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“La lezione del caso Electrolux”

di Guido Viale

Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiu­derla, o di tra­sfe­rirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli ope­rai, o per poter inqui­nare l’ambiente senza tante sto­rie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requi­sire l’azienda (i sin­daci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pub­blico) e impe­dir­gli di por­tar via i mac­chi­nari. Poi biso­gne­rebbe bloc­car­gli i conti e farsi resti­tuire i fondi che, 90 pro­ba­bi­lità su 100, ha già rice­vuto dallo Stato sotto forma di con­tri­buti a fondo per­duto, cre­dito age­vo­lato, sconti fiscali e con­tri­bu­tivi (ma qui dovreb­bero inter­ve­nire anche altre isti­tu­zioni: Governo e magi­stra­tura). A mag­gior ragione que­sto vale se l’imprenditore in que­stione pone delle con­di­zioni inac­cet­ta­bili per “restare”: per esem­pio dimez­zare i salari, come all’Electrolux.

Ma quello che non biso­gne­rebbe asso­lu­ta­mente fare è cer­care un nuovo padrone, che è invece il modo in cui il Governo ita­liano finge di affron­tare le situa­zioni di crisi (sul tema sono aperti al mini­stero dello Svi­luppo eco­no­mico più di 160 “tavoli”). Se ci fosse un “impren­di­tore” o un gruppo dispo­sto a rile­vare l’impresa alle con­di­zioni esi­stenti si sarebbe già fatto avanti per conto suo.

E infatti, le poche aziende ita­liane che vanno ancora bene, soprat­tutto sui mer­cati esteri, tro­vano facil­mente dei com­pra­tori: sono state sven­dute quasi tutte. Ma quelle che non reg­gono più hanno biso­gno di un’altra cura: devono ricon­ver­tire la pro­du­zione e cer­care nuovi sboc­chi, pos­si­bil­mente nei campi che hanno un futuro, per­ché sono quelli nei quali la crisi ambien­tale ren­derà pre­sto indero­ga­bile inve­stire.

Natu­ral­mente una ricon­ver­sione del genere non può gra­vare solo sulle spalle delle mae­stranze abban­do­nate. Devono far­sene carico, accanto a loro, sin­daci e ammi­ni­stra­tori locali, sin­da­cati, uni­ver­sità e cen­tri di ricerca, asso­cia­zioni. Per­ché è pro­prio nel ter­ri­to­rio, o nei ter­ri­tori che sono tea­tro di vicende ana­lo­ghe, che si devono andare a cer­care gli sboc­chi per i nuovi assetti pro­dut­tivi.
Vice­versa, se un nuovo padrone — o impren­di­tore — si fa avanti solo ora, è per­ché si aspetta dallo Stato con­di­zioni di favore — cioè un sacco di soldi — e pos­siamo essere sicuri che lo fa per inta­scar­seli. Un esem­pio illu­mi­nante: i due ban­ca­rot­tieri che si erano fatti avanti per rile­vare l’impianto Fiat di Ter­mini Ime­rese. I risul­tati si vedono: l’impianto è ancora a lì, vuoto, a quat­tro anni da quando si sa per certo che sarebbe stato dismesso; e que­gli aspi­ranti impren­di­tori si sono dis­solti nel nulla; o sono in galera. Un’azienda che “se ne vuole andare” non ha alcun inte­resse a lasciare a un poten­ziale con­cor­rente mar­chio, bre­vetti, mer­cati, o anche solo una mano­do­pera ben adde­strata; e quindi farà di tutto per ren­dere one­roso e non red­di­ti­zio il suben­tro. La Jabil di Cas­sina de’Pecchi fa scuola; li c’era tutto per andare avanti: mano­do­pera com­pe­tente, impianti e pro­dotti di avan­guar­dia, clienti inte­res­sati; ma la pro­prietà non intende favo­rire un poten­ziale con­cor­rente e pre­fe­ri­sce man­dare tutto in malora. Tante le espe­rienze sotto i nostri occhi: Alcoa, Alca­tel, Jabil, Nokia, Lucent, Luc­chini, Maflow, Micron Tech­no­logy, e chi più ne ha più ne metta. Quando il Governo dice che biso­gna attrarre inve­sti­tori esteri, non è certo a impianti come que­sti che pensa. Pensa solo a “fare cassa” ven­dendo quello che fun­ziona ancora o che comun­que rende: auto­strade, fer­ro­vie, poste, Eni, Enel, Terna, ecc.

Le minacce di “andar­sene” o la deci­sione di chiu­dere o ven­dere sono altret­tante mosse di una corsa al ribasso per spre­mere sem­pre di più i lavo­ra­tori: la vicenda Elec­tro­lux inse­gna. Se si accet­tano le regole della glo­ba­liz­za­zione libe­ri­sta, che affida alla con­cor­renza al ribasso l’organizzazione e la distri­bu­zione ter­ri­to­riale e set­to­riale della pro­du­zione, a que­sta logica non c’è scampo. Ma, obiet­tano i cul­tori dell’ortodossia eco­no­mica (che in que­sto ambito acco­muna libe­ri­sti e key­ne­siani), per non sot­to­stare a que­sta logica una strada c’è: pas­sare a pro­du­zioni a più alto valore aggiunto e mag­giori mar­gini: invece di pro­durre uti­li­ta­rie, pro­durre Mase­rati e Jeep, invece di lava­trici e frigo, impianti indu­striali di refri­ge­ra­zione, ecc. Più in gene­rale, pas­sare a pro­du­zioni a mag­gior con­te­nuto di tec­no­lo­gie e di ricerca.

Intanto per i pro­dotti ad alto valore aggiunto biso­gna tro­vare un mer­cato, per lo più già occu­pato da qual­cun altro. Per esem­pio, la Fiat (ora Fca) ha ben poche carte in mano per sot­trarre quote del mer­cato euro­peo di fascia alta a Mer­ce­des, Bmw o Audi. Per que­sto la pro­du­zione auto­mo­bi­li­stica di Fca Ita­lia, e con essa i suoi sta­bi­li­menti, sono in gran parte con­dan­nati a morte. Per addi­tare una via di uscita i teo­rici dell’ortodossia ricor­rono a una vec­chia teo­ria dello svi­luppo degli anni ’60 di Albert Hir­sch­man, detta delle “ani­tre volanti”: le eco­no­mie sono come uno stormo di ana­tre che volano una die­tro l’altra. Mano a mano che quelle di testa pas­sano a livelli tec­no­lo­gici e più avan­zati, quelle che seguono vanno a occu­pare le posi­zioni abban­do­nate dalle prime; e così, tutte insieme, pro­muo­vono lo svi­luppo glo­bale. Ma quella teo­ria rispec­chiava l’andamento delle cose cinquant’anni fa (Stati uniti in testa e, a seguire, Europa, Giap­pone, Corea, ecc.). Ma oggi non fun­ziona più per il sem­plice motivo che molti dei paesi a più bassi livelli sala­riali e di pro­te­zione dell’ambiente, che pro­prio per que­sto sono diven­tate le mani­fat­ture del mondo (prima tra essi, la Cina), oggi sono anche molto più avanti di noi — e non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa — nella ricerca scien­ti­fica e tec­no­lo­gica: è deva­stante com­pe­tere con loro sui livelli sala­riali, anche se molte imprese non vedono altra strada per cer­care di soprav­vi­vere; ma in molti casi è anche impos­si­bile com­pe­tere sui livelli tec­no­lo­gici; soprat­tutto in Ita­lia dove istru­zione e ricerca sono ambiti disprez­zati e negletti.

C’è un ambito in cui l’Italia e l’Europa man­ten­gono ancora qual­che van­tag­gio “com­pe­ti­tivo” (ma meglio sarebbe dire, in que­sto caso, coo­pe­ra­tivo), anche se è anch’esso in via di sman­tel­la­mento per via delle teo­rie libe­ri­ste che ridu­cono tutto al dollar-value, al denaro. Quest’ambito è la com­ples­sità sociale, l’abitudine alla vita asso­ciata, una dimen­sione fon­da­men­tale della socia­lità, il radi­ca­mento in una tra­di­zione di cui il patri­mo­nio cul­tu­rale rap­pre­senta la stra­ti­fi­ca­zione incom­presa (e per que­sto tra­scu­rata). È un fat­tore che non può essere costruito, rico­struito, o recu­pe­rato in pochi anni e di cui lo svi­luppo tumul­tuoso delle eco­no­mie emer­genti ha pri­vato gran parte delle rispet­tive comu­nità pro­prio nei loro punti di mag­gior forza; senza l’accortezza di con­ser­varlo o di sosti­tuirlo con qual­cosa di equivalente.

È que­sto il pre­sup­po­sto di una rico­stru­zione su basi fede­ra­li­ste di un’economia euro­pea auto­suf­fi­ciente (ma non autar­chica), non com­pe­ti­tiva (nel senso di non più impe­gnata in quella corsa al ribasso che è sotto gli occhi di tutti), che sap­pia uti­liz­zare le tec­no­lo­gie dispo­ni­bili e i saperi dif­fusi, sia tec­nici che “espe­rien­ziali”, per riag­gan­ciare la pro­du­zione ai biso­gni con­di­visi della popo­la­zione attra­verso il poten­zia­mento di una nuova “gene­ra­zione” di ser­vizi pub­blici locali in forme par­te­ci­pate, sotto il con­trollo dei governi dei ter­ri­tori: in campo ener­ge­tico (impianti dif­fusi, dif­fe­ren­ziati e inter­con­nessi di uti­lizzo delle fonti rin­no­va­bili ed effi­cien­ta­mento dei cari­chi ener­ge­tici) e in quello agroa­li­men­tare (agri­col­tura di qua­lità ed indu­stria ali­men­tare a km0); nel campo di una mobi­lità fles­si­bile, inte­grando tra­sporto di massa e tra­sporto per­so­na­liz­zato, sia di merci che di pas­seg­geri, attra­verso la con­di­vi­sione dei vei­coli; nel campo del recu­pero e della valo­riz­za­zione delle risorse (quello che noi oggi chia­miamo gestione dei rifiuti), nella sal­va­guar­dia e nella valo­riz­za­zione del territorio (assetti idro­geo­lo­gici, urba­ni­stici, pae­sag­gi­stici, monu­men­tali, indu­stria turi­stica, ecc.) e, soprat­tutto, nei campi della cul­tura, della ricerca, dell’istruzione, della difesa della salute fisica e men­tale di tutti.

Ecco, allora, pro­fi­larsi un destino diverso per le aziende abban­do­nate e senza più sboc­chi; ecco un ruolo stra­te­gico per le ammi­ni­stra­zioni locali che inten­dono farsi carico delle con­di­zioni di vita, ma anche del patri­mo­nio di espe­rienza, di cono­scenza, di saperi tec­nici, di abi­tu­dine alla coo­pe­ra­zione delle mae­stranze messe alla porta dai loro datori di lavoro; ed ecco, infine, il pre­sup­po­sto irri­nun­cia­bile per pro­muo­vere un’alternativa di governo, a par­tire dall’iniziativa locale, per far fronte al caos a cui ci sta con­dan­nando l’attuale gover­nance euro­pea. Detta così sem­bra un’utopia: ma andiamo incon­tro a tempi in cui pro­spet­tare solu­zioni estreme e finora “impen­sa­bili” diven­terà necessario.

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