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Interesse nazionale, storia, cultura, identità: la grande sfida di riunire l’Italia

Andrea Muratore intervista Marco Giaconi

vittorianoL’insistenza di Mark Rutte, leader dei Paesi frugali e dell’Olanda austeritaria, ha fatto venire a galla definitivamente la pericolosità dei “vincoli esterni” politici, culturali e ideologici che nel discorso pubblico italiano sono, purtroppo, estremamente presenti. Con il professor Marco Giaconi cerchiamo oggi di capire come spezzare questi vincoli e riunire, definitivamente, il Paese.

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Professor Giaconi, per discutere del peso del “vincolo esterno” sull’Italia vorremmo partire dalla recente trattativa sul Recovery Fund europeo: vedendo le accuse lanciate dal premier olandese Mark Rutte al nostro Paese abbiamo finalmente osservato allo specchio l’origine non italiani di anni di svalutazione del nostro Stato in ambito politico e mediatico. Dal mito secondo cui “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” al dualismo tra rigoristi virtuosi e italiani “cicale”, il vincolo esterno ha costruito un forte retroterra narrativo e ideologico. Quali sono gli effetti di questa contaminazione culturale?

Ci si difende al potere, e mi riferisco qui a Mark Rutte e agli altri “frugali”, anche e soprattutto accusando gli altri delle nostre colpe e rendendoli immagini rovesciate delle nostre paure. Noi frugali, italiani spendaccioni o fannulloni. Già Goethe, nel suo “Viaggio in Italia” raccontava che i napoletani non sono affatto pigri, ma casomai caotici. Diventare indebitati come gli italiani, avere una burocrazia o una magistratura come noi, tutte cose che mettono paura e vengono utilizzate come strumenti del potere. E’ il meccanismo del “perturbante” di Freud. Das unheimliche, ciò che non è Patria-Casa e quindi spaventa.

Cicale, certo, per Rutte e gli altri, sono quelli che hanno un alto debito pubblico. Il che vuol dire che noi siamo più bravi perché non ce l’abbiamo. Ovvio, hanno il Pil della Lombardia, in Olanda, e sono i massimi produttori di droghe sintetiche, che comunque portano anche in Europa, visto che le verifiche dei container al porto di Rotterdam sono, per legge, molto rapsodiche. Offendo il nemico per coprire i miei “buchi”, accade sempre così. Poi c’è la tradizione di massa e l’identità positiva dei “frugali”, che è stata attentamente coltivata. In Italia no. Ci si spara sempre sui piedi, per mistica della lamentazione e suicidio politico e informativo. La tradizione di massa, l’immagine positiva di sé conta ancora molto. Proprio Nietzsche ricordava come la Riforma protestante sia stata la fine della bellezza rinascimentale, il ritorno, anche ideologico, al Medioevo, il termine dello splendore artistico ordinato da quei Papi che, come accadde a Giulio II, partivano in guerra con lo stemma del Sol Invictus. Altro elemento da non trascurare, questo, la ricchezza e l’esteriorità della tradizione romana-latina e l’intimismo senza sufficienti fronzoli del mondo calvinista. Anche il mito weberiano del Protestantesimo come elemento necessario dello spirito capitalistico sarebbe, comunque, da discutere. La finanza moderna e internazionale la inventano soprattutto i Datini di Prato, con la “lettera di cambio” (che non è una cambiale) e poi la perfezionano prima i Templari e poi i Cavalieri di Malta. Le tecniche bancarie dei Medici sono “rinascimentali”, ma sono per certi aspetti più moderne di tanti hedge funds protestantici attuali. Il capitalismo di fabbrica, il lavoro in fabbrica, il capitalismo vero e proprio, nasce nel tardo Medioevo per un complesso insieme di ragioni, ma quello che Marx chiama appunto il “sistema di fabbrica” nasce quando arrivano le macchine a vapore e quindi molte delle operazioni che l’imprenditore distribuiva a domicilio tra le abitazioni vengono necessariamente centralizzate. Il tutto è accaduto nello stesso modo, sia nei Paesi cattolici che in quelli protestanti, anzi, in quelli cattolici è avvenuto talvolta perfino prima. Gli effetti di questa “narrazione”, per usare un termine oggi ormai abusato? Terribili per noi, efficacissimi per i nostri alleati-avversari. Ecco quindi le radici di questa identità negativa dell’Italia. In primo luogo, un superficiale “antifascismo”, che serve per sentirsi tanto buoni e migliori. Quasi biondi e con gli occhi azzurri, come quelli che vincono alla roulette globale, dato che la truccano.

E quindi c’è anche la colpevolizzazione di tutto il popolo italiano, per il Ventennio, come se Mussolini fosse stato regolarmente eletto. Lo stesso ragionamento che faceva Osama Bin Laden, nel 2002, per gli americani, contro coloro che lo accusavano, da musulmano, di colpire con il suo Jihad cittadini Usa incolpevoli. “Loro lo hanno votato, il Presidente americano, quindi sono colpevoli”. Il problema è che Mussolini non l’ha votato nessuno, ma è stato imposto dalla Monarchia, che aveva bisogno di togliersi parlamentari incapaci e utilizzare un movimento che evitasse all’Italia il prolungamento del “biennio rosso” e la possibile rivoluzione bolscevica. Poi la freddezza etnica e razziale (sì, razziale) tra Nord e Sud Europa. Il mito della arianità è di molto precedente a Hitler e nasce in un contesto positivista e darwinista che il dittatore austriaco riprende dal razzismo inglese e Usa (la “Stazione Demografica” di New York, per esempio, quella che regolava le quote di immigrati negli Usa) e dalle leggi Jim Crow, che videro la luce in tutti gli Stati dell’Unione tra il 1876 e, addirittura, il 1964. Ma nessuno osa oggi dire che gli Usa sono “antidemocratici” ma solo perché, impossessandosi dell’Europa dopo la II Guerra Mondiale, hanno ricostruito la loro immagine come araldi della world democracy. La gente pensa, ancor oggi, che i soldati Usa siano venuti in Europa a combattere due orride dittature per la loro innata bontà, non per prendersi, appunto, l’Europa.

Ecco, il Nord europeo, che si crede freddo, calcolatore, razionale, lucido, onesto, non vede mai di buon occhio il Sud dell’Europa (che poi sarebbe quella vera, ovvero quella colonizzata dalle armate romane che poi ritorna, come ci ha insegnato Kerenyi, nei Santi e nelle liturgie cattoliche). Kerenyi era membro della R.L. “Alpina” all’Oriente di Zurigo, comunque. Poi c’è, appunto, la cultura del reduce che ha infestato la nostra classe politica, dalla Prima a questa ennesima Repubblica che ci ritroviamo oggi. Siccome erano stati riportati sulle lance dai vincitori della guerra, hanno ritenuto facile, i nostri uomini politici di allora, pensare che tutta l’identità nazionale fosse ipso facto “fascista” e che il futuro dell’Italia fosse solo quello di sciogliersi al più presto in qualche altra cosa: la fregola della Europa Unita, certo spinta fin dagli inizi dagli Usa, l’Alleanza Atlantica, accettata a scatola chiusa, diversamente dalla Francia (e pensare che Parigi, grazie a De Gaulle e malgrado Pétain, era tra i “vincitori”) addirittura l’URSS e il Patto di Varsavia per i militanti del PCI, poi un generico Occidente per i liberali, che smaniavano di apparire inglesi, con effetti spesso ridicoli, infine l’America del Nord, per tanti, vista come cornucopia del benessere e senza sapere delle leggi Jim Crow. Ignoranza di ogni e qualsiasi dato strategico e geopolitico, tratto ancora presente nelle classi politiche italiane, una mentalità piccolo-borghese da professore di scuola media di provincia o da concionatore di piazze agricole, la solita voglia di chiamare sempre l’amico esterno contro il nemico interno, già chiarita dal Machiavelli, poi infine la mancanza, che c’è anche oggi, di un apparato propagandistico e di “influenza” italiano che operi all’estero. Non siamo visti come alleati, ma siamo percepiti, e talvolta giustamente, come minus habentes, perché diciamo sempre e solo sì. Anche alle fregature evidenti. Infine, il mito, che Lei giustamente cita, del “vincolo esterno”, quella cosa che inventò Guido Carli nelle sue memorie del 1993, scritte insieme a Guido Diodato. Far fare all’Europa quelle politiche di bilancio che noi non vogliano fare, soprattutto per motivi clientelari-elettoralistici. Certo, ma fu proprio Guido Carli a dire, leggendo il Trattato Fondamentale dell’Unione Europea, che “qui ci metteranno tutti a suonare il mandolino”. La crisi economica italiana nacque dalla fine delle restrizioni salariali e, soprattutto, dalla cessazione degli accordi di Bretton Woods nel 1971. Quello fu il vero innesco, al quale si unì la relativamente troppo bassa esazione fiscale tra i redditi medi e medio-alti e, infine, l’aumento, peraltro allora necessario, della spesa pubblica in deficit.

 

Il “vincolo esterno” non è un caso unico nella storia repubblicana. Andreotti, da giovane sottosegretario con delega alla censura cinematografica, si arrabbiava perché, con il neorealismo, che pure è stata una culla di capolavori, si dava una immagine poveraccista e autodistruttiva dell’Italia. Che impatto hanno avuto decenni di narrazione simile sul senso di identificazione degli italiani col Paese e la sua cultura?

Il “poveraccismo” è stato, da un lato, e parlo di cinema, una rivolta di grandi registi, spesso usciti dal fascismo di sinistra e dal Centro Sperimentale di Cinematografia, infatti la struttura nacque su una idea di Alessandro Blasetti, contro i “telefoni bianchi” e contro il cinema, spesso tronfio e retorico, favorito dal regime fascista. Certo, Blasetti era un grande, e il suo “cinema politico”, di netta impostazione mussoliniana, non era solo propaganda. Un po’ come accade a Ejsenstein e a Pudovkin nell’URSS staliniana. Certo, il poveraccismo, anche fuori dal cinema (e penso alla letteratura) è stato usato da tantissimi autori. “E come potevamo noi cantare/con il piede straniero sopra il cuore”, scriverà il sempre modestissimo Quasimodo che, certo, con i soldi del regime quella pietra accettava con gioia. Ovvero: abbiamo sofferto anche noi sotto un regime che non amavamo (ma spesso ciò non era vero) quindi iscriveteci de jure al club antifascista. Il “poveraccismo” è stato il criterio con cui si faceva vedere ai vincitori che non dovevamo avere colpe, ma eravamo, anche noi, delle povere vittime. L’altra faccia della colpevolizzazione di massa operata dai Vincitori, ma che accetta tutto il “discorso” dei Vincitori. E quindi non dovevamo essere puniti per aver perso. In effetti fummo puniti poco solo perché arrivò subito la guerra fredda, non perché i vincitori si convinsero che eravamo buoni davvero. Ciò fu favorito anche dal fatto che, come disse anni fa l’Amb. Sergio Romano, entrambi i maggiori partiti erano a-italiani e palesemente estranei, a parte un po’ di propaganda dei comunisti, al Risorgimento, che è la vera fase nascente e plurale dell’identità italiana. La DC, che programma a Camaldoli, nel 1943, poco prima dell’autogolpe fascista, causato dalla frazione filo-britannica che vince in Gran Consiglio contro quella filo-tedesca, la sua presa tecnica del potere post-fascista, è un Partito inventato dalla Chiesa Cattolica e sottoposto alla sua gerarchia. Il PCI, pur con qualche contorsione interna, è strettamente controllato, finanziato, organizzato dall’URSS.

Nel Partito Comunista, lo ripeteva sempre Cossiga, si può essere a-sovietici, ma mai antisovietici. In mezzo, signori con il Principe di Galles, il cardigan, la passione per gli Usa che ricorda più quella dell’”Americano a Roma” di Alberto Sordi che non una attenta conoscenza della situazione degli Alleati più grandi. Insomma, anche la solita, fervida ignoranza delle questioni internazionali, tipica di quella classe politica e oggi ereditata in pieno dall’attuale, ha prodotto i suoi effetti. Se si va a vedere chi sapeva davvero di politica estera, nella Costituente, si rimane senza un vero nome. Forse Luigi Einaudi e Benedetto Croce, ovviamente liberali, che però avevano delle relazioni internazionali una conoscenza culturalista e non operativa. Fu infatti solo Benedetto Croce, liberale e antifascista da ben prima dell’80% dei Costituenti appartenenti al PCI, il 24 luglio del 1947, a pronunciare l’unico discorso sul Trattato di Pace non “poveraccista”, appunto: “senonché il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e politico e la pronunzia di un castigo che essa, l’Italia, deve espiare per redimersi e innalzarsi o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano, con i Vincitori, gli altri popoli, anche quelli del Continente Nero”. Eccola, l’analisi del poveraccismo: apparire sempre “come tu mi vuoi” davanti al Vincitore, riprendere tutti quei caratteri della Commedia dell’Arte furbi, ambigui, ipocriti e tromboni e mischiarli in un nuovo carattere nazionale che indichi l’autodistruzione del Super-Io e della tradizione risorgimentale, notoriamente “fascista”, e di tutte le tradizioni che non provengano dalla pop-culture anglosassone e globalista. Una psicologia da cameriere. In più, ci sono pseudo-storici del pensiero politico che ci vengono a dire, oggi, che anche il nazionalismo sempre “porta alla guerra”, mentre l’amor di Patria, se ben maciullato da qualche errore di storia, può anche essere “pacifico”. Una idea spesso ripetuta anche da Macron, che spinge sulla europeizzazione perché crede ancora di vincerla, ma anche da altri leader della UE. Che credono di vincere quella guerra chiamata “globalizzazione”, ma anche loro sono in errore. Una dimostrazione della loro inconsistenza culturale, certo, ma anche il cosiddetto “sovranismo” non scherza. O il “Dio Po” o la melassa di un europeismo da supermercato poco fornito. Non ci sono molte prospettive, quindi. Oggi, comunque, più che il poveraccismo, che qualcosa produceva, anche nella versione post-bellica di Pierpaolo Pasolini, c’è l’assoluta accettazione di ogni forma di bassissima propaganda e “cultura giovanile”. Anzi, di rifiuto post-sessantottesco della cultura. Che si riflette, paradossi della Storia, nel mito della lotta tra “popolo” e “élite” tipico del populismo alla Bannon o in una sorta di nuova iconoclastia, come quella che si è diffusa negli Usa, recentemente. Trattandosi di uno dei popoli più ignoranti dell’Occidente, gli americani hanno abbattuto le statue di Colombo, che con la tratta degli schiavi non c’entra niente, e tante altre immagini. Quasi un adattamento all’Islam prossimo futuro, probabilmente, ma mi sovviene anche il ricordo della Seconda Inattuale di Nietzsche, quella “Sull’Utilità e il danno della Storia per la Vita”: “Vedi quell’animale che gira intorno al piolo della vita, egli non sa cos’è oggi, cos’è domani, e ripete sempre il suo verso”. L’animalizzazione dell’uomo è già piuttosto avanti, e alla fine avremo, appunto, infiniti “animali ideologici”, ovvero esseri, forse perfino non più umani, che si ridurranno ad essere solo ripetitivi strumenti dei loro istinti. Eccola, la vera fine della Storia che Fukuyama non poteva prevedere.

 

Si parla spesso di “autorazzismo”, ovvero di esplicita svalutazione del Paese ad opera della opinione pubblica. Questo ha dei legami con la difficoltà dell’Italia nel sentirsi Paese coeso?

L’Italia non è coesa perché, tra prefascismo, fascismo e Repubblica non ha mai avuto una borghesia, una classe dirigente, che educasse davvero il popolo. Solo demagogia e tanta retorica. Nella Prima Guerra Mondiale, ci furono scioperi dei soldati (e giustamente Curzio Malaparte chiamò anche la rotta di Caporetto uno “sciopero militare”) che furono repressi duramente nel sangue dai peggiori ufficiali possibili. In altri momenti, alti ufficiali consegnavano la loro sciabola e il comando delle loro forze agli scioperanti, come accadde ad Ancona. Ma non per solidarietà ideologica, solo per paura. Selezionati, diversamente dai tedeschi, tra i peggiori “pezzi” della borghesia, ignoranti e presuntuosi, come tutti gli ignoranti, appunto, gli ufficiali italiani regi, che dicevano, da veri stupidi, ai soldati di rompere con il torace il filo spinato, furono alla radice della pessima figura delle nostre armi in certe aree del Fronte. La “vittoria mutilata” non si preparò a Versailles, ma fu preceduta dalla pessima figura di molti dei nostri ufficiali, che volevano soprattutto fare la lotta di classe, da “padroni”, contro le masse pericolose e in armi. Il popolo va educato, non vellicato nei suoi miti, nelle sue paturnie, nei suoi pericolosi miti. Nessuno l’ha fatto, certo nemmeno il fascismo, e questo non riguarda la sua specifica propaganda. Ecco, la questione militare, ma anche politica, che è alla radice di questo problema. Senza formazione militare e strategica, nessuna percezione dell’interesse nazionale, della dignitosa fierezza, della benevolenza perfino nei confronti del nemico, dello stile di vita regolato e adulto. La nostra borghesia è, tuttora, più antimilitarista dei suoi figli, che ha educato nel nesso tra paleocomunismo e postmoderno che chiamiamo ancora “sessantotto”. Poi, certo, c’è stato il frazionismo territoriale e addirittura sociale, che è stato largamente utilizzato dalle classi dominanti. Infine, l’assoluta permeabilità delle nostre classi politiche, con una ingenuità da Presepe, alla propaganda “bianca” e di “influenza” orchestrata da molti Servizi alleati o avversari. Ma mai dai nostri altrove. L’efficacia politica della nostra intelligence all’estero sfida il buonsenso. Perché? Perché hanno tutti paura e non sfiorano mai l’attività autonoma, ma vivono solo dei mozziconi di notizia che gli lasciano i loro colleghi del posto. Roda da ridere. E molti dirigenti della nostra intelligence, come Arlecchino, hanno due padroni. Ma ci si parano le palle, con il lavoro al minimo, e si evita di pestare qualche callo pericoloso. Ecco, la paura, la paura è la chiave psichica e operativa profonda delle nostre classi dirigenti. Fasanella e Josè Chiereghino ci hanno spiegato, nei loro ottimi libri sull’archivio dei Servizi inglesi di Kew Gardens, quanto ci fosse di manipolabile, e con poca fatica, nella nostra classe dirigente e politica. E giornalistica. Mussolini fonda il “Popolo d’Italia” e anche i Fasci di Combattimento con i soldi del Deuxiéme Bureau e degli inglesi che vogliono, lo capirebbe anche un bambino, un movimento politico interventista e antitedesco nelle more della Rivoluzione d’ Ottobre, che ha messo fuori gioco, ma con la nuova possibilità di pressione tedesca, un temibile avversario all’Est. L’ENI è stata tampinata da tanti “liberali” che erano al soldo, magari senza nemmeno accorgersene, dei loro agenti di influenza americani e britannici. Le forze politiche, anche allora, vivevano di fondi extra che non erano solo trasferiti direttamente, ma anche con affari ad hoc, da aziende Usa e british a politici e aziende italiane. Bastava restare nei limiti della democrazia, del progresso, del liberalismo, ma soprattutto del bon ton, snobismo supremo. Per non parlare della sinistra fuori dal Pci, in gran parte emersa dopo l’accordo del 1971 tra Nixon e Mao Zedong (o, meglio Zhou Enlai) che poi si realizza dentro il Club di Berna, inventato da Federico Umberto d’Amato, il mitico capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, dove i cinesi, con un invito a cena da parte dell’autore di “Menù e Dossier”, critico gastronomico de “L’Espresso”, con lo pseudonimo Gault&Millau, ci danno la rete delle strutture coperte del KGB in Europa. Ora per allora, ovviamente. Poi la copertura degli affari delle criminalità organizzata a Milano, negli anni ’75-’80, quando la Sicilia arriva in forza nella “capitale morale” e rifinanzia molte grandi aziende che non hanno più sostegno bancario, dopo il disastro del ’68 e, soprattutto, il dramma della loro mala gestio. In ambito “Gladio-Stay Behind”, tutto si blocca quando il Capo di S.M. di allora della Struttura, che era appoggiata ai Servizi (in Francia ce ne erano addirittura due, una Nord una Sud) ha l’idea di applicare la “rete finissima” della Stay Behind alla malavita organizzata. Siamo quasi negli stessi anni. E la Rete si blocca, per ordini superiori, dopo che, peraltro i primi “centri” sono stati già costituiti. Mah! Cosa Nostra è il Terzo Esercito che invade la Sicilia, nel 1943. E ancora manipolazioni sui titoli, infinite, operazioni di defamation, come certe sulla Fiat in America Latina e di AGIP in Russia, che non si contano. Meno male che le grandi aziende italiane, pubbliche o private che fossero, hanno avuto i loro Servizi interni, e hanno risolto la questione, talvolta in modo necessariamente duro, con i loro autonomi mezzi. In ogni caso, provincialismo, incultura strategica, paura dello Straniero oppure immondo, l’altra necessaria faccia della medaglia, servilismo da cameriere truffatore in un ristorante turistico, di quelli che ti fanno pagare 50 euro un’acqua minerale, ecco, la nostra classe politica, anche per i non sacri lombi dai quali spesso proviene, è soprattutto questo. Selezionarla meglio, senza affaristi (che ci sono sempre stati, ma allora servivano all’”esterno”) e meno lauree in Legge, che portano a una mentalità causidica da Gesuita del Settecento.

 

Sulla base di questi presupposti, possiamo dire che questa Italia è la vittima ideale per operazioni di “guerra psicologica”?

Ci cadranno sempre come bambini. Non c’è più un Servizio che vada oltre la chiacchiera e il distintivo, e che non interloquisce con i capi di governo ma, spesso per ragioni carrieristiche, si piega a indicazioni che farebbero ridere il mio autista. I Servizi, salvo rari casi, sono ancora pieni di personale che ha due Capi, non uno solo. Potrei fare i nomi, ma, ovviamente, lo evito. Non abbiamo una rete estera di influenza, ma talvolta tale rete è sostituita da un gruppo di persone, riconosciute e stimate ovunque, che operano da sole ma senza un input del Servizio, che spesso, immagino, non sa nemmeno chi siano. Siamo soli, terribilmente soli. Guerre psicologiche? Ne abbiamo avuto appena ora un esempio. La guerra per il MES e i suoi Fondi, e lo scontro tra sovranisti-europeisti nella nostra classe politica. Nessuno dei due ha detto tutta la verità, ma è stata una vera e propria psywar. Altra guerra psicologica è stata quella per gli F-35, dove raramente non ho ascoltato “lingue biforcute”. Poi, la questione strategica fondamentale. Gli Usa si stanno riposizionando in Europa, contra Germaniam, e soprattutto contra Russiam. La Cina è già un altro discorso. Noi dove stiamo? Ci sono buoni atout sia nel giocare, come vide lucidamente Fanfani, un ruolo occidentalista ma autonomo nel Mediterraneo. Ma bisogna saperlo fare, e qui non vedo Fanfani in giro. Nemmeno il quadretto che Amintore, efferato pittore dilettante, regalò all’antico padrone di questa casa da dove sto scrivendo. Stiamo con gli Usa? Allora, anche se finirà la stagione trumpiana, dovremo parlare con il deep state statunitense, e saranno cavoli se non mandiamo la persona giusta. Che ci sarebbe, ben la conosco. La Cina? Con chi parla Xi Jinping in Italia? Lo so bene, ma ha la capacità politica di dire sì o no, garantita dal governo italiano? Ammesso che sappiano quali sì e no dare? Non lo so e non ci credo. E tra Nord e Sud dell’Europa che si fa? Si segue la linea di Parigi, credendo che tutti siano amiconi come nelle photo opportunity? Ci credo poco. Quando un Paese, come il nostro, si avvia nel canale dei failed states, come sta accadendo adesso, è oggetto delle influenze di chiunque. Come accadde con la questione dei Due Marò, ingenuamente concessi all’India proprio quando alcune nostre grandi industrie si stavano trasferendo, guarda caso, proprio in India. Ma, sempre e comunque guarda caso, e comunque il governo di allora, con Monti, che sa di strategia come io so di elettrotecnica, lasciò i due militari, pagando ingenuamente i danni alle famiglie indiane, ammissione di colpevolezza ingenua, nelle mani del cosiddetto “diritto internazionale”. Niente rimostranze, niente ricatti possibili. Tutti amici, disse il cieco. Solo l’inchino a uno pseudo-diritto che si manipola sempre, come diceva Mao Zedong, come un timone. L’Italia sarà un hotspot globale per le operazioni di influenza, e oggi ci sono perfino quelle algerine, tunisine e, tra poco, turche. Ogni acqua ci bagnerà.

 

Su cosa dovrebbe basarsi la ricostruzione di un senso di identità e di un idem sentire nazionale? Il patriottismo costituzionale o l’orgoglio per la coesione di fronte alle tragedie possono aiutare o sono fenomeni residuali?

Appena finita la tensione derivata dalla pandemia al Nord, soprattutto in Lombardia, sono uscite fuori questioni pericolose. Dalle RSA ad altro, fino alla polemica e alla inchiesta sui camici in Regione Lombardia, oltre a certe polemiche dal Sud, si è ripresentato il divide italiano classico, appunto quello tra Nord e Sud. Ormai, le classi politiche sopravvivono solo in un ambito regionale o addirittura sub-regionale. Lo avete voluto il regionalismo spinto? Eccolo. Incapace di fornire alcuna classe dirigente nazionale, a destra o a sinistra. L’orgoglio nazionale è, oggi proibito. L’eccesso di regionalismo è diffusissimo, e blocca ogni attività dello Stato. E peraltro il maestro della Lega, Gianfranco Miglio, parlava di sole tre macroregioni. Poi c’è la retorica del “Ce lo dice l’Europa”. Basta sfuggire anche alla minima responsabilità. Che, comunque, permette l’orgoglio di quelli, pochissimi, che hanno davvero le palle. Se noi avessimo fatto, in economia, un ventesimo di quello che ha fatto la Germania in EU, ci avrebbero mandato gli squadroni della morte. O ce le hai o non ce le hai. E allora fai sempre la figura del cameriere truffaldino di cui sopra. L’identità si costruisce con la Storia. Che non si insegna, non la si conosce, e si ricordi che i dati sull’analfabetismo degli adulti e degli scolarizzati, in Italia, sono terribili. Questa è la base. Ma ci sarà sempre qualche bambino, in una scuola elementare dove si ricorda la figura di Garibaldi, che dirà oggi che “mio padre non era d’accordo”. Lasciando stare la divertente ucronia, è che la Scuola non esiste più, la gerarchia della cultura non esiste più, salvo certi filosofi etilici che vanno troppo in TV, non c’è infine l’idea della Verità. Tutto diventa opinabile come un voto al Consiglio Comunale, infatti la prassi politica, per salvarsi, ha reso la cultura, la scienza (si è visto con i virologi in TV, che peraltro sapevano una mazza di questo nuovo virus) un discorso del tutto opinabile e votabile, come una mozione per le fioriere. Ed ecco, finché non si chiuderà questo cerchio, tra siti complottisti e analfabeti classici, non ne usciremo. L’idea e l’identità di un Paese sarà sempre alla mercé di quello che ti dirà che Cavour non è mai esistito, o che non è mai morto, nella psicopatia di massa della controinformazione e intossicazione informativa diffusa, che sono appunto i social, tutto e il suo contrario saranno contemporaneamente veri. E non ci sarà comando sociale basato sulla Verità che possa tenere.

 

Quali lezioni possiamo trarre dalle “religioni civili” degli altri Paesi?

Una infinità. Quando c’era, a capo del Governo spagnolo, il socialista Zapatero, discendente di un ufficiale “eliminato” dai franchisti prima di fare il vero e proprio golpe, alcune manifestazioni militari ospitavano anche figuranti della Division Azul, la struttura che Francisco Franco inviò contro l’URSS, l’unica concessione che il Generalisimo fece a Hitler, quando lo venne a trovare a Hendaye. Un socialista, peraltro piuttosto gauchiste come spesso accadeva nella tradizione del PSOE spagnolo? Certo, ma sapeva la storia, il ragazzo. Il problema non è la chiacchiera fascismo-antifascismo, la vera questione è pacificare tutti gli animi. Certo, il MSI è stato parte del partito “americano”, ma faceva un mestiere diverso dagli altri partiti italiani che erano iscritti anche loro a quello “americano”, fatto salvo il PLI, che era ancora in gran parte iscritto al “partito britannico”. Buona fortuna. Le FF.AA. tedesche, che erano più nazionaliste a Est che a Ovest, oggi sono comunque custodi, ma sono ormai distrutte dopo la cura Van der Leyen, delle tradizioni del Reich. Il Secondo, naturalmente. Non parliamo nemmeno della Francia attuale, che è stata costruita da De Gaulle, un vecchio professore nelle Scuole di Guerra di Parigi e uno strenuo difensore, conoscendolo bene, del suo interesse nazionale. Se si leggessero ancora i libri di Gallois sull’Iraq, si avrebbe l’idea di quello che è oggi, forse ancora, la Francia. Quindi Scuola, ma diciamo anche ricostruzione della Gerarchia del merito, della sapienza, del ruolo, infine una sanificazione ideologica completa a livello della pop-culture, che non deve essere l’unica fonte di “formazione” delle classi subalterne, che peraltro devono avere un nuovo ascensore sociale tramite appunto la scuola, la professione, il lavoro. Basta con i cantanti che intitolano le loro orride canzonette a una droga, peraltro spesso prodotta in Olanda, via invece con i romanzi del nostro Risorgimento, o anche il migliore antifascismo letterario. Si pensi a Tempo di Uccidere, di Ennio Flaiano, o a Fratelli d’Italia di Arbasino, un terribile snob ma che era anche un allievo di Kissinger. Ricostruire quindi tutte le istituzioni intermedie, che sono state distrutte dalla “operazione Tangentopoli” la prima vera psywar postmoderna in Italia, e ricreare una narrativa nazionale fatta di Mazzini, ma anche di boom degli anni ’60, o di quel tanto che ha dato l’arte italiana moderna al mondo: da Emilio Vedova a Lucio Fontana, con tutti i suoi “concetti spaziali”, magari derivati dalla frequentazione di una sua amante milanese, alla mia amica d’antan Carla Accardi, a Morlotti, a tanti altri. Un “patriottismo della cultura”, che dovrebbe andare d’accordo con il nuovo patriottismo moderno della protezione dei nostri asset economici primari.

 

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