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manifesto

Una riforma a rovescio

di Felice Roberto Pizzuti

L'impostazione finanziaria della trattativa sullo scalone ha partorito una controriforma che diluisce nel tempo la trappola di Maroni ma per certi versi l'aggrava. Al contrario di quanto si afferma, a essere penalizzati saranno anche i giovani

pensioniNell'accordo sulle pensioni raggiunto tra il governo e le parti sociali si è accentuata la spinta «rigorista» che sovrastima e in parte fraintende la dimensione finanziaria del problema, mentre sottovaluta i più complessivi aspetti economici che collegano la previdenza al sistema produttivo e sociale. Questo accordo ha poi una valenza politico-sociale sicuramente condizionata dalle ultimissime mosse dell'ala moderata dello schieramento politico; una valenza discutibile che dovrà essere verificata, non senza rischi di pericolose divergenze, sia rispetto agli equilibri nella maggioranza sia nella verifica con i lavoratori.

In confronto alle proposte che circolavano nei giorni scorsi, il progetto concordato è abbastanza più restrittivo. Il sistema delle quote, particolarmente caro ad alcuni sindacati, che avrebbe dovuto garantire più elasticità di scelta ed evitare altri «scalini» successivi al primo (con il quale dal gennaio 2008 l'età minima di pensionamento d'anzianità è alzata da 57 a 58 anni), in realtà è molto vincolante. Dopo soli diciotto mesi, cioè dal luglio 2009, l'età minima di pensionamento salirà a 59 anni (più 36 di contribuzione per arrivare a quota 95); dopo altri diciotto mesi, l'età minima salirà a 60 anni (con la quota che sale a 96) e dopo altri due anni, cioè dal gennaio 2013, salirà a 61 (con la quota a 97). In realtà, lo scalone viene diluito in tre scalini, nel periodo gennaio 2008-gennaio 2011, e poi si va anche oltre, riducendo fortemente i margini di scelta dei lavoratori.

Pagano i soliti

Dagli aumenti dell'età di pensionamento sarebbero esclusi i lavoratori con attività usuranti, ma rimane ancora imprecisata la loro individuazione, con il serio rischio che questo problema depotenzi l'applicazione dell'esclusione, come già è avvenuto in passato.

L'insieme del provvedimento dovrebbe costare, rispetto all'applicazione dello scalone, 10 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, ma è previsto che siano tutti a carico delle stesso sistema previdenziale ovvero dei lavoratori, sia dipendenti che subordinati, per i quali - peraltro - l'ultima legge finanziaria ha già aumentato le aliquote contributive.

Non c'è invece da sperare in fantasiosi risparmi di bilancio derivanti dalla fusione degli enti previdenziali che, come ha confermato anche la Ragioneria generale dello stato, nei prossimi anni farebbe aumentare le spese.

Anche se lo scalone è stato evitato, ha comunque pesato oltre misura una miope preoccupazione finanziaria, per di più parzialmente ingiustificata, a danno di una più complessiva valutazione economica (senza dire degli aspetti sociali e politici).

 

Realtà capovolta

In base agli ultimi dati di bilancio disponibili, l'insieme delle entrate contributive supera le reali uscite per prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali. Il saldo è pari allo 0,5% del Pil e non tiene ancora conto dell'aumento delle aliquote contributive e dei risultati della lotta all'evasione; nell'insieme, per il solo 2007, si prevedono circa 4 miliardi di maggiori entrate strutturali.

Il dibattito previdenziale degli ultimi mesi e il suo esito sono stati malamente condizionati dalla scarsa considerazione dei rapporti tra sistema pensionistico e sistema produttivo e da una analisi male impostata, se non capovolta, dei rapporti tra giovani e anziani.

Nel medio e lungo periodo è ragionevole pensare che, accentuandosi la tendenza all'aumento della vita media attesa, anche l'età di pensionamento possa spostarsi. Così pure, con la diminuzione in atto del rapporto tra persone in età attiva e anziani, per i primi può diventare più oneroso finanziare le pensioni. Tuttavia, se - da un lato - si allarga lo sguardo all'economia e alle specificità della nostra situazione nazionale e se - d'altro lato - non si ragiona in termini puramente finanziari, vanno fatte anche altre valutazioni.

Nel nostro paese i tassi di occupazione sono tra i più bassi in Europa, cioè il nostro sistema produttivo non è in grado di occupare tutti i lavoratori potenziali. Finché questa situazione non cambia, forzare o costringere un anziano a lavorare implica diminuire la possibilità di occupare stabilmente un giovane, con l'ulteriore conseguenza di contenere gli aumenti della produttività e la spinta innovativa del nostro sistema produttivo. Questi ultimi effetti avranno - tra l'altro - la conseguenza di ridurre le future disponibilità di reddito necessarie a finanziare le future pensioni degli attuali giovani.

Se oggi gli anziani possono contare su tassi di copertura pensionistica superiori a quelli che si prevedono per i futuri pensionati, molto dipende dal migliore equilibrio demografico odierno rispetto a quello che si attende nei prossimi decenni. Ma è privo di senso incolpare gli attuali anziani di questa tendenza demografica e costruirci sopra un conflitto intergenerazionale che mina pericolosamente la coesione sociale. E' molto più ragionevole impegnarsi in politiche di innovazione e di sostegno alla crescita economica e a un'intelligente politica di accoglienza degli immigrati che potranno contribuire ad attenuare il nostro invecchiamento demografico.

Da oggi al 2050 si prevede che il rapporto tra ultrasessantacinquenni e popolazione in età attiva più che raddoppierà; tuttavia, alla fine del periodo, in base all'attuale assetto del sistema pensionistico, il rapporto tra le sue prestazioni e il Pil sarà lo stesso o addirittura inferiore a quello attuale. Ridurre i coefficienti di trasformazione come è previsto dalla riforma Dini equivale a decidere - ora per allora - di dare in futuro, a una quota molto accresciuta di anziani, pensioni pari a una fetta uguale o inferiore del Prodotto interno lordo. Dunque se i giovani attuali avranno una scarsa copertura pensionistica, ciò dipenderà non solo dalle tendenze demografiche (che pure possono essere parzialmente contrastate), ma anche dalle decisioni attuali - economicamente, socialmente e politicamente controproducenti - di contenere il trasferimento del reddito che allora verrà prodotto ai pensionati di quel periodo (gli attuali giovani).

 

Pericolo coefficienti

L'accordo tra governo e parti sociali prevede una commissione che analizzi le modalità d'adeguamento dei coefficienti di trasformazione. Sarà importante dare buone indicazioni a tale commissione. Le sue analisi non dovrebbero fare attenzione solo agli equilibri attuariali del sistema pensionistico - che, naturalmente, hanno un loro rilievo contabile; dovrebbe anche considerare che l'equilibrio attuariale non è neutrale rispetto agli equilibri economici (oltre che a quelli sociali e politici). Puntare solo alla stabilizzazione del rapporto tra spesa pensionistica e Pil mentre la popolazione invecchia considerevolmente equivale ad accollare gli effetti della tendenza demografica solo sugli anziani (quelli futuri, cioè i giovani attuali) e non su tutta la popolazione come sarebbe più sensato fare. La questione di rilievo non sarà tanto se adeguare o meno i coefficienti, ma a chi accolarne l'onere. A tal fine andranno prese in considerazione misure di fiscalizzazione e la possibilità di interventi differenziati tra diverse categorie di lavoratori, la cui classificazione richiederà l'avvio di seri studi.

I rapporti tra giovani e anziani hanno grande rilievo economico, sociale e politico; non possono essere sviliti a oggetto di strumentalizzazione politica.

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