperequazione, disuguaglianza, sfruttamento, asservimento, disumanizzazione, infelicità, etc.; sistema di crescita, potenziamento, valorizzazione individuale, benessere, felicità, etc.. Abbiamo invece preferito isolare quelle che sono le condizioni formali della formazione del capitale, al di là di ogni pregiudizio economicistico e ideologico, poiché soltanto in tal modo, a nostro avviso, è possibile discernere il vero “luogo” del soggetto. E vorremmo, almeno per il momento, prescindere dalle storiche disquisizioni filosofiche sulla figura medesima del soggetto, per evidenziarne soprattutto il carattere di funzione. Come il capitale, il soggetto non è una “cosa” ma un determinato decorso nell’ambito del sistema delle relazioni che abbiamo appena descritto. In breve il soggetto, analogamente al capitale, ha a che fare con cumuli, localizzazioni, differenze, differimenti e iterazioni: egli è allo stesso tempo l’agente, l’oggetto (o vittima) dell’azione e la risposta immunitaria all’assoggettamento che ne deriva. Cerchiamo di spiegarci un po’: l’uomo è soggetto dei cumuli che produce, ma è nello stesso tempo assoggettato da essi. Prendiamo sempre l’esempio della communitas, la comunità: essa protegge l’individuo e questi talora ha la pretesa di averne un certo controllo, attraverso la costruzione di identità sociali ben precise o per una tendenza al comando e alla leadership innata che lo conduce ad occupare posizioni gerarchiche di rilievo all’interno del gruppo. Nello stesso tempo le obbligazioni che la società impone per il suo mantenimento, ci portano da un soggetto agente e padrone di sé, ad un soggetto as-soggettato. In altre parole s’instaura una dialettica tra la tendenza ad essere autonomo, unico, etc. (pensiamo al narcisismo contemporaneo), e un contromovimento quasi automatico per cui s’innesca anche un rapporto di asservimento.

Iniziamo forse a comprendere il “luogo” del soggetto rispetto al capitale: in quanto cumulo esso rassicura l’individuo nella sua grandezza, nel suo iterarsi e nella capacità che il capitale stesso ha di differenziare gli individui all’interno della comunità (la classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo); nello stesso tempo, tuttavia, il capitale diviene obbligante, cioè diviene quel monstrum-feticcio che assoggetta e rende schiavo il soggetto, inducendolo a cumulare e cumulare sempre di più. L’uomo controlla gli oggetti che lo circondano, raccogliendoli, differenziandoli, categorizzandoli; ma poi il controllore diviene all’improvviso controllato e gli oggetti plus-valorizzati iniziano a soverchiarlo, inducendo nuove obbligazioni e nuove necessità. “Il neoliberismo ha un modo del tutto singolare di piegare il rapporto a sé (la produzione del soggetto, dell’individuo), spingendolo al parossismo. Rappresentazione esemplare ne è il capitale umano, l’imprenditore di sé, punto di arrivo di un assoggettamento che facendo della persona un ‘capitale’, ne impone una valutazione e una misura a partire dalla logica del guadagno e delle perdite (…)” (Lazzarato, 2013, p. 150). Il soggetto del capitale viene assoggettato dal capitale stesso, cioè da quel sistema relazionale che egli medesimo ha escogitato per identificarsi, differenziarsi, rassicurarsi. Si tratta di un’alienazione che non è quella marxiana del lavoratore salariato che non partecipa ai processi di produzione, ma si tratta dell’alienazione di un uomo che si rapporta agli altri nell’ambito di un orizzonte di senso digitalizzato in cui valgono le criptografie, i blocchi, gli hash e le firme digitali. Se l’operaio di Marx non sapeva quello che faceva all’interno di un processo meccanico e programmato di produzione, ora la medesima cosa avviene all’interno del mondo digitalizzato o della cosiddetta infosfera, ove anche la più banale interazione attraverso lo smartphone nasconde una sequenza quasi indeterminata di algoritmi e di formule matematiche. In breve, quel medesimo movimento macchinico che ha sottratto al lavoratore la propria identità facendone un ingranaggio all’interno di un meccanismo soverchiante, ora lo vediamo espresso quasi ovunque, dalla domotica alle tecnologie cosiddette embodied (smart-watch, google-glass, pace-maker, etc.) per finire con la semplice comunicazione chat, sms, whatsapp, voip, etc..

2.3 Le difese del soggetto

Potrà dunque apparire bizzarro se diciamo che una delle controreazioni più efficaci da parte del soggetto la possiamo ritrovare all’interno dei social, ovvero proprio laddove ci aspetteremmo il fulcro della macchinazione e dell’alienazione digitale. Ma a quale tipo di immunizzazione ci troviamo di fronte? Come è possibile pensare ad un’emancipazione e disalienazione proprio all’interno della sfera alienata della rete? Se pensiamo ad esempio a una struttura come Facebook, possiamo notare come essa costituisca ambiguamente uno spazio comunitario e un meccanismo di differimento dell’incontro, proprio come avviene con il denaro. E in questo spazio comunitario colui che viene rappresentato non è l’io in carne ed ossa – se questa espressione può avere senso – ma una sorta di alter-ego. Quest’ultimo rappresenta un insieme di narrazioni fittizie ed immaginarie con le quali ci rappresentiamo “ciò che vorremmo essere per gli altri”. Detto in altri termini, per quanto ridondante appaia il termine face, su FB non siamo noi a partecipare alle varie interazioni digitali, ma è piuttosto quello che Freud chiamava “io ideale”, effetto complesso di una serie di proiezioni, identificazioni, introiezioni.

Per taluni aspetti allora il soggetto tenta di sfuggire la pubblicità globale offerta da FB, e ciò occultando letteralmente la propria identità, falsificando ad esempio i propri dati anagrafici, le proprie immagini sul profilo, alcuni post tendenti al depistaggio piuttosto che all’apertura di una discussione vera e propria. Di pari passo procede l’esibizionismo che implica sempre un “far vedere ciò che non si è”: il soggetto dissimula il proprio essere ma nello stesso tempo esibisce continuamente se stesso rimpellando una narrazione soggettiva che viene continuamente rafforzata dai selfie-like degli amici.

La tecnologia di FB consente così di realizzare alcuni nostri ideali: 1) isola una cerchia di amici con i quali possiamo essere in sintonia e non in conflitto; 2) costruisce un alter-ego pubblico che finalmente può essere corroborato a dismisura e può “scoprirsi” per così dire, senza alcun rischio apparente; 3) rassicura dalle nostre paure poiché tiene a distanza la realtà, filtrandola anche attraverso fake news o realtà augmented. Tutto ciò crea uno spazio di apparente libertà, con conseguenze talora inquietanti: se ad esempio ho un temperamento aggressivo e non posso essere violento nella vita extra-digitale, incorrendo in sanzioni, punizioni e stigmatizzazioni sociali, ecco che posso esserlo invece nello spazio insulare ma indeterminato di FB dove la violenza diviene virtuale, almeno in apparenza. Salvo rari casi, essa non avviene più in uno scontro faccia-a-faccia o corpo-a-corpo tra i contendenti, ma è stata invece verbalizzata, organizzata in gruppi con tecniche d’aggiramento e d’attacco simili a quelle di un conflitto tradizionale. Assistiamo in altri termini a una traslazione e un’altra tipologia di violenza.

In un’epoca in cui l’urbanizzazione eccessiva ha disgregato le comunità tradizionali, FB offre nuovi spazi di socializzazione e, soprattutto, di disalienazione, garantendo un differimento dell’incontro con l’Altro, nonché un narcisismo reattivo che può riscontare il consenso degli amici e che può, quindi, auto-rinforzarsi. In questa dialettica dell’alienazione, emerge nella sua chiarezza proprio quel carattere “ritornante” che avevamo individuato nel capitale e nel capitalismo: ad ogni disalienazione consegue un’alienazione ancora più infida, oscura e sottentrante, cosicché nello stesso momento in cui ci sentiamo liberi e scevri da vincoli sociali, ci ritroviamo invece imbrigliati in un fascio di meccanismi e algoritmi i quali, tutt’altro che ininfluenti, finiscono per condizionarci completamente.

Il gioco tuttavia non è finito: nel suo allargarsi ed iterarsi, lo spazio social, pur essendo per natura doppiamente finzionale (deriva da una digitalizzazione dei dati e, successivamente, da continue composizioni e ricomposizioni) tende a divenire-reale, sostituendo del tutto quella che è la nostra realtà sociale. L’agorá non ha più una collocazione fisico-urbanistica ben precisa, ma è diffusa in cloud, cioè disseminata in molteplici meta-server che conservano i dati, selezionano e garantiscono le interazioni. Si compie così l’immunizzazione della communitas la quale, dopo un’iniziale virtualizzazione, ha assunto la concretezza della realtà, con il vantaggio di aver isolato una cerchia di amici escludendo gli altri e di aver comunque differito un impatto diretto con l’alterità, sfruttando tutte le mediazioni che FB ci fornisce. Eppure questa communitas divenuta-reale mostra il proprio contraltare, inducendo paure inesistenti, creando nuova violenza simbolico-immaginaria (il cyber-bullismo), escludendo molto di più di quanto non facesse una società tradizionale. Ciò che si voleva sfuggire, insomma, ritorna ancora con maggiore perentorietà e spietatezza, in un gioco circolare in cui ogni immunizzazione presenta la propria auto-immunità ed aggredisce l’organismo che l’aveva prodotta. La comunità-digitale non costituisce più un’alternativa alla comunità reale, ma è divenuta la comunità.

2.4 Il soggetto parcellizzato

Assistiamo a un’ulteriore alienazione o, meglio, ad una serie di nuove alienazioni: la finzione si trasforma in una nuova realtà della quale non riusciamo a decodificare né le eventuali finalità, né il funzionamento più intimo. Ogni passaggio è mediato da infinite operazioni matematiche, da indicizzazioni, trasferimenti di bit, autorizzazioni multiple e perciò da un intenso lavoro di pre-selezione, pre-inclusione e pre-esclusione: “il computer è una macchina che presiede, struttura e organizza oltre che i flussi di produzione, quelli di comunicazione, di immagine, di scrittura, di consumo, attraversando e riconfigurando le modalità di percezione, di attenzione, di sensazione, di visione e di pensiero” (Lazzarato, 2013, p. 153). Quando clicco semplicemente sul mio iPad metto in atto tutta una serie di operazioni complesse sia a livello hardware che software, delle quali ignoro quasi tutto così come ignoro il funzionamento nel dettaglio di quell’insieme biochimico molecolare che è il mio corpo. Ad un’alienazione per così dire naturale, si sommano un’alienazione causata dal fatto che siamo esseri parlanti e un’alienazione ulteriore immanente negli apparati tecnici dei quali ci circondiamo sempre più frequentemente. Se nell’Ottocento lo spazio paradigmatico dell’alienazione era rappresentato dalla fabbrica e dai suoi processi di sfruttamento lavorativo, nella contemporaneità questo spazio paradigmatico sembra divenuto lo stesso spazio sociale qual è quello costruito dai social, con complessità ed intrecci del tutto nuovi. Percezione, attenzione, sensazione, visione e pensiero sono veicolati macchinicamente per cui dovremmo costruire tutta una nuova fenomenologia che tenga conto della digitalizzazione del mondo e della parcellizzazione delle funzioni del soggetto. Infatti, se noi viviamo in uno spazio che non è più virtuale (come lo era inizialmente), ma è “divenuto-reale”, dobbiamo pensare anche ad effetti reali sul soggetto. E la nuova alienazione passa appunto per la parcellizzazione del soggetto, cioè per la decostruzione di una sua presunta unità e singolarità in un coagulo di visioni, sensazioni, attenzioni, pensieri, desideri, etc.. Al capitalismo non interessa chi effettivamente io sono, ma che cosa desidero, che cosa vedo, che cosa provo, etc.. Nell’ambito di una comunità digitale i ruoli dell’individuo divengono così infiniti e il soggetto può essere un consumatore di determinati prodotti, un fan di qualche musicista, un tifoso di qualche sport, un simpatizzante politico, un professionista che si riconosce nel proprio lavoro, un amante degli sport estremi, un cinofilo. etc..

Ne aveva già parlato il sociologo canadese Erving Goffman introducendo il suggestivo termine di footing dell’io: nell’interazione sociale il ruolo del soggetto viene via via definito da determinate cornici sociali che condizionano ciò che viene pensato, detto, interpretato e sottinteso. Nel movimento di reificazione dei social, invece, questi ruoli rimangono per lo più inconsapevoli e vengono attraversati da flussi semiotici che creano banche dati e che condizionano gusti, preferenze e mode. In altri termini, quello che Alessandro Baricco definisce The Game fa sì che la nostra condizione di essere-alienati sia completamente allargata alla nostra esistenza, sfumando definitivamente ogni limite tra pubblico e privato. L’attuale attenzione alla privacy costituisce l’indizio più probante di questo decorso: proprio allorquando la nostra esistenza sta per essere totalmente digitalizzata, controllata e parcellizzata, s’instaura il bisogno di “coprire” questa realtà attraverso la formulazione di nuove sovrastrutture giuridiche ed etiche (il General Data Protection Regulation o, più semplicemente, GDPR) che tendono a distrarre e a fuorviare dalla questione immergendoci in mondi ancora più fittizi e meno realistici.

2.5 Il narcisismo

“C’era una fonte senza un filo di fango, dalle acque argentate e trasparenti, a cui mai si erano accostati pastori o caprette portate al pascolo sui monti o altro bestiame, che mai era stata agitata da un uccello o da un animale selvatico o da un ramo caduto da un albero. (…). Qui il fanciullo, spossato dalle fatiche della caccia e dalla calura, si getta bocconi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte, ma mentre cerca di sedare la sete, un’altra sete gli cresce: mentre beve, invaghitosi della forma che vede riflessa, spera in una amore che non ha corpo, crede che sia un corpo quella che e’ un’ombra. Attonito fissa se stesso e senza riuscire a staccare lo sguardo rimane immobile come una statua scolpita in marmo di Paro. (…) Desidera, senza saperlo, se stesso; elogia, ma e’ lui l’elogiato, e mentre brama, si brama, e insieme accende e arde”. Si tratta del mito di Narciso così come viene raccontato da Ovidio. Invero non possiamo comprendere che cosa sia effettivamente il capitalismo sorvegliante senza affrontare quella che costituisce una delle connotazioni più caratteristiche della contemporaneità. Nel meccanismo della soggettivazione che abbiamo cercato di descrivere, l’individuo si trova ad essere doppiamente alienato e parcellizzato, proprio laddove quelle che chiamiamo “identità”, “io”, “sé” rappresentano delle costruzioni immunologiche finalizzate all’evitamento delle pressioni della comunità e un reale incontro con l’Altro. C’è una continua oscillazione tra la ricerca di una singolarità ed unicità esclusive e l’assoggettamento ad un mondo tecno-pubblico fatto da grandi narrazioni, immagini, impellenze burocratiche, software, cookies, blockchain e così via. Allo stesso modo per cui non riusciremo mai rispondere esaurientemente alla domanda “dove sono?”, così non riusciremo mai a rispondere all’interrogazione altrettanto abissale “chi sono?” all’interno di una sfera in cui l’eccesso dei dati e la loro manipolabilità rendono aleatoria ogni esperienza di fissazione, di consolidamento e di tipicizzazione di un’identità personale. È questa un’osservazione puramente descrittiva, poiché anche la fissazione, di qualsiasi carattere essa sia, costituisce un incipit patologico; tuttavia, dobbiamo tenere sempre innanzi l’ipotesi che gran parte dei comportamenti sociali che oggi possiamo osservare rappresentano alla fin fine una reazione immunologica a certi eccessi della società medesima.

Proprio i social tentano di accennare una risposta a questa dispersione e all’impossibilità dell’interrogazione “chi sono?”, ma l’alienazione tecnologica e l’esuberanza delle informazioni rendono questo tentativo vano. Da un lato FB ad esempio illude su un certo controllo della rete, dato che sono io a scegliere gli amici ed eventualmente a bannarli, cioè espungerli dalla schiera dei miei affiliati. Ma dall’altro l’inflazione immaginaria, le partecipazioni a innumerevoli piattaforme, lo stesso flusso dei dati inducono un processo narcisistico in cui si opta per la riflessione su di sé e per evitare quanto più possibile un incontro con l’Altro.

I social sono un meccanismo di securizzazione e di iterazione delle medesime informazioni che riescono così ad auto-rinforzarsi e ad auto-corroborarsi. Proprio all’opposto del proprio nome, essi sono assolutamente narcisistici, cioè vivono di un’auto-referenzialità allargata che tende a rinforzare i rapporti con i simili e ad escludere gli elementi estranei. Invece di una società ed una comunità, ci troviamo innanzi ad un egotismo generalizzato e parossistico, nonché ad una serie di istanze escludenti e necessariamente sperequanti. La stessa cosa avviene paradossalmente nella tecnologia digitale: “definisco ‘Server Sirena’ un computer d’élite, oppure un gruppo coordinato di computer connessi in rete, che ha tra le sue caratteristiche il narcisismo, un’intensa avversione al rischio e un’estrema asimmetria informativa” (Lanier, 2013, p. 65). Gran parte dei server della rete da Google a Bing sono di questo tipo, cioè si basano sul narcisismo, sull’asimmetria e sulla chiusura anziché sull’uguaglianza e sulle reciprocità come viene pubblicamente proclamato. Presentatasi con i vestimenti della libertà trasversale e incondizionata, la rete sta invece mostrando il suo vero volto, ovvero uno strumento di moltiplicazione incontrollata, parassitaria e indifferenziata di nuclei egotistici che escludono tutto ciò che sta fuori un determinato orizzonte.

Non devono sfuggire a questo punto anche le similarità che possiamo riscontrare rispetto al capitale interpretato nel suo funzionamento formale: anch’esso, come l’infosfera, è estremamente narcisistico e, in un senso allargato del termine, auto-riflessivo. Ciascuno, all’interno dell’orizzonte capitalistico, costituisce un’unicità assoluta (haecceitas, “l’essere proprio questo” lo definiva Duns Scoto) molto bene rappresentata dall’american dream e dalla recente idea che ciascuno debba essere innanzitutto imprenditore di sé. Ma nello stesso tempo il capitale astratto assume una dimensione ontologica e si presenta come qualcosa di onniglobante e di altrettanto narcisistico ed escludente.

Se dunque la nostra epoca pare caratterizzata da un narcisismo dell’individuo capillarizzato e patologico, ciò deriva da un’espressione reattiva rispetto allo stile psicotico del mondo digitalizzato, allorché grazie alle tecnologie informatiche tutte le nostre finzioni e le nostre fedi possono acquisire un’inusitata concretezza e per di più funzionare e avere effetti nel reale. Un narcisismo crea di fatto ulteriori narcisismi.

2.6 Il capitale, il soggetto e lo specchio per le allodole

Ove c’è transazione, ivi c’è il capitale…ma anche un soggetto (assoggettato) e uno specchio per le allodole. L’accumulazione costituisce la nostra sfera esistenziale poiché ci protegge e allo stesso tempo ci offre il materiale per costruire delle entità più stabili in una realtà diveniente. Forse oggi la cosa più difficile da pensare è un universo fisico non più composto da cose, elementi, atomi, ma da pure e semplici interazioni irripetibili ed irreversibili. La rete neuronale che caratterizza il nostro cervello non è affatto stabile, ma potrebbe essere descritta come un formicolio incessante di relazioni bioelettriche tra i singoli neuroni che funzionano soltanto se fanno a meno della propria unicità; similmente, la tecnologia blockchain tenta di simulare un reticolo di questo tipo, senza centro o centralized Ledger, fatto da eventi irripetibili con continui giochi di feedback o retroazione (“ri”). Se ci pensiamo, dunque, stiamo viaggiando quasi lungo due binari nemmeno tanto paralleli, semmai radicalmente eterogenei e divergenti: da un lato l’esigenza cognitivo-affettiva e rassicurante di vivere in un mondo fatto da regolarità e stabilità; dall’altro lato un flusso di dati-evento che si accumulano ed esistono soltanto in quanto pure transazioni, per le quali l’oggetto è del tutto ininfluente. Eppure anche questo pseudo-parallelismo pare costituire una finzione, un artefatto posticcio che può essere ingannevole. Alla fine del gioco teorico troviamo una monetizzazione che crea ricchezze eccessive ed un impoverimento diffuso; dietro ai social, al blockchain, al cloud computing troviamo dei meta-server (o “server Sirena”) alimentati da energia elettrica basata sull’idrocarburo; a fronte di una libertà conclamata, troviamo meccanismi di esclusione, di asservimento e di disuguaglianza. Si tratta insomma di uno specchio per le allodole in cui l’uomo viene catturato da un gioco di specchi e di riflessioni che lui stesso ha creato; la tecnica e la macchina stanno prendendo il sopravvento e l’individuo diviene inadeguato rispetto ai suoi stessi prodotti: “credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, ‘vergogna prometeica‘, e intendo con ciò ‘vergogna che si prova di fronte all’«umiliante» altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi‘” (Anders, 1956, p. 31); ma la risposta all’inadeguatezza è quella di creare ulteriori prodotti tecnici derealizzanti (ossia che allontanano dalla realtà) e altri ancora, in un processo in cui il cumulo-capitale prende il sopravvento. Non solo rifiuti tossici, plastici, inorganici, non solo l’incremento demografico, non solo l’inquinamento parossistico ma anche gli eccessi di dati, di sottoprodotti informatici, di pseudo-informazioni, fake-news, algoritmi, statistiche, interazioni digitali, etc.: “quanto più aumenta l’infelicità dell’uomo che produce, quanto meno si sente all’altezza dei suoi prodotti, tanto più moltiplica senza posa, instancabile, con avidità e terror panico, il numero dei suoi inservienti, dei suoi congegni e sotto-congegni; e con ciò naturalmente non fa che accrescere la sua infelicità; perché quanto più numerosa e più complicata diventa la burocrazia dei suoi apparecchi, da lui stesso creata, tanto più vani diventano i suoi tentativi di restare all’altezza” (Anders, 1956, p. 42). Nel 2023, ad esempio, certe proiezioni indicano che ciascun abitante della terra possederà almeno 10 devices, ossia 10 apparati tecnici connessi in cloud per comunicare qualsiasi cosa dello stato del proprio corpo, dei movimenti spaziali, degli appuntamenti, degli incontri, etc., inverando quasi le più rosee previsioni dei trans-umanisti del Novecento. Ma questi devices risulteranno così complessi (e succede già oggi) da essere irreparabili nonostante le tecniche di troubleshooting, ovvero l’uomo non è e non sarà in grado di riparare i meccanismi che lui stesso ha creato, abbandonandosi a narrazioni suppletive di rinforzo che parlano di obsolescenza, non convenienza economica, supposto miglioramento tecnologico. L’irreparabilità assoluta dell’hardware costituirà il leit motiv dell’epoca della digitalizzazione globale e segnerà definitivamente l’inadeguatezza dell’uomo nei confronti dei suoi prodotti tecnici.

2.7 The right to be forgotten

Osserva Jaron Lanier (2013) che uno dei problemi, soprattutto energetici, della tecnologia deriva dalla necessità di obliare taluni dati a favore di altri. Quando scansioniamo una certa porzione della realtà, dobbiamo operare una semplificazione che è anche un oblio, una selezione, un’esclusione. Il costo energetico del digitale insiste tutto in quest’attività che non è passiva come la mera ricezione analogica dei dati, ma agisce nella realtà preformandola. Il problema è che il digitale è entropico nella fase obliante e poi tende a memorizzare più dati possibile, è un oblio controllato che però ricorda numerosi, se non tutti, i dati che ha precedentemente selezionato e predefinito. Anche in questo caso s’instaura un’oscillazione tra la necessità narcisistica di lasciare una traccia e la difesa rispetto ad una comunità che è diventata community globale. La digitalizzazione costituisce pertanto una tecnologia della dimenticanza: proprio allorquando introduce il concetto di tracciabilità assoluta per cui ogni evento, ogni transazione può essere sorvegliata, recordizzata, rielaborata, nonché capitalizzata, allo stesso modo fa sì che il soggetto sia completamente desoggettivato e si trasformi in una semplice banca dati, o meglio, in un coagulo di pensieri, sentimenti ed emozioni decodificati e poi finalizzati ad una nuova forma di sfruttamento. Per disalienarsi da questa condizione ambivalente – osserva Lanier – è necessaria una normativa, un nuovo diritto, che renda la dimenticanza assoluta: se dobbiamo scomparire dall’esistenza comunitaria, dobbiamo farlo davvero, senza prestare il fianco a speculazioni e insinuazioni da parte del marketing digitale: ma questa è un’altra utopia poiché qualsiasi forma di diritto suppletivo non costituirebbe che un’altra forma di alienazione e assoggettamento.

Come notava Lacan nei suoi seminari, il soggetto non sa ma in qualche luogo, nell’Altro, si sa, dove nella sua concezione l’Altro o il grande Altro costituisce il sistema simbolico nel quale siamo immersi e che, assieme al registro immaginario, funge da schermo o da sfera protettiva nei confronti del reale. Questa nuova forma di disumanizzazione è intrinseca nella tecnologia digitale che costituisce una sistematica dell’oblio e un’accumulazione di dati depersonalizzati epperò “individualizzati”, cioè in qualche modo marcati o “taggati”. Quando accediamo a un social non siamo individui, anche se crediamo e speriamo di individualizzarci nella rete, ma una serie di tag. Siamo un IP, un account, un concatenamento di dati più o meno criptati, a loro volta utilizzati per creare l’illusione che il mondo che vediamo sulla rete sia effettivamente il nostro mondo unico e personalizzato.

Il problema si sposta sull’asse temporale: clouding, mirroring, back-up, etc. costituiscono dei simulacri della memoria che garantiscono una pseudo-identificazione digitale, mentre nella loro essenza costituiscono dei meccanismi dell’oblio e dell’effimero. Facciamo un esempio molto semplice: grazie al miglioramento degli obiettivi ottici e delle apps, ogni smartphone è in grado di filmare e fotografare tutti i momenti più importanti della nostra vita immettendoli immediatamente in rete per condividerli. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una moltiplicazione dei dati-immagine, eppure la loro conservazione è di gran lunga meno efficiente rispetto alle tecnologie precedenti. Non parliamo dei ritratti dipinti ad olio su lino che rappresentavano l’unica forma di riproduzione del reale “famigliare” fino all’avvento della tecnica fotografica. Ma la foto stessa, con i suoi supporti e le sue emulsioni delicate, costituisce ancor oggi una tecnica desueta, ma più affidabile in termini di durata. L’accumulo digitale e la semplicità sono inversamente proporzionali alla durata nel tempo, come se ci fosse un eccesso di ricordi e di memorie, una memory failure. Noi deleghiamo le tracce della nostra esistenza alla rete, il sistema le sfrutta approntando un mondo personalizzato, amicale e confortevole in cui possiamo riconoscerci e corroborare le nostre illusioni e fedi, però il tutto si traduce nell’oblio e nella dispersione dei dati per eccesso di accumulo. Doppio paradosso: da un lato vogliamo essere dimenticati per riconquistare la nostra privacy, ma dall’altro lato la nostra esistenza è consegnata alla labilità mnemonica dell’infosfera che oblia, escludendo dati, schematizzando la realtà ed eccedendo nelle informazioni disponibili, e che nel medesimo tempo impedisce l’oblio stesso rendendoci ostaggio della rete.

 

3. Capitale e digitale

3.1 Il digitale come immunizzazione del cumulo

“L’Internet delle Cose è la rete di strumenti, veicoli, edifici e altri oggetti fisici integrati con l’elettronica, con programmi, sensori, attuatori, e con la connettività di rete grazie a cui gli oggetti possono raccogliere e scambiare dati; permette infatti agli oggetti di essere rilevati e controllati a distanza per tutta l’infrastruttura di rete esistente, favorendo un’integrazione più immediata del mondo fisico nei sistemi informatizzati, e offrendo efficienza, precisione e vantaggi economici maggiori” (Žižek, 2017, pp. 69-70). Le cose sentono, comunicano e reagiscono senza la nostra presenza, in un sistema automatico che è divenuto completamente autonomo. In quello che viene definito Internet delle Cose (IoT) riscontriamo la classica bipolarità che caratterizza ogni forma di immunizzazione: 1) la sfera diveniente delle interazioni viene segmentata in realtà discrete che possono essere controllate, enumerate e accumulate; 2) le cose iniziano a interagire al posto nostro, diminuendo a dismisura il nostro rapporto con esse e istituendo un mondo suppletivo che funziona anche senza l’uomo. In breve, quelle medesime interazioni che venivano capitalizzate e monetizzate, ora sono divenute interazioni tra “cose” che comunicano e reagiscono al nostro posto. Si apre uno scenario del tutto nuovo in cui l’operatore “capitale” si è definitivamente sovrapposto all’operatore “digitale”. Nel suo processo astrattivo inesorabile, da prodotto dell’uomo e delle sue transazioni qual era, esso si è autonomizzato valorizzandosi e creando un mondo di interscambio assolutamente disumanizzato. L’uomo da attore dell’economia, si è trasformato direttamente in “prodotto”, in un “oggetto” che, con termini lacaniani, “è divenuto l’oggetto di godimento” di un Altro. Che l’Altro goda al posto nostro costituisce un’esperienza abbastanza diffusa; ma che questo Altro non sia che il sistema digitalizzato delle informazioni da noi stesso creato, appare evento più curioso e più sorprendente.

Il termine “digitale” ha origine dall’anglosassone digit, il cui etimo indica nello stesso tempo le dita della mano e le cifre numeriche: per contare usualmente adoperiamo le dita delle mani, le quali servono sia per afferrare degli oggetti, sia per indicarli e mostrarli. Ci sono tutti gli ingredienti di un’immunologia: si tratta di com-prendere, afferrare, controllare e far-vedere, cioè rendere-manifesto ciò che si nasconde. La tecnologia digitale costituisce in questo senso una sistematica di padronanza e controllo attraverso la quale le cose vengono enumerate, scansionate e rese visibili. Si tratta in altri termini di una immunizzazione secondaria dei cumuli, il che significa un controllo non soltanto delle cose ma di tutto ciò che può essere decodificato in bit e quindi in sequenze booleane di 0 e 1. Ogni oggetto, ma anche i nostri pensieri, le nostre sensazioni e volizioni vengono sur-codificate (sovra-codificate), criptate, trasmesse, accumulate e scambiate: digitale e capitale insomma sono ormai sovrapponibili e integrano il medesimo meccanismo.

Riprendiamo l’esempio di una qualsiasi macchina reflex digitale per fare fotografie: il sensore CCD (Charged-Coupled Device) registra dei punti luce-colore che assomigliano a degli eventi irrelati, in apparenza senza alcuna connessione tra di loro, ma che vengono accoppiati per intensità elettromagnetica (coupled). I dati vengono però successivamente decodificati in un sistema binario che inizia a creare delle collezioni di elementi (con) e degli insiemi con specifiche proprietà (in); simultaneamente un software individua delle differenze tra insiemi di elementi discreti sulla base di una mimesi o ripetizione di un modello pre-costituito. In sintesi quello che appare sul nostro schermino LCD non è effettivamente la realtà così come la vedremmo a occhio nudo, ma una realtà costruita mediante una precisa codificazione e decodificazione dei dati, un oblio di una parte di essi con annessa la possibilità di conservarli, di manipolarli infinite volte e di modificarli e ri-implementarli in vista della costruzione di nuove realtà. Žižek descrive questo fenomeno con il termine “interpassività”: noi deleghiamo all’Altro il nostro rapporto con il reale (l’apparato tecnico, i software di gestione-trasformazione, i social di diffusione-condivisione), ma ciò significa da un lato vivere in una realtà che, anche se “aumentata”, augmented, è pur sempre una realtà “costruita”, e dall’altro privarsi di un godimento derivante da un vissuto diretto delle esperienze, il quale invece – beffardamente – viene veicolato in nuove strutture per creare ulteriore profitto e asservimento.

Ma il denaro non funziona allo stesso modo? Probabilmente sì. Esso immunizza i cumuli eccedenti di oggetti, li oblia, li smaterializza valorizzandoli secondo uno schema di codifica riconosciuto collettivamente e ricompone infiniti nuovi cumuli, creando nuove ricchezze o nuovi oggetti. In tal modo le cose che ci circondano in esubero possono essere enumerate, simbolizzate, controllate e scambiate agevolmente. Capitale, digitale e denaro costituiscono le tre facce di un medesimo meccanismo immunologico finalizzato ad addomesticare le transazioni tra gli uomini e a controllare le accumulazioni eccessive, siano esse oggetti, cose, oppure esperienze soggettive.

3.2 La transvalutazione delle merci: dal capitale-lavoro all’esperienza umana

Il capitalismo costituisce un sistema di senso collettivo che per sua natura intrinseca è rivoluzionario e deterritorializzante. Da un altro punto di vista esso costituisce il migliore meccanismo immunologico globale inventato dall’homo sapiens: controlla gli oggetti accumulati, gestisce i surplus per nuovi accumuli per poi compiere una successiva astrazione. Dalla nascita alla morte, attraverso catastrofi umane e naturali, il capitalismo evita un effettivo confronto con il reale per creare sur-plus di vario genere; il fallimento anzi è il suo motore propulsivo, la perdita necessaria per cambiare registro e inventare nuove forme di cumuli e di ricchezze. Una qualsiasi tragedia collettiva può così trasformarsi in un serial Tv, in un video-gioco o social game vendibili sul mercato, nonché divenire oggetto di sciacallaggio giornalistico, come se, dopo ogni catastrofe, fossimo innanzi ad una palingenesi che ricostruisce e migliora il passato con un vettore temporale orientato verso il futuro.

Il fine è un continuo movimento circolare e auto-referenziale, in cui ciò che importa è la transazione, l’essere in relazione degli individui. I difetti del sistema sono noti: la creazione di disuguaglianze eccessive, al di là di ogni gerarchia e ordinamento della società; il suo carattere ingannevole, psicotico e illusorio cosicché ci troviamo nella condizione di vivere all’interno di un sogno dell’Altro; gli effetti sul reale che si esprimono nelle problematiche ecologiche (estinzione di numerose specie animali, alterazione dell’ambiente, esaurimento delle risorse, etc.), in quelle demografiche e, da ultimo, in quelle climatologiche.

Il capitalismo digitale, cioè l’assunzione che il capitale e il digitale sono la medesima cosa, e sono trasformabili in un “prodotto”, sembrerebbe in prima istanza ovviare almeno a due delle tre problematiche. Qualsiasi youtuber o influencer, ad esempio, accedendo alla rete può raggiungere il successo di migliaia se non milioni di visualizzazioni, con profitto e notorietà; non ci sono classi predefinite, censi, percorsi educativi privilegiati, blocchi sociali, discriminanti razziste. Nella rete si raggiunge ipoteticamente quell’uguaglianza diffusa in cui ciascuno può ottenere il successo. Meno capitali da investire e più creatività, dunque. Allo stesso modo un profitto fondato sul capitale pregresso e famigliare perde valore ove ciò che conta sono le informazioni, le competenze tecniche e l’innovazione: Bezos, Jobs, Gates, Ellison, Allen, Page, etc. sono i titoli più magniloquenti di una nuova forma di produzione, che non ha più come fine la costruzione o l’assemblaggio di “cose”, bensì la gestione di informazioni, di dati e quindi di interazioni, a loro volta divenute prodotti. Il plus-valore non deriva più – soltanto – dalla proprietà più o meno indebita, da un eccesso e uno sfruttamento lavorativo, ma da un plus di informazioni che possono essere capitalizzate e valorizzate all’infinito. “La connessione digitale è ora un mezzo per gli scopi commerciali degli altri. Nel suo nucleo, il capitalismo della sorveglianza è parassitario e auto-referenziale. Esso rivisita la vecchia immagine del capitalismo di Karl Marx che come un vampiro su nutre del lavoro, ma con una svolta inaspettata. Invece del lavoro, il capitalismo della sorveglianza si nutre di ogni aspetto della nostra esperienza umana” (Zuboff, 2019, p. 9). Con le monete criptate ad esempio i dati possono trasformarsi d’incanto in denaro e possono essere convertiti, scambiati e valorizzati; ma il blockchain a sua volta si basa sulle transazioni e quindi sulle esperienze umane. Il capitalismo della sorveglianza opera parassitariamente captando subdolamente le tracce delle nostre esperienze per capitalizzarle in un’economia che è tendenzialmente circolare e auto-referenziale.

Questo percorso può apparire egualitario, almeno per certi aspetti, cioè incarna una controreazione immunitaria del capitalismo tradizionale rispetto al suo presunto carattere essenzialmente divisivo, sperequante e discriminante. Se il capitale è digitale, invece, tutti possono accedervi nell’ambito di una competizione globale e darwiniana in cui vale soltanto il merito: ma la meritocrazia – al di là della bella facciata – non è che il segno del nuovo capitalismo con le sue rinnovate e inedite sperequazioni e i suoi assoggettamenti. Dietro a tutto ciò c’è infatti un nuovo asservimento, anche se esso viene vissuto per lo più nell’inconsapevolezza: la connessione digitale è divenuta un semplice mezzo per una nuova economia e un nuovo mercato, cioè per la distribuzione di quell’inedito prodotto che sono i nostri vissuti e per l’edizione di una nuova classe borghese fondata sulla proprietà di grandi meta-server e sull’accesso privilegiato ai cosiddetti big data.

Ma veniamo al secondo punto: la smaterializzazione delle merci. Il surveillance capitalism indica una via in cui per forza non è necessario lo sfruttamento schiavista del lavoro o il depauperamento suicida delle risorse naturali: se il capitale deriva da una sur-codifica, cioè non dalla transazione stessa ma da qualcosa che nascostamente quella transazione l’accompagna, e che non è un oggetto, una materia ma un semplice dato behavioural, comportamentale, assistiamo ad un passaggio in più, a un’eccedenza simbolica all’interno di un mondo già simbolizzato. Quando ci individualizziamo in rete con i vari accrediti, gli agree e gli accept, non offriamo più un semplice materiale umano per fare funzionare certi devices, ma del surplus informatico molto personale. Come osserva Lanier, bisogna sempre diffidare dei servizi in rete offerti gratis, come una semplice ricerca su Google o su qualche altro motore di ricerca: di fatto quando accediamo a qualsiasi servizio in rete noi vendiamo la nostra anima, ritrovandoci all’improvviso e nostro malgrado in un centro commerciale virtuale e infinito dove potremo trovare tutto ciò che è di nostro gradimento, con la differenza che il nostro gradimento talvolta non solo è ignoto a noi stessi, ma viene anche condizionato in base a scelte e opportunità che non sono nostre. Il profitto non dipende più dallo sfruttamento del lavoro nell’ambito dei processi produttivi, ma dalla circolazione di dati con focolai di sottrazione ed espropriazione. Potremmo pensare ad una non troppo futura società in cui i lavori manuali e i lavori pesanti siano stati del tutto sostituiti dalle macchine, mentre il capitale – e quindi il cumulo delle transazioni con i suoi eccessi – si sviluppi attraverso la circolazione di informazioni, peraltro secondarie o in sur-plus che costituiscono una sorta di “rumore di fondo informativo” tecnicamente illimitato.

Rimane così aperto un punto nell’ambito del capitalismo digitale: formalmente esso simula il capitalismo classico poiché costituisce una sistematica delle transazioni umane e un’immunizzazione rispetto ai potenziali conflitti all’interno di una determinata comunità. Se nelle popolazioni più antiche questa funzione veniva svolta da rituali ciclici in cui l’aggressività veniva collettivamente trasfigurata e risimbolizzata in una dimensione nuova in cui il soggetto era temporaneamente divenuto padrone di sé, nel mondo attuale assistiamo a una ritualità diffusa in cui l’accreditamento con il mio account alla rete implica una ritualizzazione individualizzata in cui ciascuno singolarmente può evadere dalla cogenza della realtà e abbandonarsi a infiniti mondi fittizi che riproducono quelli reali in modo depotenziato. Quindi ci sono due passaggi precisi rispetto ai quali la tecnica è solo un mezzo: 1) fuga in un mondo alternativo e immunizzato in cui esprimersi e vivere securizzati; 2) pagamento implicito di questo servizio attraverso la cessione più o meno inconsapevole di dati personali, comportamentali, privati e in apparenza secondari.

3.3 Il “neopanoptismo”

I meccanismi di controllo e di padronanza si traducono oggi in una collezione di sintomi in gran parte legati al “vedere”: “esibizionismo”, “narcisismo” – l’abbiamo accennato -, “scopofilia” o “voyeurismo”. Quello che era l’ideale neoliberale dell’ “individualismo” diviene oggi – osserva Shoshana Zuboff – un processo di “individualizzazione” e di sorveglianza (Zuboff, 2019, p. 33), alimentata paradossalmente da una pulsione intensa che ci spinge ad essere massimamente visibili nella rete e, nello stesso tempo, capaci di “vedere tutto”. In effetti il successo di GoogleEarth, GoogleMap, YouTube, Instagram, etc. risponde a questa doppia movenza, ad un vedere che è anche un “essere visto”. Nel selfie, pur ereditando almeno formalmente l’autoritrattistica classica, prevalgono entrambi i movimenti: il vedere/vedersi all’interno del telefonino e il farsi vedere e l’essere-visto nella rete attraverso la mediazione della tecnica. Questo gioco di assoluta riflessività non può avvenire che attraverso la mediazione dell’Altro, il mezzo tecnico e i processi di digitalizzazione e scomposizione in bit dei dati. Ogni “vedere” manifesta un certo carattere pulsionale e viene corrisposto da un contromovimento che si traduce in un “essere-visto” di tipo assoggettante: in autori ad esempio come Jacques Lacan, Maurice Merleau-Ponty e Jean Paul Sartre questa reversibilità dello sguardo è fondamentale per definire il soggetto stesso in quanto assoggettato dall’Altro e irretito dalle malie del desiderio (il cosiddetto domasguardo). Quando credo di trarre soddisfazione dalla libertà e dalla ricchezza offerte da Google e di rafforzare la mia posizione di potere e di controllo, ecco proprio in quel momento mi trovo ad essere altrettanto sorvegliato, con la differenza che colui che sorveglia non è più un individuo identificabile e riconoscibile, bensì un processo macchinico e algoritmico.

Questa duplicità non è nuova. Ci riporta persino indietro nel tempo e più precisamente al progetto un po’ fantastico, ideato nel 1791 da Jeremy Bentham: il Panopticon. Nel 1975 questo progetto è stato rispeso come suggestione teorica da Michel Foucault in Sorvegliare e punire per descrivere quella che a suo avviso era l’epoca della disciplina, ossia il principio di una biopolitica volta a controllare i corpi e le esistenze, inducendo meccanismi di autocontrollo e autoverifica. Si passa cioè dall’epoca delle grandi monarchie e da un tipo di potere sovrano apparentemente eccessivo a un’epoca disciplinare in cui il controllo delle condotte individuali – dalla scuola al collegio, dal servizio militare all’organizzazione delle fabbriche – è finalizzato a un’ottimizzazione della produttività economica. Oggi non ci troviamo in un’ epoca affine a quella disciplinare o, meglio, forse siamo innanzi a processi di disciplinamento per lo più inconsapevoli. Il Panopticon ipotizzava un carcere circolare strutturato in modo tale che da una torre centrale i guardiani potessero vedere in ogni momento i detenuti, mentre questi ultimi, pur vivendo nell’isolamento, avrebbero avuto soltanto la “sensazione” di essere controllati. Si tratta di una “macchina rassicurante” che dovrebbe garantire la serenità dell’individuo compendiando il fattore coercitivo con momenti di auto-controllo e auto-disciplina, in grado di ovviare agli eventuali eccessi del controllo “poliziesco”. Nel Panopticon si articola una dissimmetria pianificata tra chi controlla – la guardia – e il detenuto il cui unico sapere ipotetico è quello di essere visto. Il carceriere non potrà mai osservare contemporaneamente e sinotticamente tutti i detenuti, ma utilitaristicamente conta sul meccanismo dell’autocontrollo per cui la sua funzione diviene puramente simbolica. Di contro, per quanto riguarda il detenuto, si apre un’ulteriore divaricazione poiché egli “sa” di essere visto, ma ciò non può essere sempre vero.

Questo meccanismo, in apparenza complesso e barocco, descrive tuttavia molto bene ciò che avviene nell’ambito della rete. Attraverso Google, Bing e i social noi siamo continuamente geo-localizzati, “profilati”, mappati per quanto riguarda i nostri desideri, le nostre scelte e i nostri immaginari, in pratica siamo sorvegliati. Soltanto che, a differenza del progetto benthamiano siamo inconsapevoli di questo essere-sorvegliati e quanto più ci illudiamo di controllare i dati che ci riguardano, tanto più siamo soggetti a manipolazioni e condizionamenti occulti.

Per verificare come la nostra sia un’epoca neopanoptica basta guardarci attorno: il continuo monitoraggio della nostra vita quotidiana, anche nei suoi momenti privati, attraverso sistemi pervasivi di copertura attraverso videocam o le tecnologie embodied (il “digitale incarnato”) per cui le cose non soltanto comunicano tra di loro, ma ci controllano continuamente trasmettendo i dati ad agenti esterni. Registrazioni, tracciabilità, identificabilità sono dogmi di questa surveillance age. Gli spazi lavorativi sono così divenuti degli open space in cui ciascuno può essere sorvegliato dal funzionario e dove gli spazi di privacy (la foto dei famigliari, qualche souvenir di viaggio, etc.) vengono del tutto rimossi in nome di una depersonalizzazione funzionale e programmata. L’house working sfonda completamente il confine tra azienda e privato, in cui l’apparente libertà personale guadagnata viene corrisposta da una tracciabilità h24. Ciascun operatore sa di essere controllato a causa della sua visibilità, ma egli non sa che lo stesso avviene quando accede a internet nei suoi momenti di svago e di apparente libertà laddove il meccanismo panoptico dell’auto-controllo e dell’auto-disciplinamento sembrerebbe non funzionare più. L’idea, promossa pure dai mass-media, di una nuova libertà e dell’apertura di nuovi spazi di autonomia costituisce soltanto un’illusione: il prezzo da pagare per le nostre navigazioni e le nostre apps è un nuovo stile di sorveglianza, in cui il controllore è anonimo e invisibile. “Le persone comuni vengono spiate senza tregua e senza essere ricompensate in alcun modo per le informazioni ricavate dalle loro attività” (Lanier, 2013, p. 62).

 

4. Il capitale sorvegliante

4.1 Capitale, digitale, informazione

Quello che oggi si definisce surveillance capitalism si radica sopra un’analogia inattesa, composta da fattori palesemente eterogenei; il capitale e il digitale, appunto. Questa analogia è meno fantasiosa di quello che potremmo pensare, al di là del Bitcoin che parrebbe definitivamente confermare questa comunione esotica. Rivediamo allora la questione dell’isomorfismo strutturale di capitale e digitale per punti:

1) il capitale e il digitale non sono “cose”, ma operatori o, meglio, interazioni tra gli individui e quindi implicano sia un rapporto à deux tra le persone, sia un momento specificamente sociale e comunitario in cui ogni nostra transazione viene in qualche modo inscritta vivendo di una vita propria. “La nostra illusione di fondo è che i big data ci appaiono come una sostanza, una sorta di risorsa naturale magica da estrarre da una miniera: Usiamo termini anche come data mining per consolidare questa nostra fantasia” (Lanier, 2013, p. 131) mimando i medesimi meccanismi che hanno sorretto la cosiddetta prima rivoluzione industriale;

2) entrambi, il capitale e il digitale, svolgono soprattutto una funzione immunologica, ossia mettono in gioco delle relazioni che poi devono mediare, incanalare, controllare. Sono mezzi, media, non fini. Costituiscono in sostanza due modalità sovrapponibili attraverso le quali un determinato gruppo di persone può comunicare, accrescersi ed evitare i punti di frizione e di conflitto, mediante processi di risimbolizzazione e di sovra-codifica che ridisegnano i valori di riferimento all’interno del gruppo stesso;

3) entrambi consumano energia: anche nel capitalismo descritto da Marx il lavoro astratto e quantificabile all’origine del profitto capitalistico, al termine della catena dei rimandi e delle espropriazioni si traduceva nel consumo di risorse, a partire da quelle alimentari del lavoratore medesimo, le quali a loro volta rappresentavano la parte determinante del salario. L’accumulazione, per quanto sia astratta ed informale consuma a sua volta, cosicché anche ciò che sembrerebbe la cosa più distante da una concezione materialistica del lavoro – la sequenza di 0 e 1 – necessita di enorme energia sia per la produzione dell’informazione, sia per la sua trasmissione, conservazione, accumulo e valorizzazione. “Crediamo che la computazione sia gratis, ma non è così. Scegliere quale particella sia calda e quale fredda consuma energia e disperde calore. (…) Ogni bit contenuto in un computer è un aspirante diavoletto di Maxwell capace di separare lo stato ‘uno’ dallo stato ‘zero’ per un dato periodo, ma a un certo prezzo” (Lanier, 2013, p. 66). Termini come rete, cloud, wifi, etc. metaforizzano il falso, e cioè che la tecnologia informatico-digitale non avrebbe alcun impatto sull’ambiente se non per il RAEE, cioè per la gestione dei rifiuti elettronici, già di per sé comunque fatto colossale. L’idea che con il mio smartphone possa lavorare in cloud risparmiando in risorse hardware come il desktop, la TV connessa, il tablet e tutti gli oggetti sensorizzati e connessi costituisce la grande e fallace narrazione del nostro tempo;

4) un altro elemento di comunanza che avvicina in modo impressionante il capitale e il digitale è la funzione dell’oblio. “Ogni tecnologia dell’informazione, dalle antiche monete al modernissimo cloud computing, si basa fondamentalmente sul decidere ciò che deve essere memorizzato e ciò che può essere dimenticato” (Lanier, 2013, p. 42). Sia il denaro classico che il dato digitale derivano dalla dimenticanza radicale dell’emittente e del ricevente, nonché, nella loro essenza simbolica, derivano da una semplificazione che a fronte del vantaggio della manipolabilità e controllabilità, pagano il prezzo di un depauperamento ontologico dell’informazione-base, ossia dell’informazione analogica che lavora attraverso processi per lo più di tipo mimetico. L’aliquid stat pro aliquo che sta alla base di ogni simbolizzazione, cioè “il qualcosa che sta per qualcos’altro”, implica necessariamente una riduzione significativa dei dati, un accordo collettivo che prende atto di questa riduzione, e un’autonomizzazione dei processi di scambio che progressivamente oblitera la sorgente e il suo depauperamento, ma ricorda molto bene ciò che rimane;

5) essendo fattori relazionali, capitale e digitale presentano la medesima struttura: il “con” dei concatenamenti dei dati ma anche delle community, degli amici nei social, etc.; l’ “in” dello spazio virtuale che si viene a creare con tutte le inedite questioni che ineriscono al cosiddetto common intellect (ciò che produco in rete è mio o è di tutti, e se è “mio” che cosa significa questa proprietà e come posso difendermi da un meccanismo sistematico di esproprio che sembra far tutt’uno con l’essenza più profonda della rete?): il diá della differenza per cui se il capitale crea per sua natura una disuguaglianza distributiva con inclusi ed esclusi, il digitale appare già differenziante nel suo sorgere allorquando la divisione della realtà in sequenze binarie si fonda su processi arbitrari (anche se computerizzati) di in e out; il “ri” della ripetizione che nel capitale diviene aggio, interesse, rivoluzione e nel caso del digitale innerva lo stesso funzionamento dei suoi algoritmi tutti basati su processi ricorsivi;

6) sia il capitale che il digitale non sono proprio – o soltanto – operatori simbolici e linguistici, ma operatori a-significanti che agiscono direttamente sul soggetto scardinando quelle che sono le categorie marxiste della struttura e della sovrastruttura: il soggetto non è solo un’identità linguistica ma è sia una banca-lavoro per il capitalismo classico, sia una banca-dati sulla quale l’informatica può agire direttamente per estrarre ulteriori informazioni o, più semplicemente, per veicolare i comportamenti e le attitudini, incrementando le prestazioni e i risultati. “Se ci pensi è chiarissimo: il mutuo è simile a un file musicale, un mutuo cartolarizzato è simile a un file piratato” Lanier, 2013, p. 62). Il caso Cambridge Analytics può essere un paradigma del modo in cui le società che gestiscono i dati possono estrarre delle informazioni comportamentali eccedenti per analisi e decrittazioni finalizzate al controllo e al veicolamento delle opinioni; ma il soggetto in quanto tale, come abbiamo visto, ormai è stato parcellizzato in numerosi e differenziati recettori di questi flussi digitali a-significanti per cui assistiamo ad interrelazioni del tutto inconsce. Pensiamo addirittura che oggi la psicanalisi freudiana dovrebbe essere riscritta e il termine inconscio (Unbewusste) assumere un altro significato rispetto a quello originario;

7) ambedue – il capitale e il digitale – sono operatori di alienazione e di disuguaglianza, cioè si creano degli assoggettamenti e delle disparità tra chi ad esempio ha una ricchezza materializzata in immobili, investimenti finanziari, oggetti preziosi, collezioni di opere d’arte, etc. e chi non la possiede ma è un lavoratore dipendente; tra chi possiede innumerevoli meta-server, “server Sirena”, etc. e controlla gran parte dell’informazione del globo, e chi vive nell’ignoranza digitale più assoluta, a partire proprio da quei behavioural data espropriati che riguardano il proprio sé. “Un certo modo di digitalizzare le attività economiche e culturali porterà alla contrazione dell’economia e a una concentrazione della ricchezza e del potere dalle forme nuove e insostenibili” (Lanier, 2013, p. 62), anche se i concetti di monopolio e di privacy non sembrano possedere una sufficiente forza esplicativa per spiegare un fenomeno unprecedented, inaudito (Zuboff, 2019, p. 14);

8) capitale e digitale sono “globali”, cioè costituiscono fenomeni planetari assolutamente identificabili. Sembra anzi che la digitalizzazione delle attività economiche risponda a quel movimento intrinseco già evocato da Marx: “le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d’esistenza” (Marx-Engels, 1948, p. 29). Quando tentavano di descrivere in modo originale il capitalismo, Gilles Deleuze e Félix Guattari ne delineavano soprattutto il carattere deterritorializzante, cioè il fuoriuscire dai territori nazionali e da qualsiasi contenitore anche simbolico che ne limiti l’attività e lo sviluppo. Così come oggi la finanza è internazionalizzata, anche la digitalizzazione, al di là di sparute azioni politiche locali di censura, monopolio, lotta commerciale (pensiamo alla tecnologia 5G) tende – per affermarsi, evolversi e sussistere – a fuoriuscire da qualsiasi territorio, digitalizzando e rielaborando all’infinito i dati per creare nuovi spazi e nuove aree di sviluppo.

4.2 La prospettiva immunologica

Ma se i concetti di monopolio e di privacy non sono in grado di descrivere il capitalismo della sorveglianza, quali nuove categorie dovremmo utilizzare? E soprattutto come potremmo caratterizzare quel nuovo e inatteso decorso della storia biopolitica universale, per cui l’Altro tende a sapere tutto di noi stessi, ma lui, l’Altro, a sua volta probabilmente non lo sa, un po’ come secondo Lacan succede a Dio?

C’è un primo punto da mettere in rilievo: quando rinunciamo all’idea di un monopolio, come può esserlo Google o Facebook, stiamo compiendo un’operazione che non agevola propriamente le nostre interpretazioni. Dobbiamo rinunciare infatti all’identificazione di una causa, un agente, un motore primo, di tutte quelle categorie aristoteliche insomma che usualmente ci aiutano a leggere e interpretare la nostra vita e il nostro mondo. E dobbiamo rinunciare alla suggestione paranoica che ci sia qualcosa come un grande Altro che sta dietro alla rete e manipola le nostre coscienze, così come un tempo pareva corretto identificare nel “padrone” e nel “capitalista” l’unica causa effettiva del capitalismo e delle disparità prodotte dalla società borghese. “La paranoia è la credenza in un ‘Altro dell’Altro’, in un Altro che si cela dietro l’Altro della realtà sociale e governa (quelli che ci appaiono come) gli effetti imprevisti della vita sociale, garantendosene in tal modo la consistenza. Questa posizione paranoica è stata ulteriormente potenziata dalla progressiva digitalizzazione della vita quotidiana: una volta che la nostra vita (sociale) si è completamente esteriorizzata materializzandosi nel grande Altro della rete informatica globale, è facile immaginare un malvagio programmatore che cancelli la nostra identità digitale e ci privi così dell’esistenza sociale, cioè ci trasformi in non-persone” (Žižek, 2014, p. 201).

Capitale e digitale funzionano allo stesso modo e costituiscono quelle forme relazionali attraverso le quali siamo in rapporto con il mondo in cui viviamo, immunizzandolo. Il capitalismo costituisce a sua volta un’immunizzazione dei capitali-digitali trasformandoli in oggetti cumulabili e scambiabili. Se vogliamo, il capitalismo della sorveglianza immunizza il capitalismo digitale, controllando e sur-codificando i flussi eccessivi di informazione che vengono prodotti. Si tratta di un doppio movimento per cui da un lato tendiamo a creare cumuli di dati-denaro, dall’altro tendiamo a difenderci da siffatte accumulazioni incontrollate, creando però forme di esclusione, disparità e nuove accumulazioni. Dove c’è un cumulo, ivi c’è un capitale e un capitalismo, e dove c’è un capitalismo c’è un nuovo cumulo, e così via: l’ineludibilità e l’apparente carattere rivoluzionario del capitalismo derivano da questa equazione. Se non comprendiamo che dal punto di vista immunologico un cumulo di dati è la stessa cosa di un cumulo di denaro, non riusciremo ad affrontare il problema senza implicare la figura di un terzo oscuro che tesaurizza le informazioni per capitalizzarle e trasformarle in denaro a nostro discapito: “il capitalismo della sorveglianza opera attraverso inaudite asimmetrie nella conoscenza e il potere che deriva dalla conoscenza. Il capitalismo della sorveglianza sa ogni cosa di noi, laddove le loro operazioni sono concertare per essere inconoscibili per noi. Loro accumulano vasti domini di nuova conoscenza traendola da noi, ma non per noi” (Zuboff, 2019, p. 11). Notiamo qui come anche la Zuboff sia prigioniera di un paradigma “noi-loro”, “noi-Altro”, che certo giustifica la ricchezza e l’asimmetria informativa di Larry Page o di Mark Zuckerberg, ma non riesce a spiegare come l’uomo sia condannato ad accumulare e a immunizzare gli accumuli che lui stesso, suo malgrado, ha creato e dei quali fa parte. La gestione degli accumuli implica una manipolazione di transazioni e di interazioni, con la conseguente istituzione di disparità, di focolai microfisici di potere e relativi assoggettamenti. Ma questi ultimi non derivano da un potere oscuro che veicola ogni nostro rapporto con l’Altro: si tratta semmai di una relazione difensiva di tipo sistematico, di una sub-reazione al fatto che siamo un animale sociale e che la communitas, soprattutto se estremizzata da un’esplosione demografica, può fungere nello stesso tempo da barriera protettiva nei confronti dell’esterno, ma anche da incubatore di violenza e aggressività interpersonale.

4.3 Autodomesticazione e autoimmunizzazione

Maggiore è l’incremento demografico, più intenso l’incremento della comunicazione per garantire sicurezza, protezione e socializzazione. Da ciò deriva la necessità di una smaterializzazione della comunicazione, la sua digitalizzazione e quindi una nuova forma di capitalismo come il surveillance capitalism. Secondo delle recenti prospettive paleoantropologiche, la caratteristica peculiare dell’animale-uomo è l’autodomesticazione, cioè il fatto di controllare e organizzare sistematicamente la propria socialità, cioè il proprio essere-con eccedente, attraverso varie strategie che culminano nel linguaggio e nell’incremento progressivo della comunicazione. “L’ipotesi che sta trovando sempre più sostegno nell’evidenza disponibile: quella della progressiva autodomesticazione della nostra specie. Iniziato molto lentamente, dal punto di vista anatomico e presente anche in alcuni nostri ascendenti diretti, questo processo sembra essersi accelerato, negli ultimi 100.000 anni, grazie a innovazioni celebrali e comportamentali che hanno portato, in noi sapiens, a un momento frenetico della socialità” (Tuniz-Tiberi Vipraio, 2018, p. 21). Per queste ragioni maggiore è il plus demografico, maggiore risulta la comunicazione tra gli individui onde evitare momenti letiferi di attrito e di frizione.

L’ “essere-con” molte persone non è facile: è per tali ragioni che funzionano meccanismi che accoppiano il mantenimento di una comunicazione sufficiente e una presa di distanza attraverso la smaterializzazione dei mezzi comunicativi (i social). Grazie a questa smaterializzazione che corrisponde alla digitalizzazione dei dati è possibile mantenere una comunicazione intensa tra gli individui e nel medesimo tempo una distanza, un intervallo. Noteremo tuttavia che anche in questo caso siamo innanzi ad eccessi e a forme di accumulazione: l’eccesso demografico implica un eccesso comunicativo che, attraverso la tecnica, si trasforma in un sur-plus di dati. Da questo surplus di dati sorge una nuova strategia di gestione degli eccessi che oggi possiamo chiamare capitalismo della sorveglianza, ma che in futuro potrà assumere senza dubbio altre fisionomie: i dati personali raccolti nella comunicazione eccessiva e ridonante costituiscono ora il nuovo capitale da gestire, manipolare e valorizzare. E la valorizzazione si esplica attraverso una strana alleanza con il capitalismo consumistico per così dire classico, cioè quello preposto alla vendita e alla trasmissione di oggetti (Amazon): tutto il marketing che circonda la mia vita sulla rete, in modo quasi ossessivo, è fondato a sua volta sul trading di dati personali che vengono analizzati ed elaborati in modo da personalizzare il mio market digitale, orientandolo talora secondo propensioni, sentimenti e gusti di cui ero all’oscuro.

Questo sur-plus di informazioni tende per sua natura ad autonomizzarsi: dobbiamo pensare a infiniti nuclei di sedimentazione dei dati senza che ci sia preposto un grande Altro per governare l’intero processo e per trarne profitto. Ciò avviene – è vero – ma si tratta per così dire di un effetto collaterale: in questi nuovi flussi di capitale-digitale si propone sempre la figura aggregante del “capitalista” che tesaurizza il sur-plus per sé divenendone totalmente schiavo. Nei grandi movimenti di senso che attraversano l’umanità ciò che contano sono i movimenti globali di autodomesticazione e la loro capacità autoimmunitaria nel contenere ciò che può derivare dall’eccesso demografico, dalla crisi climatica e dalle grandi migrazioni che ci stanno attendendo. Questi grandi movimenti tendono per essenza ad essere gerarchici e a istituire centri di potere inedito, ma non solo: come effetto collaterale producono nuovi eccessi accumulativi e quindi ulteriori difese immunitarie di tipo capitalistico, un nuovo jungle capitalism.


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