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liberazione

Goodbye liberismo. Ma ora?

di Alberto Burgio

Benché la responsabilità della crisi che imperversa distruggendo ogni giorno migliaia di posti di lavoro ricada per intero sulle classi dirigenti occidentali (degli Stati Uniti e dei loro partner capitalistici), il racconto della crisi è appannaggio pressoché esclusivo di banchieri, imprenditori e governanti, preoccupati di giustificare il quotidiano saccheggio di risorse pubbliche a beneficio delle imprese private in odore di fallimento. Non si tratta di un dettaglio trascurabile. È una circostanza che coinvolge la gestione politica della crisi e che può incidere in modo rilevante sui suoi stessi sviluppi. Perciò è fondamentale che vengano prodotte letture alternative, capaci di fornire strumenti analitici alle voci critiche superstiti. E per questo salutiamo con favore un libro scritto, a tamburo battente, da Alfonso Gianni, Goodbye liberismo (Ponte alle Grazie, pp. 368, euro 16,50) che ha il merito di riflettere sulla crisi ricercandone le radici nella vicenda ultratrentennale del neoliberismo.

Tale ampio angolo visuale è il maggior pregio del libro, che offre al lettore informazioni di non sempre agevole reperimento (a prezzo, forse, di una relativa scarsità di riferimenti ai contraccolpi della crisi sulle politiche macroeconomiche dei governi e sulla ristrutturazione in senso autoritario delle forme di controllo sociale e di comando dei processi produttivi).


Gianni interpreta la crisi - la prima, scrive, sorta nel centro dell’«impero capitalista» - in una prospettiva che ci vede concordi.

Le cause di fondo risiedono nella sovrapproduzione di capitali e merci, all’origine della quale operano le condizioni imposte al lavoro dipendente: deregulation del mercato del lavoro, precarietà e bassi salari. D’altra parte, la dimensione sistemica della crisi lascia presagire grandi trasformazioni. Gianni - qui la sua analisi entra nel vivo, presentando sviluppi che vale la pena di discutere - è persuaso che ne seguirà una «transizione egemonica mondiale». La crisi in atto chiude il ciclo neoliberista, che egli fa cominciare nel 1978, in coincidenza con la sessione del Comitato centrale del Partito comunista cinese che segnò la definitiva vittoria di Deng e l’avvio del nuovo corso economico, all’origine dello straordinario sviluppo produttivo e sociale della Cina. La periodizzazione è coerente con la prognosi (meno, forse, con la tesi, cara a Gianni, del «depotenziamento» degli Stati nazionali, se è vero che tanto la Cina quanto gli Stati Uniti sono a tutti gli effetti organismi statuali): la transizione imposta dalla crisi sancirà «la fine dell’egemonia americana e l’inizio di quella asiatica e cinese in particolare».

Ma la questione riguarda la portata della trasformazione. Di che «transizione» si tratterà? Essa si limiterà a spostare il baricentro del sistema economico mondiale a dominante capitalistica o avvierà il declino del capitalismo? Rispondere implica evidentemente prendere posizione nella vexatissima quaestio sulla natura del modello cinese. Gianni insiste sulla sua specificità (non solo economica, ma anche politica, sociale e culturale), poi però legge lo sviluppo della Cina come una «modernizzazione in senso capitalistico». A suo giudizio, quello cinese è «un originale modello di capitalismo». Ne discende, se comprendiamo, l’idea di una transizione debole, analoga a quella che, tra le due guerre mondiali, sancì il declino britannico e l’ascesa degli Stati Uniti. È una tesi diffusa, ma crea un cortocircuito tra la prima e la seconda parte del discorso di Gianni.

La crisi è endogena (nasce dalla dinamica riproduttiva del capitale) e la transizione si gioca tra due superpotenze capitalistiche tra l’una e l’altra sponda del Pacifico. Se ne dovrebbe dedurre che la sinistra europea possa soltanto stare a guardare. Invece, nei due ultimi capitoli, Gianni si interroga sul suo ruolo, indagando compiti e responsabilità. Le responsabilità gravano sulla sinistra moderata, rifluita su posizioni «indistinguibili» da quelle della destra tecnocratica. Alla sinistra «radicale» spetta invece l’onere (e l’onore) di una «innovazione necessaria», capace di riscrivere la «carta d’identità della sinistra». Come? Gianni risponde evocando l’incontro tra il movimento operaio e quello altermondialista e una pratica politica orientata verso obiettivi ambiziosi, a cominciare dalla pace e da uno «statuto mondiale del lavoro», che sancisca l’alleanza tra lavoro e ambiente e promuova la convergenza delle condizioni economiche e sociali tra i vari Paesi.

È uno sforzo di elaborazione apprezzabile, che offre utili spunti di riflessione. Ma restano due nodi irrisolti. Il primo concerne l’impari distribuzione delle responsabilità. Davvero sulla sinistra «radicale» non ne grava alcuna? L’incontro tra i movimenti fu già invocato nelle tesi del V Congresso di Rifondazione comunista: perché non si è verificato? Non sarebbe il caso di interrogarsi anche sui limiti dell’azione del gruppo dirigente del Prc, di cui lo stesso Gianni è stato, sino al Congresso di Chianciano, autorevole esponente?

Un secondo e più rilevante nodo attiene alle condizioni di realizzabilità dei compiti indicati. Contro una politica generale di disarmo, contro uno statuto mondiale del lavoro, contro una riforma democratica dell’Onu, dell’Fmi e dell’Europa di Maastricht militano forze potenti, il blocco di interessi e poteri che ha dominato in questi decenni. Quali sono i contropoteri in grado di opporvisi? Gianni evoca il movimento altermondialista e contro la guerra, ma in questi anni la sua potenza si è dimostrata insufficiente a sovvertire l’attuale sistema di dominio.

Allora tutto il discorso rischia di inciampare in una impasse. Da un lato si ritiene che la crisi non avvii il tramonto del capitalismo (la «transizione» limitandosi a consegnare l’egemonia a un’altra potenza capitalistica), dall’altro non si rinuncia ad obiettivi rivoluzionari, che vengono affidati a soggetti privi della forza d’urto necessaria a realizzarli. Come se ne esce?

In realtà, Gianni ha ragione nel ritenere quegli obiettivi storicamente maturi, e fa bene a metterli in rilievo. Il punto è che sottovaluta l’alterità tra capitalismo e potenze emergenti (non soltanto la Cina, l’India e la Russia, ma anche gli Stati democratici dell’America latina, ai quali il libro non presta sufficiente attenzione). C’è, nel suo discorso, un tratto economicistico che lo sospinge (a dispetto delle critiche a Negri) verso un apparato ideologico «imperiale» e «ipermovimentista», impedendogli di cogliere il peso delle differenze politiche e culturali. Il mondo non sta sotto il tallone del «capitale globale» e il conflitto tra l’Occidente capitalistico e i Paesi emergenti è un conflitto organico (politico e geopolitico, oltre che economico) che, insieme all’egemonia mondiale, mette in discussione la struttura e il funzionamento dei sistemi di potere, quindi la natura dei processi di riproduzione e i modelli sociali e culturali dominanti. È questa organicità del conflitto globale a porre all’ordine del giorno il tema di una transizione sistemica, che altrimenti sarebbe utopico o addirittura impensabile.

 

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