Print Friendly, PDF & Email

ilpungolorosso

A proposito di jus soli e di razzismo tra gli operai

di Aldo Milani (SI-Cobas) e Pietro Basso (Il cuneo rosso)

b9a12104a2331cc2c3006e56f9e9737aMentre è in atto l’osceno balletto del rinvio della legge sullo jus soli, con la retromarcia del governo Gentiloni e l’annessa gara a chi, tra M5S, Lega, Forza Italia e la restante congrega anti-immigrati, l’ha provocata, proviamo a mettere qualche punto fermo basilare a riguardo, parlando – è consentito ancora? – da comunisti internazionalisti.

Anzitutto per ricordare come fu impostata e risolta la questione un secolo fa nella Russia sovietica. Art. 2 della Costituzione: “In conseguenza della solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi, la Repubblica socialista sovietica federativa russa riconosce tutti i diritti politici dei cittadini russi a coloro che risiedono nel territorio della Repubblica russa, hanno un lavoro e appartengono alla classe operaia. La Repubblica socialista sovietica federativa russa riconosce inoltre il diritto dei soviet locali di garantire la cittadinanza a questi stranieri senza complicate formalità”. Questo è quanto. Altro che la celebre Costituzione italiana nata dalla resistenza!

Per noi che abbiamo come principio-guida fondamentale la solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi, le lavoratrici e i lavoratori immigrati in Italia, e non solo i loro figli, dovrebbero vedersi riconosciuti tutti i loro diritti politici, incluso il diritto alla cittadinanza (se ritengono di avvalersene). E senza complicate formalità – quelle che rendono difficile oggi ottenere finanche un permesso di soggiorno. Perché? Per la semplice e fondamentale ragione che lavorano, che contribuiscono con il loro duro lavoro alla produzione e alla riproduzione dell’economia “nazionale” e della vita sociale. Ma non ci pare che, ad oggi, questa elementare posizione di classe sia avanzata con decisione da nessuna parte.

È scontato, invece, che tutte, senza eccezione, le forze politiche istituzionali presenti in parlamento o aspiranti al parlamento siano per negare, restringere, centellinare, dilazionare, o – come minimo – sottoporre a severe condizioni la possibilità che i lavoratori e le lavoratrici immigrate accedano ai diritti politici e alla cittadinanza, e perfino che vi accedano i loro figli nati in Italia. È scontato perché tutte queste forze, in un modo o nell’altro, essendo a favore della “economia di mercato”, concordano nel voler mantenere i lavoratori e le lavoratrici immigrate in una condizione sociale e giuridica di inferiorità rispetto ai lavoratori autoctoni. Tenere divisa e gerarchizzata, quindi debole se non impotente, la classe lavoratrice è un mezzo essenziale per il fine supremo del sistema sociale capitalistico: l’accumulazione continua e illimitata di capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato. Discriminare e reprimere i lavoratori immigrati è in funzione del loro super-sfruttamento, e il loro super-sfruttamento rafforza, a sua volta, lo sfruttamento della massa dei lavoratori autoctoni attraverso il meccanismo della concorrenza al ribasso.

Tutto ciò serve anche a fomentare lo scontro tra proletari autoctoni e immigrati, spingendo i primi a puntare il dito sui secondi: “siete dei concorrenti sleali, ci rovinate la vita perché accettate di farvi pagare di meno, di lavorare di più, ci rubate il lavoro, etc. etc.”. Il razzismo istituzionale, proprio così: istituzionale, di stato, propagandato 24 ore su 24 dal parlamento, dal governo e dai suoi ministri, dalle forze politiche borghesi, dagli apparati amministrativi dello stato, dal sistema dei mass media, con la volonterosa collaborazione di una quantità di ‘intellettuali’ organici al capitale, serve a legittimare e acutizzare tutti gli aspetti di questo processo: la gerarchia ‘razziale’ e nazionale tra lavoratori (che è una specializzazione delle imprese), la competizione tra loro, l’odio razziale e nazionale.

E se da un lato questo insieme di meccanismi fa dei proletari immigrati/e il capro espiatorio delle difficoltà e degli arretramenti che la crisi e la gestione capitalistica di essa impongono ai proletari autoctoni,  dall’altro scarica sui lavoratori autoctoni la responsabilità delle misure discriminatorie e repressive contro i lavoratori e le popolazioni immigrate. “Sono loro, le masse dei cittadini comuni che le pretendono; noi governo, noi “politici”, cerchiamo di moderarli, ma loro non ne vogliono sapere, vi vorrebbero tutti morti ammazzati”… Antica ma sempre efficace metodica per consentire alle autorità statali di porsi anche in questo caso come super partes, imparziali protettori di tutti. Perché lo stato capitalistico, mentre opprime in un modo differenziale i lavoratori immigrati, non cessa, però, anche per ragioni di politica internazionale, di presentarsi come il soggetto disposto, sia pur con pesanti “sacrifici”, a tutelare i “meritevoli” di considerazione – vedi la politica della Merkel nei confronti dei rifugiati siriani, o quella dei vari Letta, Renzi, Gentiloni & Co. nei confronti degli emigranti dall’Africa salvati in mare – salvo le decine di migliaia inabissati nel Mediterraneo, a cominciare da quelli della Kater-I-Rades ai tempi del governo Prodi, o consegnati alle torture e alla morte in Africa dagli accordi Minniti-Serraj, sulla scia dell’intesa-pilota Berlusconi-Gheddafi.

Il meccanismo, un meccanismo tanto brutale quanto complicato e sofisticato, come massimamente complessa e mistificata è questa società, funziona a dovere fin quando i lavoratori e le lavoratrici immigrate da un lato, e quelli autoctoni dall’altro, stanno al gioco. Si inceppa, e come se si inceppa!, quando invece nasce l’opposizione e la lotta contro le discriminazioni e l’innaturale divisione della classe lavoratrice lungo linee nazional-‘razziali’. C’è bisogno di esempi? Bastino, per l’Italia, l’esperienza di auto-organizzazione e organizzazione dei lavoratori immigrati della logistica (e non solo) che fa capo al SI-Cobas, o le ripetute rivolte bracciantili nelle campagne del centro-sud, o la miriade di proteste nei centri di detenzione (che di recente alcuni compagni libertari hanno deciso di censire, un’ottima idea!). Queste lotte – poiché è esclusivamente la lotta di classe degli sfruttati che può impedire alla suddetta macchina di macinare ossa, vite, speranze – danno voce e forza ai lavoratori/lavoratrici immigrati. E servono ad aprire gli occhi ai più sani tra i lavoratori autoctoni, a trasmettere loro, oggi per lo più passivi e sfiduciati, un po’ di fiducia nella difesa attiva delle proprie condizioni di lavoro e della propria dignità. Allargando lo sguardo al vasto mondo, si può ricordare il gigantesco sciopero degli immigrati del 1° maggio 2006 negli Stati Uniti contro la persecuzione e l’espulsione degli undocumented, il primo sciopero ‘internazionale’ (fatto in tutti gli stati dell’Unione) della storia statunitense, o la miriade di micro, e non sempre micro, scioperi dei mingong cinesi…

E potremmo andare molto indietro nella storia del movimento operaio per mostrare come i proletari immigrati, fronteggiando spesso sanguinarie aggressioni, abbiano dato magnifiche prove della loro capacità e volontà di non piegarsi al giogo schiavistico del capitale, ponendosi all’avanguardia dell’intero movimento di classe – a cominciare dalla lotta internazionale per le 8 ore che partì a Chicago nel 1886 proprio da alcune decine di migliaia di proletari immigrati dall’Europa. Questo non perché la loro costituzione antropologica sia differente da quella degli altri proletari, ma per uno stato di necessità: perché non possono sopportare il peso di uno sfruttamento, di una umiliazione, di una violenza estremi, proprio loro che si sono mossi dai paesi di nascita per migliorare la propria condizione, per un bisogno di riscatto individuale, sociale, nazionale. Già in passato, e tanto più oggi, quando la composizione della classe lavoratrice è in un numero crescente di paesi sempre più multinazionale e ‘multirazziale’, le lotte dei proletari immigrati sono un fattore di cruciale importanza per la rinascita del movimento di classe. Tanto più lo saranno in futuro. Ecco perché la solidarietà incondizionata verso di loro, e la denuncia puntuale, tagliente, sistematica delle forze economiche e politiche che li schiacciano e li bersagliano, è un discrimine di classe fondamentale – il discrimine che sovranisti e nazionalisti di sinistra, invece, cancellano o coprono, non a caso, di fumi e polveri nocive.

Per questa stessa ragione la denuncia del razzismo istituzionale è un compito permanente e di primo piano di ogni forza organizzata, e di ogni autentico/a militante, di classe. Non è affatto fuori luogo mettere in luce, come ha fatto di recente il “Cuneo rosso“, quanta complicità ci sia stata in questi anni, quanta complicità ci sia tuttora, a sinistra nei confronti di un partito, come i 5S, che si è posto in prima fila contro lo jus soli e contro i lavoratori immigrati. Un partito, e non un movimento come usano dire i corrivi fotografi dello stesso, la cui impostazione ideologico-politica (è quella che decide tutto nei partiti politici) ha una chiara matrice nazionalista e razzistoide fin dall’inizio. E, data la regnante confusione, può essere utile fare un altro paio di precisazioni di ordine storico-teorico.

Da dove nasce il razzismo borghese-capitalistico in quanto dottrina della disuguaglianza naturale delle razze, per usare la formula di Gobineau, e insieme di prassi discriminatorie-inferiorizzanti degli stati nei confronti dei lavoratori immigrati? Nasce dall’oppressione di ‘razza’, dal processo storico del colonialismo europeo, dalla dominazione, dal soggiogamento e dallo sfruttamento delle popolazioni ‘di colore’ delle Americhe, dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Asia, da parte degli accaparratori di terre e sfruttatori coloniali europei, e degli stati europei sì, anche qui c’entrano, e quanto, gli stati, e alcuni di essi non ancora capitalistici. Il razzismo dottrinale e istituzionale è l’espressione ideale, ideologica, “razionale”, amministrativa di un rapporto sociale, materiale fatto di oppressione e di torchiatura a sangue delle capacità di lavoro e dell’esistenza delle masse “di colore”.

Se si vuole restare sul terreno del materialismo storico, le cose stanno in questo modo: dalla data-simbolo 1492, si sono incessantemente alimentati a vicenda il razzismo inerente al processo diseguale e combinato di formazione del mercato mondiale che ha visto il comando della ‘ariana’ classe mercantile e capitalistica sui ‘popoli di pelle nera, rossa, gialla, bruna’; il razzismo dottrinale di esploratori, teologi, filosofi, giuristi, antropologi, scrittori, giornalisti e chi più ne ha più ne metta; e il razzismo istituzionale degli apparati statuali ed ecclesiastici. Queste diverse forme del razzismo europeo si sono alimentate e sostenute a vicenda fino a quando, davanti alle formidabili sollevazioni popolari cinesi, indiane, algerine, etc., e in vista di nuove, spietate guerre coloniali, non si è posta la necessità di far assorbire a una massa sempre più ampia della popolazione europea il sentimento di superiorità razziale e di inconciliabile ostilità nei confronti delle popolazioni colonizzate, con tutti i relativi ‘colti’ pregiudizi e mostruose fandonie. Allora, dagli anni ’80 dell’800, è stato messo in piedi l’infame baraccone degli ‘zoo umani’ che ha coinvolto in Europa in mezzo secolo 400 milioni di visitatori delle metropoli e delle grandi città, diffondendo a letterati e illetterati il sentimento di superiorità, di disprezzo, di inimicizia verso i colonizzati, che tanto utile è stato, insieme a tutto il resto dell’armamentario della cultura borghese, per depotenziare l’opposizione dei lavoratori europei alla guerre coloniali, o addirittura per carpire la loro adesione ad esse.

Non vogliamo farla lunga. Ci basta questo rapido richiamo storico per ricordare un’altra semplice verità oggi semi-smarrita: a generare il razzismo anti-immigrati e le politiche discriminatorie e oppressive contro di loro non è l’indistinta “gente comune” o la “massa dei cittadini della metropoli imperialista” – come in certe sgangherate ‘teorie’ molto esposte a destra, a stare alle quali sarebbe la classe dominata, o le classi dominate, a forgiare l’ideologia e dettare la politica della classe dominante! È la disuguaglianza strutturale del mercato mondiale tra paesi dominanti e paesi dominati, che si è costituita attraverso il colonialismo storico e il neo-colonialismo; è la sistematica azione degli stati imperialisti a difesa di essa, la loro metodica azione contro i lavoratori immigrati (non, però, contro l’immigrazione!); è l’industria dei mass media e della riproduzione dell’ideologia dominante pregna da secoli di sciovinismo e di razzismo, vera e propria cinghia di trasmissione degli imperativi del mercato e delle deliberazioni degli stati; sono queste le forze motrici e, insieme, le fonti del propellente di continuo fornito alla marcia della macchina anti-immigrati. Una macchina che agisce contro l’intero proletariato, perché la sorte dei proletari autoctoni e di quelli immigrati è indivisibile: ciò che si sperimenta con successo sugli immigrati, puntualmente dopo non molto coinvolge gli autoctoni. È il caso negli ultimi anni del lavoro interamente gratuito previsto per i richiedenti asilo da circolari a firma Alfano e Minniti, affinché dimostrino di essere degni della ‘nostra accoglienza’, che in poco tempo sta rapidamente allargandosi a macchia d’olio agli studenti autoctoni con gli stage e i tirocini curricolari (e non).

Se si vuole andare davvero alle cause di fondo del processo di discriminazione, inferiorizzazione e supersfuttamento dei lavoratori e delle lavoratrici immigrati, alle fonti del razzismo, anche di quello popolare, è a tutto questo che bisogna risalire. E la risposta può essere una sola: la lotta materiale, fisica, sindacale, politica, ideologica (ci mancherebbe: anche ideologica!); una lotta implacabile a tutta la complessa e articolata macchina di sfruttamento, di asservimento, di violenza e di menzogne di cui sopra, e al ‘sistema delle macchine’ del capitale globale di cui è parte. Una lotta contro la guerra permanente agli emigranti in cui l’Unione Europea e i governi italiani sono impegnati da decenni, per la parità di fatto totale e incondizionata tra proletari autoctoni e immigrati, per la loro unità, per la loro riscossa comune. Questa lotta, evidentemente, non può fare sconti né ai pregiudizi né ai comportamenti razzistoidi presenti tra i lavoratori autoctoni, ma con la capacità di discutere con loro, a fondo, delle ragioni materiali e delle paure che li spingono ad avere un orientamento ostile ai proletari immigrati, senza nessuna forma di moralismo intellettualistico, puntando a convincerli che la contrapposizione nuoce a tutti, e che l’unità è un vantaggio per tutti, lavoratori autoctoni e immigrati.

Qui ci sta una precisazione per noi importante: non esiste oggi nel mondo, e quindi in Italia, un solo capitalista singolo, in quanto funzionario del capitale, un solo governo, che rispetti realmente il principio della completa parità di trattamento tra lavoratori autoctoni e immigrati, e rinunci ad usare la leva dell’ostilità nazional-razziale per tenere divisa la massa dei proletari. C’è un unico ambito sociale, di classe, in cui ai proletari e alle proletarie immigrati è possibile trovare una qualche forma di aiuto, di solidarietà, di sostegno: è tra i propri compagni/e di classe autoctoni. Si potrà dire che questa trama di aiuto, di solidarietà, di sostegno in Italia e altrove (con tutte le differenze del caso) è ancora debole, contraddittoria, troppo limitata ai rapporti privati e personali, e che solo in via di rarissima eccezione troviamo tra i lavoratori italiani una vera coscienza di classe internazionalista: è così. Ma se si occulta o rimuove tutto ciò, ci si pone alla coda della rappresentazione di stato che, rovesciando la realtà dei fatti, attribuisce alle imprese e alle istituzioni del capitale una qualche forma di comprensione e di rispetto per immigrati, profughi e richiedenti asilo, che mancherebbe invece del tutto alla bestiale “gente comune”, specie se operaia …

Dove va portata la battaglia politica di cui abbiamo detto – a iniziare dal rivendicare l’abolizione di tutta la legislazione speciale contro i proletari immigrati, dalla Turco-Napolitano e dalla Bossi-Fini ad oggi, e la chiusura di tutti i centri di detenzione speciale per essi? Anche questo dovrebbe essere elementare: nella massa dei lavoratori, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle associazioni, nei quartieri, ovunque. Sul presupposto che tale massa di lavoratori e giovani sia pura e incontaminata? Sarebbe da dementi. Abbiamo una certa qual dimestichezza con i lavoratori in carne e ossa, e ci è chiarissimo che il sentimento di ostilità contro gli immigrati, che la pancia (l’istinto di classe) e il cervello collettivo del binomio capitale-stato stanno diffondendo senza sosta e aggressivamente nella “massa popolare”, si sta negli ultimi anni estendendo in essa, che il razzismo sta prendendo piede a livello operaio e popolare. Non potrebbe essere diversamente. Se la massa dei lavoratori italiani è ferma perché impaurita e sfiduciata, e al momento lo è ancora, questa situazione paludosa è terreno fertile per i nostri nemici di classe, le loro strategie, le loro manovre, i loro veleni, incluso il razzismo contro gli immigrati e la sua prima forma, l’islamofobia. La ripresa in grande della lotta anti-capitalista creerà condizioni molto più favorevoli per la nostra azione, senza poter essere, di per sé, risolutiva. Ma la bassa conflittualità attuale non è una buona ragione per rinviare a domani o al giorno di mai, quello che deve essere fatto oggi per contrastare l’offensiva spezza-proletariato in corso, e per favorire la rigenerazione di un sentimento, di una solidarietà, di una organizzazione di classe internazionalista. Più la crisi del sistema sociale del capitale e della ‘civiltà del capitale’ si incancrenisce, al di là di questa o quella ripresa del PIL dell’1 o 2%, più il tracciato del nazionalismo borghese o piccolo-borghese (comunque declinato, da destra o da sinistra) e dell’internazionalismo proletario vanno in rotta di collisione.

A ognuno la sua collocazione!

Comments

Search Reset
0
Mario Galati
Monday, 31 July 2017 23:39
Il socialismo reale ha garantito la pacifica convivenza tra i popoli e le etnie. I conflitti sono sorti dopo la sua crisi e per cause e interessi, anche esterni, rispetto ai quali l'etnia è stata soltanto la manifestazione esteriore. Lo stesso si potrebbe dire per i conflitti etnici degli anni passati in Africa.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Rabi
Monday, 31 July 2017 20:49
Per Riccardo: infatti il cosiddetto "socialismo reale" non era poi così "reale"... Credo che i compagni Milani e Basso facciano riferimento, nel loro articolo, a Lenin...
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Mario Galati
Friday, 28 July 2017 22:56
A me sembra che dalla cripta della storia stia sorgendo un nuovo razzismo, camuffato da etnicismo o differenzialismo culturale.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Riccardo
Friday, 28 July 2017 18:38
Ma questi li hanno riesumati dalla cripta? Ma non gli basta vedere cosa è successo in Cecenia o in ex Jugoslavia per caprie che nemmeno il socialismo reale ha cambiato qualcosa riguardo alle diverse etnie? Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit