Print Friendly, PDF & Email

marx xxi

Non c'è più tempo per le incertezze

di Alessandro Pascale

Pubblichiamo un contributo di Alessandro Pascale sull'unità dei comunisti

gramsci ales proc relief mapRecentemente si è assistito ad un breve ma intenso dibattito a distanza sulla questione dell'unità dei comunisti. Avviato da Norberto Natali, è stato portato avanti teoreticamente da Eros Barone, suscitando una controproposta molto pragmatica di Burgio, Sidoli e Leoni. Le proposte operative di questi ultimi non sembrano per ora essere state seriamente prese in considerazione dalle organizzazioni esistenti, almeno non apparentemente... Natali e Barone hanno posto una serie di paletti sul cerchio in cui si dovrebbero includere i comunisti effettivamente tali, ma per chi sa leggere i bizantinismi della politica, nonostante l'apparente apertura, anche le proposte operative di Sidoli e compagni tendono nei fatti a chiudere entro un adeguato perimetro le forze di cui si auspica un'unità d'azione.

Non ho mai amato molto i sotterfugi, e preferisco i discorsi chiari ed espliciti. Nell'opera In difesa del socialismo reale(poi diventata nella II edizione Storia del Comunismo) ho svolto un'analisi abbastanza chiara e netta sui pregi e sui difetti della storia del movimento comunista italiano; pur essendo partito da una posizione scevra da pregiudizi, in molti casi mi sono trovato, studiando, a rimodulare in maniera consistente certi giudizi storici e politici pre-esistenti. Quel che ho capito, e che viene ben espresso dal tenore degli interventi citati, è che abbiamo un patrimonio enorme alle spalle, che dobbiamo saper utilizzare criticamente per comprendere fino in fondo gli errori che abbiamo commesso tutti nel passato, al fine di ricostruire un'organizzazione con fondamenta più solide.

Abbiamo una serie di principi e insegnamenti a cui non vogliamo e non possiamo rinunciare. Definire i parametri di questi principi aiuta a tracciare anche i parametri concreti della possibile unità tra le forze comuniste tuttora esistenti. Sul fatto che si debba ripartire dalle lezioni di Marx, Engels, Lenin e Gramsci mi sembra indispensabile, così come è necessario aver maturato un approccio dialettico e problematizzante (e ciononostante di appoggio, non certo appiattito sulle condanne borghesi) riguardo alle esperienze storiche dell'URSS (in particolar modo quella “staliniana”) e della Cina (alludo sia all'epoca maoista che a quella successiva). L'analisi storica non è un feticcio fine a se stesso, perché nella nostra storia passata ritroviamo pratiche e principi che da alcune organizzazioni sono rigettate più o meno totalmente, da altri accolte e ritenute tuttora più o meno ripraticabili.

Il passato è importante ma un marxista sa che esso è utile solo in funzione del presente e dell'organizzazione delle mosse future. È fin troppo nota la situazione attuale di diaspora del movimento comunista italiano, ridotto ai minimi termini e frammentato in svariate organizzazioni che si richiamano a fasi diverse della storia novecentesca, riapplicando in maniera più o meno schematica e dogmatica formule in alcuni casi vecchie e superate, senza tener conto dell'insegnamento essenziale della filosofia marxiana: occorre l'analisi concreta e dialettica della realtà. La teoria, non verificata nella prassi, è fine a se stessa. La prassi storica ha mostrato alcune conseguenze che alcuni non vogliono ancora vedere. La prassi attuale evidenzia alcune tendenze oggettive che ancora troppi trascurano.

Noi ci troviamo in una situazione molto difficile: in Italia siamo rimasti in poche migliaia a ragionare e lottare per il comunismo. I milioni di elettori comunisti di una volta non ci sono più, e l'avvento di un totalitarismo “liberale” rende molto più difficile raggiungere una classe lavoratrice sempre più frammentata e dispersa, oltre che sussunta ideologicamente dal paradigma borghese. Per condurre efficacemente una lotta per l'egemonia ci serve un partito leninista di cui al momento vediamo solo i germi, con una divisione di energie sparse tra diverse organizzazioni. Per costruire un partito comunista occorrono un'analisi, un programma, una base sociale ampia, ma, soprattutto in questa fase, oserei dire che serve ancor più di una volta un'unità d'intenti tra dei “capitani”, dei quadri, dei leader, coloro cioè che hanno una consapevolezza maggiore delle problematiche e delle necessità, oltre che delle modalità con cui operare concretamente nella realtà sociale. Non abbiamo un Lenin, non abbiamo un Gramsci. Abbiamo però ancora molti bravi compagni sparsi sui territori, e spesso rimasti inattivi.

Guardando alle organizzazioni esistenti, assieme ad altri compagni ho già espresso apprezzamento per i progressi compiuti dal Partito Comunista guidato da Marco Rizzo. Tale organizzazione ha recentemente svolto telematicamente il proprio terzo congresso, riorganizzandosi dopo la scissione subita dal Fronte della Gioventù Comunista. Questo congresso, così come la tattica tenuta alle ultime elezioni regionali (alludo in particolar modo alla lista comunista delle Marche) hanno confermato i passi in avanti del PC, che ha superato formalmente la discriminante anti-cinese, aprendo alla necessità di maturare un atteggiamento più aperto e di maggiore analisi sul ruolo svolto dalla Cina nel mondo, sulla via cinese al socialismo e sul socialismo di mercato. Ne è derivata dal punto di vista analitico e della proposta politica anche una maggiore attenzione per i ceti medi in via di proletarizzazione, rimodulando la propria proposta programmatica nella ricerca di un'alleanza sociale tra questi e il proletariato contro lo strapotere delle multinazionali, ormai capaci di zittire tra il plauso generale perfino il presidente degli USA. Chi ha letto il documento congressuale può constatare quanto esso sia il più avanzato al momento in circolazione in Italia.

Nel PC c'è consapevolezza dei propri pregi, ma anche dei propri limiti: non siamo al punto di approdo, ma ad un'ottima base di partenza per costruire il partito di avanguardia della classe lavoratrice. Non si dispone infatti né della massa critica sufficiente, né di una formazione di base rigorosa, per quanto si stia cercando di lavorare su entrambe le questioni. Anche l'apertura alla Cina, per quanto corroborata da ulteriori fatti notevoli (vd a tal riguardo la recensione del libro di Xi Jinping fatta da Marco Rizzo) deve essere consolidata e interiorizzata dal corpo del partito.

Il fatto che il PC abbia mostrato grande duttilità tattica e abbia maturato un approccio più dialettico e non dogmatico della realtà ha ridotto significativamente le differenze teoriche che lo differenziavano dall'analisi svolta dal PCI guidato da Mauro Alboresi. Il grande punto di forza del PCI è stata l'analisi internazionale, che poteva sfruttare le elaborazioni del compianto Domenico Losurdo; il PCI può vantare inoltre una serie di giovani e validi quadri tuttora attivi anche in altri settori, andando a coprire zone e territori in cui il PC è più debole. Il grande problema del PCI è la mancata analisi critica dell'esperienza togliattiana e berlingueriana, oltre che il non essere riusciti nei fatti a superare gli stessi errori del PRC: porre la questione dell'unità “della sinistra” come prevalente rispetto al rafforzamento del partito e mancare quindi l'appuntamento, a seguito della Costituente dei comunisti, nel fungere da avanguardia di un movimento che aveva mobilitato 10 mila compagni. Un errore decisivo che ha anche pregiudicato fino ad ora la possibilità di svolgere un ruolo attivo nel processo di riunificazione dei comunisti.

Perché PC e PCI sono divisi? Per la gran parte dei lavoratori italiani la questione non esiste perché è giudicata irrilevante. Per quella piccola parte che si interessa alle questioni di quella che è ancora chiamata “la sinistra radicale” rimane un mistero insoluto che viene accompagnato con alzate di spalle o sberleffi. Forse ora che il PC ha superato il suo principale limite politico, ossia l'analisi sulle questioni internazionali, è venuta meno una delle ragioni che impedivano la costruzione di un'unità d'azione politica. Cosa aspettano allora i compagni del PCI a comprendere che non possiamo più perdere tempo in indistinte e inconcludenti unità della sinistra e che occorre seguire la strada seguita nelle Marche, che ha dimostrato la possibilità di costruire un'unità pratica dal basso che funga da base di partenza per potenziare il radicamento territoriale, permettendo effettivamente di far crescere un'opzione comunista, e con essa un partito?

Non che si debba appiattire il tutto ad un discorso meramente elettoralistico, per carità, ma nel contesto attuale di crisi, è pensabile che continui ad esserci una tale contrapposizione e pluralità comunista politica e organizzativa, che sfocia poi in strategie e tattiche diverse, eppur tutte più o meno inadeguate alle necessità, data la scarsa potenza di fuoco delle varie singolarità? In politica 2+2 non fa necessariamente 4, è vero, ma ciò accade quando si svolgono operazioni politiciste prive di un effettivo retroterra teoretico e pratico comune. È davvero così impossibile e inaccettabile pensare ad un cambio di ritmo, ad un tentativo di costruire un'unità d'azione sulla base delle proposte fatte da Sidoli e compagni, per verificare sul campo se le differenze politiche siano così insormontabili?

Tra poco meno di 6 mesi si svolgerà una tornata elettorale in alcuni dei principali comuni italiani. I comunisti usano le elezioni come un mezzo, non come un fine, per cui non hanno interesse a portare avanti ammucchiate che ne indeboliscano e annacquino le proposte politiche. Possiamo però cercare di verificare se non ci siano le condizioni di un accordo fondato sui contenuti da proporre ad un popolo esausto e sconvolto dalle molteplici conseguenze (in primis economiche) della crisi pandemica? Dall'unità d'azione tra PC e PCI può nascere un fronte politico capace di attirare le frammentate energie comuniste sparse in altre residuali organizzazioni, di carattere locale o nazionale. Occorre dare un segnale forte in tal senso. Occorre osare. Il PC, accusato spesso di settarismo, ci ha provato con il progetto della lista comunista delle Marche, non senza diffidenze e ostilità provenienti da altre forze. Eppure il progetto ha mostrato le sue potenzialità.

Guardo con speranza a quanto accade nella mia città, Milano, come ad un possibile laboratorio in cui costruire un simile modello che funga da riferimento per i compagni di tutta Italia. Qui si sta cercando, con grande fatica, di far dialogare le forze sane del movimento comunista per far fronte alla violenza politica delle forze borghesi, siano esse di “centro-destra” o di “centro-sinistra”. Molte sono ancora le resistenze e le incertezze, ma è indubbio che questa sia la strada da seguire. Chi intenda perpetuare le divisioni per una questione di simbolo, per mai sopiti rancori personali o per non mettere a rischio il proprio personale minimale orticello non rende un contributo utile alla causa dei lavoratori e dovrebbe fare un severo esame autocritico sul fallimento di ogni alternativa ambigua praticata fino ad ora. Spero che questi ragionamenti suscitino domande e dubbi non solo tra i dirigenti, ma anche tra i compagni di base, quei pochi militanti rimasti che hanno ancora il diritto e il dovere di far sentire la propria voce per invocare un processo sempre più razionale e necessario.

Il contesto di crisi in cui sta precipitando l'intero Occidente impone uno scatto in avanti di alcuni comunisti, che invece sembrano attardarsi nell'analisi e nei politicismi. Tutto ciò non è più tollerabile. Cosa succederà quando finiranno i sussidi governativi e le conseguenze del crollo dell'economia si faranno sentire in tutto il loro livore? Quando migliaia di attività commerciali saranno chiuse, con migliaia di lavoratori rimasti senza lavoro? Quando i padroni chiederanno al paese di fare sacrifici... I comunisti saranno in grado di unire le forze per costruire un'alternativa credibile con cui contrastare sia l'ascesa delle destre razziste e populiste (Salvini e Meloni) che la retorica vacuità e i miseri palliativi proposti dalle attuali forze di governo? O forse c'è ancora qualcuno che pensa di attardarsi ottenendo un paio di insignificanti poltroncine sedendosi al tavolo del futuro centro-sinistra?

A 30 anni dalla fine del PCI dobbiamo prendere consapevolezza degli errori fatti fino ad ora e comprendere che si rischia di perdere l'ultimo treno utile per il riscatto di un popolo che non ci capisce e che non percepisce più la nostra utilità. Saremo capaci di dargli una speranza e un progetto credibile per risolvere gli enormi problemi che dovremo affrontare? La domanda è posta anzitutto ai gruppi dirigenti delle organizzazioni comuniste sopra menzionate ma tutti coloro che condividono quanto scritto sopra sono chiamati ad interrogarsi e a dare una risposta. Personalmente ho imparato che un partito è un mezzo, e non il fine. Oggi l'obiettivo è costruire l'avanguardia rivoluzionaria dei lavoratori. La prassi e le scelte personali seguiranno il percorso di chi porta avanti questo progetto con credibilità e coerenza. L'inazione e le mancate risposte sono invece chiare scelte politiche che sono state spesso praticate ma che ormai è giusto siano considerate negativamente, come un lusso che non ci si può più permettere.

Comments

Search Reset
0
Paolo Selmi
Monday, 14 December 2020 07:48
Caro Carlo,
infatti ho commentato sul primo intervento. Senza alcuna tema di teorizzare, o contrapporre, forse non è apparso chiaro, e me ne scuso, che oggi quello che per me era di rottura, per loro è vecchio, desueto o, come lo chiama chi li imbocca con le parole da usare, "vintage". E se sono "vintage" li Area (ho nominato anche loro, se vogliamo dirli tutti), se anche quello che mezzo secolo fa era chiamato "progressive rock" è visto come potevo vedere io alla loro età Papaveri e papere, non è indubbiamente cavalcando i gusti di oggi che può nascere un inno dei lavoratori.
Ma anche una questione "banale" come un inno dei lavoratori, che banale lo è solo per chi la considera tale, ci parla di un altro elemento, che mi scuso ancora se non è stato sottolineato abbastanza. Bandiera Rossa nasce dai lavoratori stessi. Quel "la trionferà" non è un arcaismo, ma un significato dialettale di un termine usato dalla "leggera", da quegli stagionali che di quella canzone (prima ancora che diventasse inno) hanno strutturato testo e strofe, tonalità, tipo di scansione ritmica incitativa, mutuandolo da quello che ascoltavano e rielaboravano, come Sanga ha minuziosamente ricostruito. In maniera collettiva, probabilmente tra un bicchiere e l'altro, nei pochi momenti di riposo, fino a che usciva qualcosa che "suonava bene" a tutti e che tutti cantavano. Su questa base, enfatizzando alcune tematiche forti e riportandole su altri temi altrettanto forti, si è costruito l'inno dei lavoratori. "Bella ciao" è passata anch'essa dalle mondine ai partigiani, in maniera del tutto naturale. E che dire di "Fischia il vento", visto che Katjusa è una canzone d'amore e di lontananza. Ma allora funzionava così, quando la gente si guardava ancora in faccia, e non su un telefonino, quando le serate d'inverno passavano - per tutti, "congiunti" e non - nel posto più caldo della casa, che era di solito la stalla, e il "batja" nostrano attaccava col rosario e i più giovani con qualcos'altro. Qualcuno parlava di diamanti e letame. E aveva ragione. Grazie per avermelo fatto ricordare a questo punto. Buona giornata.

Paolo Selmi
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
carlo rao
Monday, 14 December 2020 03:17
In relazione all’articolo di Pascale, le osservazioni di Rontini e Selmi francamente non mi sembrano del tutto pertinenti: far derivare l’inadeguatezza di “Bandiera rossa”, indubbia, dall’attuale rigurgito musicale giovanile basato su campionamenti casuali di brani spesso già campionati in origine, cui contrapporre ingenuamente (come fa il Selmi) Led Zeppelin o Pink Floyd, conduce ad un vicolo cieco, dal momento che oggi campionano pure quest’ultimi senza sapere chi sono stati musicalmente parlando; quanto ai gusti musicali di Berlusconi, basti citare Mariano Apicella, al cui cospetto un Carlo Buti e un Natalino Otto parrebbero Caruso e Pavarotti!
Se non va bene “Bandiera rossa”, si potrebbe proporre Aristide Bruant, con il suo formidabile “le chant des canuts”:
Nous tisserons le linceul du vieux monde
Car on entend déjà la révolte qui gronde

C'est nous les canuts,
Nous n'irons plus nus...
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Sunday, 13 December 2020 19:43
Alessandro Pascale, riferendosi agli interventi di Norberto Natali e di Eros Barone sul tema dell'unità dei comunisti, parla di "una serie di paletti sul cerchio in cui si dovrebbero includere i comunisti effettivamente tali". Per quanto concerne la mia posizione, ritengo di dover ribadire che l'unica discriminante è la questione fondamentale della lotta contro il revisionismo e della definizione del 'terminus a quo' di codesta degenerazione. Faccio, a tale proposito, un esempio concreto. Nel "Programma politico" del Fronte Comunista, raggruppamento che si è recentemente staccato dal Partito Comunista, vi è un passo che compare nel capitolo sul capitalismo italiano, dove è dato leggere quanto segue: “Nel 1984, un referendum voluto dai padroni, sponsorizzato dal governo guidato dal socialista Craxi, mal gestito da una CGIL egemonizzata da un PCI ormai avviato sulla strada del revisionismo e dell’autodissoluzione, cancellava la scala mobile”. In sostanza, il presupposto del giudizio
storico-politico che qui viene formulato sembra essere quello secondo cui il revisionismo sarebbe cominciato nel periodo della direzione di Berlinguer, mentre il periodo precedente (1945-1970) sarebbe stato un periodo immune dal virus revisionista. In realtà, un’analisi storica non superficiale basta a dimostrarci che la degenerazione revisionista risale perlomeno al 1945, ossia alla gestione semi-opportunista della “svolta di Salerno”, laddove la ‘svolta’ fu una scelta giusta e l’errore di Togliatti, all’inizio minima deviazione angolare destinata a diventare poi sempre più ampia nei cinque lustri successivi, fu quello di trasformare una scelta tattica in una prospettiva strategica. Perché questo processo involutivo è potuto avvenire? Ebbene, per rispondere a questa cruciale domanda occorre ribadire che la trasformazione del Pci in “partito operaio borghese” (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin), prima della sua finale liquidazione ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo di dirigenti revisionisti (quasi che il Pci fosse un ‘corpo sano’ con una ‘testa malata’). Questi dirigenti infatti erano l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia, degli intellettuali borghesi e
piccolo-borghesi. «Oggi – scrive Lenin già nel 1916 – il “partito operaio borghese” è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti… Nella lotta fra queste due tendenze – continua Lenin riferendosi alla lotta fra il revisionismo di cui è portatore il “partito operaio borghese” e il marxismo rivoluzionario di cui sono portatori i comunisti – si svolgerà ora inevitabilmente la storia del movimento operaio, poiché la prima tendenza non è casuale, ma economicamente determinata». Le oscillazioni tra il termine-concetto di ‘ricostruzione del partito comunista’ e il termine-concetto di ‘costruzione del partito comunista’, rilevabili nel documento del Fronte Comunista qui citato - documento che contiene anche alcuni aspetti pregevoli -, sono quindi la spia di un’incertezza ideologica e di un’ambiguità politica che possono portare, se non vengono corrette, ad una degenerazione di carattere neorevisionista. E' significativo in tal senso un articolo di Alessandro Mustillo del settembre scorso, pubblicato dalla rivista online «L’Ordine Nuovo» e intitolato "Dopo le elezioni: superare l’irrilevanza con una vera costituente comunista". Orbene, l'articolo si segnala per un approccio realistico all’analisi della situazione attuale delle forze comuniste, ma in esso vi è un punto piuttosto ambiguo là dove si afferma "la necessità di una revisione generale, di una condivisione strategica di fondo da costruire". Se questa tesi riguarda la tattica è corretta; se invece, visto che concerne la strategia, costituisce la premessa maggiore di un sillogismo da cui discende come conclusione una svolta in senso antileninista, allora essa è semplicemente inaccettabile. Incidentalmente, osservo che, se nella vittoria del 'sì' al recente referendum vi è un aspetto positivo, esso è la definitiva eliminazione di due tare, frutto dell'opportunismo socialdemocratico, che hanno storicamente condizionato la maggior parte della sinistra comunista: il cretinismo parlamentare e l'elettoralismo 'a prescindere'. Naturalmente non si tratta di negare l’importanza che assume, in una situazione non rivoluzionaria, la conquista del diritto di tribuna, ma di chiarire che è dall'area dell'astensione, che rappresenta più o meno la metà del corpo elettorale e dove si trovano i soggetti attualmente o potenzialmente antagonisti, che occorre ripartire nella costruzione (sia ben chiaro, non 'ricostruzione') del partito comunista. Sennonché, di fronte ai movimenti più o meno molecolari di disaggregazione e di riaggregazione che caratterizzano il disgregato microcosmo comunista del nostro paese e che si svolgono senza che sia chiarito questo punto fondamentale e fondativo, sorge in me la seguente perplessità. Per esprimerla mi avvalgo di una citazione tratta dalla "Critica della ragion pura" di Kant: "Queste affermazioni sofistiche aprono dunque una lizza dialettica, dove ogni parte, cui sia permesso di dare l'assalto, ha il disopra, e soggiace di sicuro quella, che è costretta a tenersi sulla difensiva... Come giudici di campo imparziali, dobbiamo mettere affatto da parte, se sia la buona o la cattiva causa quella che i combattenti sostengono, e lasciar che essi se la sbrighino prima tra loro. Forse, dopo essersi l'un l'altro più stancati che danneggiati, essi scorgeranno da se stessi la vanità della loro lotta e si separeranno da buoni amici". "Buoni amici" in quanto sostanzialmente accomunati dagli equivoci revisionisti e/o neorevisionisti...
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Paolo Selmi
Sunday, 13 December 2020 14:52
Ciao Fabio, hai pienamente ragione... eppure hai sollevato il coperchio da un vaso di pandora mica da ridere.

Dal punto di vista dell'orecchio di oggi tutto è inascoltabile. Un orecchio formatosi sui format televisivi, sull'autotuning (che quando ho scoperto cos'era mi son partiti gli ultimi due capelli rimasti...), su suoni campionati e preconfezionati dalla A alla Z, su voci standardizzate su falsetti maschili e timbrica femminile altrettanto standardizzata su voci anglofone, cosa potrebbe dire di "compagni avanti il gran partito" o "fischia il vento"... anche intervallata da un "rasvitali jabluny i grusci" in lingua originale? Un bel niente, li guarderebbe come la mucca vede passare il treno...

Ogni tanto mi diverto a mettere in macchina un po' di Pink Floyd o Led Zeppelin, o Jethro Tull, o Dire Straits, o Bruce Springsteen, ma i pezzi più di rottura, per vedere l'effetto che fa sulle giovani leve... risposta: metti baby-k e gabbani (in attesa più avanti di sentirmi dire fedex, sferaebbasta e i loro succedanei).

Si raccoglie quel che si semina... o quel che han seminato gli altri, e di fronte a cui i nostri han deciso di restare nella loro bella nicchia.

Torniamo alla nostra povera Bandiera Rossa, vituperata anche dal buon Pintor nel suo intervento contro il decretone democristiano, giusto per non parlare del sesso degli angeli, o prima di parlare anche di quello. Un pezzo semplice, popolare fino al midollo, la parte che san tutti son quattro note in croce e due accordi... gli Area nella loro versione de l'Internazionale (superata anche quella,per l'orecchio massificato di oggi) le dedicano tre secondi prima del finale "pirotecnico" di quel piccolo capolavoro. Eppure le bande popolari di inizio Novecento si trovavano bene a impararla e a suonarla. Eppure i lavoratori la sentivano "cosa loro", allora: la cantavano, la fischiavano, la improvvisavano. In un'epoca dove era più importante il pezzo di chi lo aveva fatto, la canzone stessa rispetto all'autore, che poteva anche restare un perfetto sconosciuto.

Forse è proprio da lì, da quell'humus, che dovrebbe nascere un inno dei lavoratori. Lascio all'attenzione dei compagni e di chiunque fosse interessato un po' di bibliografia, che va anche oltre la versione di Leydi. E' inutile che riporto il lavoro di Glauco Sanga su questo pezzo, è tutto qui (visto che il lavoro originale è irreperibile sulla rete, riporto alcuni suoi lavori dove si riporta come alcuni etnologi siano giunti (fra cui anche Maria Rita Rosalio), per caso, a recuperarne la versione più antica, andando fino ai minatori trentini emigrati in Bosnia quando sia i primi che la seconda erano ancora austroungarici):
https://iris.unive.it/retrieve/handle/10278/3683105/92818/Sanga%2c%20Le%20metamorfosi%20dei%20canti%20dei%20minatori%20RF71.pdf
https://www.fondazionelevi.it/wp-content/uploads/2017/03/LEYDI-Sanga.pdf
https://www.yumpu.com/it/document/read/16177042/studi-sul-dialetto-trentino-di-stivor-bosnia-studi-umanistici-unimi-

Un popolo musicalmente affascinato da arie e musiche che non erano proprie, ma che fa proprie... esattamente come quando nacquero le partiture bandistiche, ovvero arrangiamenti per coro e banda delle arie più famose dell'opera lirica (riconducibili sempre a quel periodo). Un popolo affamato di musica e che, colpo su colpo, parodia dopo parodia, riduce alle proprie corde, alle proprie note, anche la cosiddetta "musica colta". Rielabora e produce. Come il Charleston e il Blues, piuttosto che gli Spirituals, oltreoceano, a opera di irriverenti ex-post-schiavi che bussavano prepotentemente a chi deteneva il monopolio delle note musicali.

In quell'humus nacque, allora, Bandiera Rossa. Un humus ancora più contadino che industriale, un humus pienamente, autenticamente, popolare.un humus dominato da un collettivismo antico, già allora marginale, un humus combattivo e pieno di voglia di riscatto e di lottare per esso, o tutti o nessuno, a qualunque costo, fino alla vittoria.

Forse, prima di parlare di musica e canzoni, o inni, dovremmo tornare a quell'humus, meglio, perché indietro non si torna mai, a ciò che lo aveva reso così fertile, al punto di recuperare dalla "leggera" di allora quello che sarebbe stato il futuro inno dei lavoratori per il secolo successivo. Grazie per le stimolanti osservazioni e

Buona domenica

Paolo Selmi
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Sunday, 13 December 2020 07:36
Il problema più importante e difficile è trovare un inno ufficiale adeguato ai tempi.
Se c'è una cosa che ha detto Berlusconi con la quale si può concordare è che "Avanti popolo" è veramente una delle canzoni più brutte che il '900 ci abbia lasciato in eredità, sia dal punto di vista musicale che del testo: "bandiera rossa la trionferà, bandiera rossa la trionferà"... via su! E' inascoltabile!
Tra tutte le canzoni straordinarie che potremmo utilizzare (es. "l'internazionale", "fischia il vento" ecc.) proprio quella bisogna utilizzare!
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit