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ilpungolorosso

Il governo Conte-bis è da combattere da subito, senza sconti

Il cuneo rosso - Gcr (Gruppo comunista rivoluzionario)
Pagine marxiste
Tendenza internazionalista rivoluzionaria

Pubblichiamo di seguito una presa di posizione sul nuovo governo PD-5 stelle, che prende le mosse dalla crisi del precedente governo Lega-5 stelle e si concentra in particolare sui temi della fiscalita’ e del salario. Il testo e’ stato distribuito all’assemblea indetta dal Si-Cobas a Napoli lo scorso 29 settembre. Scopo dell’assemblea era organizzare lo sciopero del sindacalismo di base il prossimo 25 ottobre e la manifestazione contro l’attuale governo a Roma il giorno successivo. A questo link un resoconto dell’assemblea

pungolo121La fine del governo Lega-Cinquestelle e la sua sostituzione con il Conte-bis Pd-Cinquestelle danno la misura di quanto è complicato per i capitalisti italiani trovare una sintesi dei propri interessi, e rappresentanti politici adeguati a tutelarli. Nonostante ciò, abbiamo di fronte un nuovo governo dei padroni intenzionato a servire con la massima cura il sistema delle grandi imprese e a consolidare il carattere sempre più autoritario della Terza Repubblica. Un governo fragile ma insidioso, da combattere subito, senza sconti. La momentanea estromissione della Lega di Salvini non deve ingannare. Invece, in quel po’ di movimento che è stato in campo contro il precedente governo, c’è più di un’esitazione ad agire. Tra i lavoratori c’è molta confusione, e forse anche qualche attesa. Per chi come noi punta tutto sulla ripresa dell’azione autonoma della classe lavoratrice e sullo sviluppo dei movimenti sociali in senso anti-capitalista e internazionalista, il quadro si è di certo complicato. Tuttavia le contraddizioni di fondo sono lì, pronte ad esplodere, senza preavviso. Se si ha chiaro dove siamo e dove stiamo andando, spazi e temi d’intervento non mancano.

Proviamo a vederlo, rispondendo a tre questioni:

  1. perché è caduto il governo Lega-Cinquestelle?
  2. che tipo di governo è il Conte-2?
  3. che fare in questo nuovo contesto politico?

 

Perché è caduto il governo Lega-Cinquestelle?

Se dicessimo: è caduto per le proteste di piazza, ci lusingheremmo. Certo, le proteste di piazza non sono mancate, da Ventimiglia a Roma-27 ottobre (manifestazione del SI Cobas contro il decreto sicurezza), dalle lotte No Tav alla calda Verona di Non-una-di-meno. Ne siamo stati parte, e le rivendichiamo in pieno.

Ma va riconosciuto che come opposizione di piazza e di classe, non abbiamo avuto né la forza, né la determinazione, né l’unità necessarie per mettere spalle al muro Lega&Cinquestelle. Il governo Salvini-Di Maio è caduto fondamentalmente a causa dei conflitti tra poteri capitalistici, internazionali e interni, e tra le bande dei loro portaborse politici – conflitti legati all’entrata dell’economia e della politica mondiale in un ciclo neo-protezionista, in cui si sta intensificando la guerra di tutti contro tutti. Questo è lo sfondo e il sottosuolo di tutto.

Lasciamo quindi alle cronachette giornalistiche le chiacchiere morte sul Papeete Beach, i mojito, le cubiste che cantano l’inno di Mameli e la querelle se Salvini è stato impallinato o si è “suicidato”. E veniamo al sodo. L’esecutivo appena caduto nacque dopo uno scontro tra Stati Uniti e Germania/UE vinto ai punti da Washington. Il giubilo di Bannon per il neonato fu allora giustificato: “Avete dato un colpo al cuore della bestia dell’Europa”. Mattarella, ultra-atlantista ma euro-atlantista, convinto che l’interesse del capitalismo nazionale si tutela meglio contrattando con gli Stati Uniti dentro l’UE che in solitario, limitò i danni (nel rapporto Italia-UE) imponendo suoi uomini come pedagoghi e sentinelle per istruire i pupetti a 5S appena entrati nelle stanze dei bottoni e contenere la demagogia leghista. Ma nell’ultimo anno Trump ha colpito sotto la cintola così duro l’economia tedesca/europea con i suoi dazi e ha così tanto armeggiato per far deflagrare la Brexit sotto i palazzi dell’UE, che la UE ha dovuto difendersi. E l’ha fatto. Alternando sberle e aperture, i poteri forti europei hanno prima ridicolizzato, poi domato – non c’è voluto molto – il “sovranismo” da avanspettacolo dell’accoppiata Salvini-Di Maio. Ora sono ben contenti di aver visto nascere il Conte-2, atlantista come il Conte-1 – la NATO non si discute, si ama! – però più allineato all’UE. Il secondo round della diciottesima legislatura se l’è aggiudicato ai punti l’asse Parigi-Berlino. La benedizione di Trump a Giuseppe Conte è stata di circostanza, più che un augurio al vecchio-nuovo premier, è suonato un monito a Salvini perché la faccia finita con i suoi spericolati flirt con Mosca. La contesa tra gli avvoltoi di Washington e quelli della UE, è ovvio, continua.

Invece i principali fattori interni che hanno portato alla caduta del governo Lega-Cinquestelle sono stati da un lato la modestia dei suoi risultati in termini di spazi conquistati al capitale nazionale, e dall’altro l’insostenibilità delle sue promesse “populiste”. L’anno 2019, che doveva essere bellissimo (parole di Conte), sarà un anno di totale stagnazione dell’economia italiana. A livello internazionale, nonostante le sue roboanti declamazioni, il fu-governo non ha aperto alcun importante nuovo canale preferenziale per le merci e i capitali di “casa nostra”. L’Italia ha perso peso in Europa. Ne ha perso pure nei confronti di Washington, senza guadagnarne nei rapporti con Pechino, Mosca, Teheran e il mondo arabo. Il malumore padronale è via via salito proprio nelle regioni di insediamento storico della Lega, che dagli eccessi polemici anti-UE hanno visto messe a rischio le relazioni con il loro primo mercato di sbocco, senza peraltro che la totale autonomia, pretesa e promessa, facesse un solo passo avanti – “la grande colpa di Salvini è non aver fatto l’autonomia”, questa la sentenza di condanna del presidente degli industriali vicentini. Sul fronte della guerra agli emigranti/immigrati, per i padroni e le banche, invece, andava tutto o.k. I decreti-sicurezza 1 e 2, con il loro giro di vite sui picchetti, gli scioperi, le occupazioni di case, le manifestazioni? Proprio quello che ci voleva. È stato approfondito il solco tra lavoratori immigrati e autoctoni, sono state apprestate misure utili per stroncare sul nascere le lotte. Bravo Salvini!

Ma non di solo razzismo, super-sfruttamento del lavoro immigrato e repressione si nutre il grande capitale. In Italia un suo grosso problema è il rapporto, e il rapporto dello stato, con la moltitudine dei piccoli accumulatori. Su questo versante l’agitazione “populista” sempre più incontrollata di  Lega e Cinquestelle rischiava di produrre danni. Bene il fisco amico (dei padroni). Bene i condoni più o meno tombali. Ma senza esagerare! Senza “gettare sabbia negli occhi dei cittadini”, per dirla con l’ex-direttore del Corriere della sera De Bortoli. Perché se attraverso la flat tax e un’infinità di agevolazioni, attuate o ventilate, alle piccole e piccolissime imprese, vecchie e nuove, si fa assaporare ai milioni di Brambilla/Esposito il dolce gusto di attività totalmente e perennemente esentasse al livello delle intoccabili transnazionali del web, allora il gioco diventa pericoloso. Perché il gioco del  “populismo” impone di portare un qualche utile, sia pur minimissimo, a tutti gli strati “popolari”, e non solo ai piccoli-medi accumulatori. Dopotutto il governo Lega-Cinquestelle un’investitura (con la scheda) l’ha ricevuta anche da parte di consistenti settori di operai e di lavoratori. Che sono stati ripagati con misure di modesta entità (reddito di sudditanza, quota-100) spacciate e sentite, però, come l’antipasto di altre restituzioni che sarebbero arrivate in seguito. Ma se, come si era spinto a fare il Salvini balneare, si promettono mari e monti a destra e a manca con una finanziaria da 50 miliardi e il largo sforamento dei tetti europei alla spesa statale con tanto di vaffa all’UE, allora si piscia fuori dal vaso [1].

Con l’avvicinarsi della recessione e con il disordinato moltiplicarsi di tensioni tra l’Italia e l’UE, il rischio che il grande padronato ha annusato è stato quello di un possibile effetto boomerang delle schiassate legastellate. Dovendo mettere in agenda nuovi sacrifici e la prevedibile riduzione dei margini di concessione all’insieme degli “strati popolari”, non è infatti sensato, anzi è imprudente, eccitarne le aspettative. Fin che si sparacchia alla maniera dei 5S contro la casta dei parlamentari presentando la loro riduzione come l’alba di un mondo da favola, ai poteri forti può far comodo. Tutt’altra cosa è prospettare un esentasse illimitato per commercianti, padroncini, artigiani, professionisti, specialisti incalliti del sommerso, affaristi di ogni risma, etc., e ventilare al tempo stesso l’incremento dei salari minimi e il taglio dei prelievi fiscali sui salari. Dove trovare le risorse necessarie in un contesto di stagnazione? come sostenere l’inevitabile scontro con l’UE e i mercati globali?

Confindustria, Bankitalia, Generali, Unicredit, Enel, etc. non hanno deciso a tavolino di far cadere il governo Lega-Cinquestelle. L’hanno semplicemente lasciato cadere, senza peraltro saper e poter imporre in pieno il loro volere ai due soci sempre più litigiosi. Del resto la classe capitalistica italiana non ha oggi un suo volere unitario centralizzato – e anche questo rende la situazione così confusa sul piano politico. È essa stessa divisa tra proiezioni verso gli Usa, accorpamento all’UE e debolissimi conati di autonomia; tra blocco capitalistico padano, conflittuale al proprio interno, e potenti mafie capitalistiche di origini sudiste. Diviso al suo vertice, frastagliatissimo nella sua base micro-imprenditoriale dove dominano pulsioni corporative, territoriali, sfrenatamente anarco-individualiste fino alla rivendicata illegalità. Alla borghesia italiana manca, poi, dal 1992 un partito organico paragonabile alla Dc, e sono andati in crisi i due soli partiti (Forza Italia e Pd) che per qualche tempo ne avevano fatto le veci. L’improvvisa, “pazza” crisi di agosto è il risultato di questo disordine, che riflette e amplifica il caos montante a livello internazionale. Con un’accorta regìa, Mattarella ha imposto la rapida soluzione della crisi di governo con un cambio di alleanza. Facendo emergere così che il Quirinale, in stretto collegamento con gli alti burocrati inamovibili dei ministeri, la polizia, i carabinieri, l’esercito, la magistratura, è oggi il solo punto di equilibrio del sistema a fronte di un intrico di poteri minori in furiosa contesa tra loro. I governi passano, lo stato resta (fin che non lo butteremo giù). Lo “stato profondo”? Lo stato. Lo stato del capitale.

Salvini sbraita: il Conte-2 è nato a Parigi, Berlino, Bruxelles. Vergogna, vi siete venduti allo straniero! Senonché il Salvini che urla contro l’asservimento alle potenze straniere, è lo stesso che ha cercato da anni spasmodicamente, senza fortuna, di farsi un selfie, che diavolo: un selfie!, accanto a Trump. Lo stesso che ha provato a trovare una sponda, e raccattare qualche milionata di euro, a Mosca. Lo stesso che in questi giorni non ha battuto ciglio davanti al trasferimento della sede-base di Mediaset da Milano ad Amsterdam, come non battè ciglio davanti all’analogo trasferimento di FCA. Lo stesso che mentre la borsa di Milano cadeva nelle mani di tre fondi speculativi yankee e veniva assorbita dalla borsa di Londra, stava sgranando il rosario. Lo stesso che mentre le multinazionali francesi, britanniche, statunitensi, spagnole si accaparravano i 3/4 della pregiata e storica industria alimentare italiana con epicentro nella sua Padania, dormiva della grossa – non sono altrettante cessioni di “sovranità”? Un sovranista da barzelletta, insomma – anche sotto questo aspetto il paragone con Mussolini e il fascismo non regge. Allora il capitalismo nazionale era in ascesa, e per questo osava pretendere per sé un posto al sole anche a costo di scatenare una guerra mondiale; ora, dopo decenni di discesa, non va oltre la scaramuccia verbale e si accontenta di un posticino a tavola, al banchetto dei “grandi”.

Senza dire che l’UE è tanto esterna quanto, anche, interna all’Italia, al capitalismo di “casa nostra”. Con la sua industria, la sua finanza, la sua diplomazia, il suo sistema universitario e quant’altro, l’Italia è UE. Gran parte della sua presenza e forza sui mercati internazionali è dentro il perimetro dell’UE. Il 57,5% dell’export italiano è verso gli altri paesi UE. Lo sa molto bene l’industria del Nord che trema vedendo arrivare la recessione in Germania. L’Italia, il capitale made in Italy non ha la potenza, la centralizzazione di quello tedesco o francese. Subisce e soffre, storicamente, la loro maggiore forza secondo le leggi brute e immodificabili dei rapporti di forza tra capitali e capitalismi “nazionali”. Né più né meno di come il Sud Italia soffre da centocinquant’anni per le conseguenze dello sviluppo combinato e disuguale del capitalismo nazionale, che ha costretto il più dinamico capitale del Sud a specializzarsi nelle attività malavitose. La pagliaccesca, inconcludente agitazione anti-UE di Salvini – che ha ingoiato senza fiatare i diktat di Bruxelles sulla finanziaria e sugli aggiustamenti di luglio 2019 – non ha trovato alleati stabili disposti realmente a far fronte con lui né a Parigi né a Budapest né a Vienna. Tanto meno in Germania dove Alternative für Deutschland è aggressiva contro tutti quelli, che “vivono al di sopra delle loro possibilità”, gli italiani per primi, e pretendono poi di accollare i loro debiti ai tedeschi. A fronte di proclami “sovranisti” molto rumorosi, risultati contabili magri. E i padroni, si sa, non sono sentimentali.

Insomma, l’irresistibile ascesa della Lega-Salvini è stata minata da forze esterne e da contraddizioni interne alla situazione italiana, che si riflettono anche dentro la Lega, in cui convivono almeno tre diverse politiche economiche[2]. Sullo sfondo di queste contraddizioni c’è il tentativo di Salvini di fare della Lega Nord un partito nazionale: secondo il suo collega di partito Maroni un tentativo fallito perché “ci sono due Italie”, e non si può “servirle” entrambe. Le fibrillazioni interne alla Lega sono in effetti cresciute via via che è risultato chiaro che i potentati meridionali e alcuni ministeri erano in grado di impedire l’autonomia pretesa da Veneto e Lombardia. Salvini ha cercato di tenerle a bada con una fuga in avanti propagandistica, esponendosi così alle manovre esterne (von der Leyen, Pd, etc.). E alla fine il governo è saltato per aria. Interessa poco se sia stato astuto o ingenuo nel rivendicare per sé i pieni poteri, e aprire la crisi. Ciò che conta è il risultato, e le contraddizioni che l’hanno prodotto.

 

Che tipo di governo è il Conte-2?

Molti immigrati e i lavoratori e i giovani che non tifano per Lega&Cinquestelle coltivando ancora qualche fiducia nella sinistra, hanno tirato un respiro di sollievo per l’estromissione di Salvini dal governo. È comprensibile. Ma dal punto di vista dei bisogni dei precari, degli operai, dei proletari immigrati, delle donne in movimento, il Conte-2 non sarà in nulla migliore del governo precedente. È un classico governo dei padroni, nato per “tenere in ordine i conti” dello stato (dei padroni), raffreddare le tensioni con l’Europa (dei padroni), rassicurare i mercati (dei capitali).

Nonostante il sostegno dell’UE, della BCE e dei mercati finanziari che gli hanno fatto un grosso regalo con la discesa dello spread, nonostante il patrocinio del Quirinale, il nuovo governo Pd-Cinquestelle nasce fragile. È frutto di uno stato di necessità (la volontà di evitare le elezioni), tra due alleati riluttanti, percorsi da fratture interne, che sono in contraddizione su tante questioni di rilievo e si fidano poco o nulla l’uno dell’altro. Ed è destinato a camminare sul filo del rasoio anche per le tante incognite di una situazione internazionale quanto mai instabile.

La navigazione del Conte-2 inizia quindi nel segno dell’incertezza, per ragioni ben più corpose dei franchi tiratori in parlamento e degli agguati della nuova cosca-Renzi, che certo non mancheranno. I suoi margini di manovra sono molto limitati. Sia per le regole di bilancio rigoriste dell’UE, che al più verranno un po’ allentate, sia per i pesanti ritardi accumulati dal capitale made in Italy nei settori di punta dell’innovazione tecnologica, nelle infrastrutture, nella funzionalità degli apparati statali – che ne ostacolano la competitività sul mercato mondiale e spingono il sistema-Italia, in cronico deficit di investimenti, a puntare le proprie carte sull’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e la precarietà strutturale più spinta. Quella che si prospetta è perciò una politica economica in larga continuità con il governo precedente, più sbilanciata ancora verso gli interessi del grande capitale. La “flessibilità” che sarà richiesta a Bruxelles riguarderà infatti gli investimenti, la spesa statale a sostegno del “capitalismo verde”, non la spesa sociale. Sulla spesa sociale dice tutto, in controluce, l’inquietante assicurazione di Conte: “non smantelleremo il welfare”…

Questo non significa che il governo Pd-5S sarà immediatamente un governo lacrime e sangue a senso unico contro i proletari. Dal momento che con il governo precedente i ceti medi accumulativi hanno fatto bingo; e dal momento che nasce con un consenso popolare assai ridotto; è possibile che il Conte-bis faccia qualche piccola concessione ai salariati per cercare di allargare questo consenso. I due ambiti di intervento per il 2020 sembrano essere il taglio del cuneo fiscale “a favore del lavoro” e gli asili nido. Dovrebbe slittare, invece, l’introduzione del salario minimo. La realtà è che giorno dopo giorno le promesse contenute nel libro dei sogni esposto dal trasformista Conte e dai sostenitori del neonato “governo di svolta” si stanno ridimensionando. Non a caso il ministro dell’economia Gualtieri prospetta una riduzione delle tasse spalmata nell’arco di un triennio e non si dà più per certo neppure il blocco degli aumenti dell’Iva. E però, se la crisi a livello internazionale non precipiterà nelle prossime settimane, nella finanziaria di fine anno una o due bandierine da sventolare davanti al “popolo” dei salariati per distrarlo da altri abbondanti prelievi di sangue, ci potrebbero essere.

Costituzionalmente fragile, dalla durata incerta, a maggior ragione dopo la scissione nel Pd e tanto più se dovesse esserci per davvero una scissione dei 5S, il governo Conte-bis è però insidioso per la classe lavoratrice e i movimenti di lotta. Perché gode del sostegno subalterno dei bonzi di Cgil-Cisl-Uil, impegnati a garantire la prosecuzione della mortifera “pace sociale” attuale in cambio della riapertura di qualche tavolo di concertazione, di un mini-taglio del cuneo fiscale e di nuove norme che colpiscano il sindacalismo militante. E la stessa cosa vale per tutta la sinistra istituzionale, da SI al “Manifesto”: ci ha salvati dal fascismo incombente, e tanto basta (vecchia brutta storia, questa dei fronti democratici antifascisti!). Il Conte-bis, inoltre, è in grado di gettare degli ami verso le proteste ecologiste con misure di facciata tipo eco-tasse contro specifiche forme di inquinamento e sgravi fiscali speciali per le aziende “verdi”. Può farlo anche verso la parte più istituzionale del movimento femminista chiudendo nel cassetto l’odiata proposta di legge Pillon e spendendo degli spiccioli per un po’ di asili-nido pubblici o per appaltarne altri ai privati. Anche sul terreno delle politiche migratorie, nella sostanziale continuità con i decreti-Minniti e i decreti-sicurezza vanto di Salvini, qualche ritocco potrebbe esserci: con una modesta ripresa del sistema Sprar e un accordo di massima (non facile da raggiungere, comunque) per la spartizione dei richiedenti asilo con gli altri paesi europei. Un cambiamento è già avvertibile nel linguaggio e nelle forme esteriori, con l’evidente intento di dividere il mondo degl’immigrati e ottenere il plauso di quanti nella gerarchia e nell’associazionismo cattolico hanno remato contro Salvini. Neppure l’ombra, però, di una svolta rispetto alla politica migratoria restrittiva, repressiva e criminalizzante verso gli immigrati del precedente governo. Tant’è che Di Maio già annuncia un piano-espulsioni.

Se riuscirà a rafforzare la “pace sociale” nelle fabbriche, obiettivo primo del famigerato “Patto della fabbrica” del marzo 2018 tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil; se riuscirà a scoraggiare dallo scendere nelle piazze almeno parte di quel che resta del sindacalismo di base, del movimento delle donne e dei giovani sensibili alle tematiche ambientaliste; il Conte-2 potrà durare un po’. E prepararsi ad attacchi frontali contro la classe lavoratrice e i movimenti sociali di lotta, che al momento non è in condizioni di fare. Per la borghesia, si tratta di una soluzione provvisoria. Si procede a vista, in una sorta di pantano. Anche se sono evidenti le manovre in corso per la piena normalizzazione del M5S, già avvenuta per quello che concerne il giuramento di fedeltà all’UE, e per semplificare l’attuale quadro politico iper-frammentato con la formazione di due blocchi di centro-destra (intorno a una Lega divenuta “più responsabile”) e di centro-sinistra (dove però manca il perno). Per il momento, l’assenza di iniziativa della classe lavoratrice non mette fretta alla folla di figuranti senza qualità che sgomitano per contendersi l’investitura dei grandi poteri da un lato, del “popolo” degli elettori dall’altro.

Nonostante la scoppola subìta, il più accreditato tra loro resta Salvini. Ha dalla sua il vantaggio di avere sfondato con la campagna di guerra contro gli immigrati in una fetta non piccola della società. E la sicurezza che la politica economica del nuovo governo non potrà accontentare le brame dello storico zoccolo duro della forza d’urto leghista, i padroncini e commercianti padani che già stavano leccandosi i baffi per la flat tax al 15%, l’uso illimitato dei contanti e la promessa di un condono fiscale permanente a prescindere. A Salvini è ben presente la congenita debolezza del Conte-bis, e punta ad accrescerla nelle prossime elezioni regionali e con iniziative di piazza. Qui cominciano i problemi. Perché nell’affollato raduno di Pontida più che un movimento nazionale nazionalista, si è visto il vecchio “popolo” padanista e regionalista, con tanto di gara tra Lombardia e Veneto a chi c’ha lo striscione più lungo, e striscioni personalizzati a lode di Zaia. Il “Siamo pronti a fare la rivoluzione” (se non ci danno l’autonomia totale) del governatore veneto, sempre cauto, dà la misura di un’insofferenza che coinvolge il capo, che di tutto ha parlato salvo che dell’autonomia del Nord. E comincia a temere perdite di consenso al Sud nelle cerchie dei governativi per vocazione e dei circuiti para-mafiosi che si erano radunati sotto il suo mantello di ministro degli interni per avere protezione. L’opposizione della Lega, o delle Leghe, al Conte-bis batte su più tasti che non sono coincidenti né convergenti. Ma siccome il malessere sociale diffuso che ha gonfiato un anno fa le vele dei “sovran-populisti” è destinato ad acuirsi a fronte della sostanziale continuità della politica di “austerità”, il seguito della Lega e di Salvini continuerà nei prossimi tempi ad essere ampio, e incazzato. Si tratta di non lasciargli in mano il monopolio dell’opposizione al nuovo governo dei padroni!

 

Che fare?

Accanto all’opposizione dichiaratamente di destra, sta prendendo corpo una opposizione “sovranista di sinistra” al neonato governo, che raccoglie dalla melma le bandiere lasciate cadere dai “traditori” Legastellati, su cui tanti “rosso”-bruni avevano riposto più di qualche speranza. Sebbene sia ancora frammentata in differenti ambiti organizzati, con un piedino dentro le istituzioni (Patria e costituzione di Fassina) e molte schegge fuori, si sta agitando parecchio. Il 12 ottobre scenderà in piazza a Roma il Comitato Liberiamo l’Italia, rigorosamente solo bandiere tricolori, per “liberare il paese dalle catene che lo soggiogano”. Nei giorni scorsi ha debuttato Vox Italia, dal programma a dir poco cristallino: “Il nostro motto è valori di destra e idee di sinistra (…) rivendichiamo appieno le idee della sinistra classico-marxista, non quella fucsia e arcobaleno, ma quelle di sinistra ‘rosse’ che hanno a cuore lavoro, diritti sociali, lotta per l’emancipazione, solidarietà. Rivendichiamo anche i valori della destra della borghesia come: la religione, la trascendenza, il senso della patria, il senso dell’appartenenza a una identità” (Fusaro). Una “sinistra” di destra, meglio: una destra “di sinistra”. Un lepenismo italiano che intorbida intenzionalmente le acque dichiarandosi “socialista”. Farà ben poco contro il governo in carica perché lo spazio che intende occupare – a meno di imprevedibili defaillance – è già presidiato dalla Lega di Salvini, e in seconda battuta da FdI della Meloni.

Un po’ più in là, restìa a mescolarsi con questa marmaglia che accusa giustamente di nazionalismo, c’è una parte della Rete dei comunisti che resta, però, anch’essa su un terreno “sovranista”. In quanto vede nello sganciamento dalla UE e dall’euro il passo preliminare o fondamentale da compiere sulla via della riscossa “popolare” e punta alla nascita di un’Unione euro-mediterranea (di stati borghesi) con l’Italia alla testa – un’altra parte è invece impegnata a dialogare con propaggini del nuovo governo, fregandosene del suo aperto europeismo. A sé sta il PC di Rizzo che il 5 ottobre chiama in campo l’opposizione sociale al governo su una prospettiva che, come provano il test-immigrazione e l’alleanza internazionale in cui questa formazione si colloca, è quella del socialismo nazionale e nazionalista di radice staliniana. In cui, in un modo o nell’altro, l’emancipazione degli sfruttati è subordinata agli difesa degli interessi nazionali (mai dimenticare che proprio in nome del primato degli interessi nazionali Rizzo, e non era più un bambino, approvò nel 1999 la guerra NATO alla Jugoslavia). Entrambe queste forme di “sovranismo”, quella bruna e quella verniciata esternamente di rosso con una (la Rete) o due (il PC) mani di vernice, per quante differenze ci siano tra loro, si contrappongono insieme alla rinascita del movimento proletario su basi autonome dal capitale e internazionaliste. E per questo vanno criticate e lottate come false alternative alla crisi finale del vecchio movimento operaio riformista – di cui sono epigoni.

A differenza di tutti costoro, noi comunisti internazionalisti siamo stati dal primo momento per la lotta senza se e senza ma al governo Lega-Cinquestelle, denunciando il doppio inganno del suo “patriottismo laburista”. “Né europeismo, né accodamento ai malumori anti-europei e anti-tedeschi di una parte dei piccoli e medi padroni”: questa la nostra posizione. Rifiutato il dilemma tutto capitalistico, comunque argomentato, tra pro-UE e anti-UE, pro-euro e anti-euro, ci siamo rivolti alle “poche lotte di resistenza che sono in piedi [per prime quelle dei facchini della logistica organizzati nel SI Cobas] con l’impegno di allargarne lo sguardo e il cammino in direzione della ricomposizione del campo degli sfruttati, oggi disorganizzato e disperso, in un fronte unico proletario anticapitalista”. A distanza di un anno rivendichiamo di essere stati in prima fila nella resistenza e nelle iniziative di lotta contro la guerra agli emigranti e agli immigrati che più di ogni altra cosa ha caratterizzato l’azione del governo Lega-Cinquestelle. Non siamo riusciti ad essere altrettanto efficaci su altri piani, è vero; proveremo a fare di meglio contro questo governo.

Su quale terreno?

Non sono in corso lotte proletarie significative capaci di imporre a tutti la propria agenda, eccettuata ancora una volta la logistica, dove però le lotte hanno assunto negli ultimi tempi un carattere prevalentemente difensivo; ne deriva che i terreni su cui intervenire sono di necessità quelli che hanno messo all’ordine del giorno il governo e l’opposizione leghista per conquistare simpatie popolari. E quindi anzitutto la questione fiscale e la questione salariale. Sono questi, oggi, i due anelli da afferrare per provare a scuotere la catena. Se poi “il movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti”, bizzarro com’è, dovesse comparire all’improvviso dove meno te lo aspetti, ne terremo immediatamente conto.

 

Questione fiscale: una vera patrimoniale! Le tasse le paghino i ricchi, non i lavoratori!

La campagna del vecchio governo sul “fisco amico”, l’agitazione leghista intorno alla flat tax e la promessa di Pd e sindacati di tagliare il cuneo fiscale hanno creato aspettative tra i proletari. Anche i lavoratori si aspettano un taglio delle tasse che incrementi le loro magre entrate. Senonché dalle due proposte in campo chi vive del proprio lavoro, per non parlare dei disoccupati, non ha nulla da guadagnare.

La proposta della Lega, vantaggiosa (e quanto!) per i ceti abbienti, ricchi e ricchissimi, avrebbe per la quasi totalità dei proletari effetti insignificanti perché farebbe scomparire le deduzioni, le detrazioni e forse gli 80 euro di Renzi, e per molti di loro effetti addirittura negativi. Tant’è che il suo spacciatore si è spinto a dire: l’adesione al nuovo sistema fiscale sarà volontaria, uno potrà rifiutarla se ci va a perdere. Ma anche la proposta di tagliare il cuneo fiscale di Pd e sindacati non è altro che una partita di giro a perdere, con il segno meno per la massa dei proletari. Le cifre fatte finora sono al solito ballerine. Comunque se i 5 miliardi di cui si parla fossero davvero stanziati tutti “a favore dei lavoratori”, ed è da vedere, si tratterà al massimo di 30-40 euro al mese. Finanziati come? O con nuove entrate fiscali messe sul groppone della fiscalità generale (cioè degli stessi lavoratori); o con tagli alla spesa previdenziale e sociale (idem); o con un aumento del debito di stato poiché calano le entrate contributive (idem); o con un mix di queste tre misure, che gravano sempre e comunque fondamentalmente sugli operai e sui salariati – essendo noto ai sassi che, tra elusione ed evasione, il carico fiscale sui profitti e le rendite è da decenni decrescente. Non è un caso che il taglio del cuneo fiscale sia visto di buon occhio dalle imprese perché darebbe ai lavoratori un incremento salariale immediato, alleggerendo le rivendicazioni salariali rivolte al padronato, e aprirebbe altri spazi d’azione al welfare aziendale che incatena l’operaio o il salariato ai risultati aziendali. Nel suo insieme, quindi, il taglio del cuneo fiscale è una noce vuota. Anzi, porta con sé la riduzione della massa complessiva dei salari (diretti e indiretti), e anche – nella grande maggioranza dei casi – dei salari effettivi individuali. Per quanto lì per lì si presenti, in un gioco di specchi, come un incremento del salario.

Bisogna rovesciare il tavolo!

Criticare, cioè, il senso comune che decenni di totale egemonia del pensiero capitalistico hanno creato tra i proletari. In tempi di sviluppo, di riformismo ancora in salute e di conflittualità operaia era prevalente l’idea che i ricchi dovessero pagare di più (secondo la progressività delle imposte); in tempi di crisi, contro-riforme e stasi delle lotte, una volta assunto come dato di natura che i ricchi diventino sempre più ricchi, nessuno osa più mettere in discussione l’andazzo. Per prevenire ogni tentazione, Conte ha alzato la voce: “Non faremo una patrimoniale“. Forse rispondeva a Landini che si era permesso di chiedere sottovoce “un sistema fiscale più equo”, frase inoffensiva che però potrebbe alludere (non più di questo) ad una diversa tassazione delle classi proprietarie. Nella Terza Repubblica del totalitarismo democratico è vietata anche l’allusione a simili delitti.

Noi comunisti, che dal 1848 (il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels) in poi, siamo sempre stati per l’imposta diretta fortemente progressiva sulle ricchezze, ce ne fottiamo di questo divieto e facciamo presente quanto segue. Dalla metà degli anni ’70 ad oggi è avvenuto un processo mondiale di formidabile detassazione dei profitti capitalisticidelle rendite e dei patrimoni più ingenti inaugurato negli Stati Uniti da Reagan e proseguito attraverso Clinton, Obama fino ai super-sconti fiscali di Trump (valore stimato: 1.000 miliardi di dollari). L’altra faccia di questo processo è un incremento delle tasse pagato dalle classi lavoratrici attraverso le imposte dirette, indirette e le tasse locali (che il federalismo fiscale moltiplica). Attraverso una serie di leggi di stato il sistema fiscale statunitense, che era diventato fortemente progressivo per le necessità di finanziamento delle guerre e, prima, per il timore del contagio rivoluzionario, si è trasformato in un sistema regressivopaga di più chi ha minori entrate. Il grande boss della finanza Buffet ne ha quantificato gli effetti: “io pago il 17% di tasse sulle mie ricchezze, la mia segretaria il 34% sul suo stipendio”.

Non è andata diversamente in Italia.

Al 1974 il sistema fiscale italiano, improntato alla progressività, aveva 32 aliquote: la prima al 10%, la più alta al 72% (distanza di 62 punti). Al 2019 la situazione è radicalmente cambiata: le aliquote si sono ridotte a 5, la prima al 23% è salita di 13 punti, l’ultima al 43% è stata abbattuta di quasi 30 punti – la distanza tra la più alta e la più bassa è passata da 62 a 20 punti[3]. D’altra parte l’Italia è già oggi, anche prima che venga introdotta una flat tax generalizzata, un paese di molte, parziali tasse piatte, la quasi totalità delle quali è a favore del capitale di tutte le taglie, dalla più minuscola alla più grande, e della rendita immobiliare[4]. Il sistema fiscale italiano ha poi una molteplicità di regimi speciali di favore legalizzati o di fatto. La beneficiaria storica è la Chiesa, massima proprietaria immobiliare d’Italia, chiamata a pagare l’Imu solo sugli stabili adibiti ad attività commerciali. Ma le mega-aziende di ultima generazione Apple, Ryanair, etc., e le altre (aziende petrolifere e edili in testa) non scherzano[5].

Insomma, l’impressionante ginepraio delle norme fiscali ha da decenni un’inequivoca direzione di marcia. Che ha toccato il suo limite estremo nei paesi dell’Est Europa, il paradiso delle flat tax al 10, 12, 16% (inclusa la Russia di Putin). E ha contribuito all’intensificazione della concorrenza fiscale tra paesi, all’interno dei singoli paesi e della stessa Unione europea (dove c’è una selva di paradisi fiscali totali, a cominciare dal Lussemburgo di Juncker). La cosa è arrivata al punto da allarmare perfino i bounty killer del Fmi: “un aumento della progressività della tassazione del reddito, pur introducendo distorsioni [!!], avrebbe effetti benefici perché contrasterebbe l’ormai eccessiva, e penalizzante per la crescita, disuguaglianza nella distribuzione del reddito”. Pensano, e chi sa se ci pensano davvero, a inserire qualche rallentatore alla tendenza di fondo alla cui affermazione hanno dato un contributo determinante.

Il risultato globale è a due facce: l’accrescimento dei profitti privati e delle rendite, da un lato, e dall’altro la creazione di un deficit strutturale nel bilancio dello stato “per costringere lo stato a ridurre le sue spese” (parole di Reagan). La crescita delle disuguaglianze di ricchezza, centralizza (cioè privatizza all’estremo) oltre che il possesso della ricchezza socialmente prodotta, anche il potere politico. Allo stesso tempo blinda questa centralizzazione attraverso la produzione di un crescente indebitamento di stato, che mette il potere di stato nelle mani dei suoi creditori. Ed ecco venire avanti, come nuovi amministratori di questo meccanismo anti-proletario per conto dei creditori, la coppia Conte-Gualtieri. Che ripete pari pari il mantra del duo Conte-Tria: “dobbiamo tenere i conti in ordine”. Quali conti? I conti del capitale nazionale, europeo e globale. Ancora una volta, terrorismo di stato sul debito di stato. Se i proletari non rovesceranno il tavolo, creperanno soffocati da questo vincolo. Rompiamolo, tuona Salvini. Anche Renzi l’ha detto: facciamo una finanziaria al 3% deficit-pil per un triennio, così risolviamo il problema dei limiti alla spesa statale. I pappagalletti “sovranisti di sinistra” rilanciano: bisognerebbe arrivare al 5-6% di deficit se si vuol veramente fare qualcosa di sociale. Sociale un’ulteriore crescita del debito di stato? e chi è deputato a pagarlo? Non è forse un debito accollato alle classi lavoratrici, che porta 50, 60, 80 miliardi annui nei forzieri delle banche e delle classi proprietarie? Lo stato, che si presenta come un equo sensale, è in realtà un secondo, e altrettanto feroce, espropriatore del lavoro, dopo i capitalisti individuali: sia con i prelievi fiscali diretti sui salari, sia garantendo ai creditori il pagamento del debito di stato con montagne di lavoro non pagato, che servono a coprire le voragini create dalla strutturale detassazione del capitale (e neppure ci riescono da quanto sono profonde). Nel linguaggio di stato, tipicamente orwelliano, si parla di cuneo fiscale come qualcosa che grava sui capitalisti. Assurdo! Tutto il prelievo fiscale operato dallo stato non è altro che una massa di lavoro operaio/proletario espropriato, in qualunque modalità avvenga questo prelievo: direttamente sui salari, o prelevando dai capitalisti una quota del loro profitto potenziale (che è, appunto, lavoro non pagato).

E allora? Noi siamo, è ovvio, per denunciare e stracciare il Fiscal Compact. Ma il Fiscal Compact non è la causa, è l’effetto. Dobbiamo osare indicare e attaccare le cause: la progressiva detassazione dei profitti e delle rendite e, insieme, la spaventosa, costosissima, inflazione degli apparati di controllo e di repressione dello stato. Sono questi i bersagli da colpire. E, ancora una volta, non è una semplice questione italiana o creata dagli alti, certamente detestabili, burocrati dell’UE: è una questione globale che può e deve unire i lavoratori su scala internazionale. I nostri nemici sanno che la questione è esplosiva, e non si potrà all’infinito tenerla sotto controllo. La loro ricetta politica l’ha indicata al governo Conte-bis il santone del grande capitale apolide, Prodi, puntando il dito sull’evasione diffusa, che – sostiene – è pari a 100 miliardi. Attacchiamola e risolveremo ogni problema. Il motivetto della lotta all’evasione fischiettato da volponi del genere serve ad accattivarsi simpatie operaie, a fare degli operai e dei salariati che pagano alla fonte, la massa di manovra contro gli evasori presi in blocco, e dall’altra parte ad eccitare i piccoli padroni contro gli operai. C’è una doppia trappola in questa profferta alla classe operaia che Conte ha ripetuto a Lecce a un convegno della Cgil, con il totale consenso di Landini: 1)quella degli evasori non è una categoria sociale omogenea: va dai miliardari (in euro) fino agli spiantati – ce n’è anche tra i piccoli accumulatori che vanno gambe all’aria a decine di migliaia l’anno (senza lacrime da parte nostra, e però anche senza confonderli con i pescecani); 2)i proventi effettivi di questa fantasticata caccia all’evasione diffusa non sono mai stati significativi. Il risultato sociale e politico più rilevante è stato, invece, quello di allontare il rischio-patrimoniale sulle grandi ricchezze e l’attacco all’elusione fiscale delle grandi imprese.

Noi abbiamo una proposta molto più seria ed “equa” della proposta-Prodi/Conte, per di più di facile e immediata attuazione: una patrimoniale sul 10% dei più ricchi. La Banca d’Italia ha stimato che in Italia il 10% più ricco della popolazione ha nelle sue mani circa il 40% della ricchezza totale. Poiché questa ricchezza (reale e finanziaria) ammonta a 9.800 miliardi di euro, si tratta di poco meno di 4.000 miliardi di euro. Un’imposta patrimoniale dell’1% su di essa darebbe 40 miliardi, una del 10%, decisamente più adeguata, darebbe 400 miliardi. Sarebbe tutto sommato una modesta misura di espropriazione degli espropriatori. Con questi proventi, senza accrescere il debito di stato – che per noi è da disconoscere in toto, non da moltiplicare come vorrebbero Salvini, Renzi e i “sovranisti di sinistra”-, si potrebbe cominciare a fare qualcosa di concreto per attaccare le vere emergenze sociali (altro che gli sbarchi a Lampedusa!): la precarietà, la disoccupazione, i bassi salari, i lunghi orari di lavoro per i proletari a tempo pieno, l’emigrazione dal Sud, la mancata prevenzione delle malattie, l’inflazione di infortuni e di morti sul lavoro, l’assenza di asili nido pubblici, di consultori familiari e di centri anti-violenza, l’inquinamento ambientale, il deficit di case popolari, la diffusione delle droghe, la riduzione dei servizi sanitari, le pensioni da fame, il dissesto di tante strutture scolastiche, e così via. Tanto più se questa misura di igiene sociale anti-capitalista (che non consideriamo rivoluzionaria in sé, ovvio) si combinasse con una prima potatura alle spese militari, anziché mettere in cantiere, come gli ultimi governi, investimenti per nuove armi di distruzione di massa. Questo doppio tabù – l’impossibilità di una vera patrimoniale e l’intoccabilità delle spese militari – va violato con una campagna di propaganda contro il fisco di classe e con un programma di rivendicazioni che rispecchi i bisogni delle classi lavoratrici. Violando questo doppio tabù, sarebbe un gioco da ragazzi detassare completamente i salari sotto i 20.000 euro annui e una buona parte delle pensioni. Ed è inutile dire che la gestione statale dei proventi di una tale patrimoniale dovrebbe essere sottoposta rigorosamente a organismi di controllo composti da lavoratori e lavoratrici su base territoriale.

 

La questione salariale: forti aumenti salariali e salario medio garantito

Passiamo alla questione salariale.

Uno degli effetti (immaginiamo involontari) delle proposte 5S d’introdurre il reddito di cittadinanza e il salario minimo, è stato di far venire alla luce il livello incredibilmente basso della media dei salari e, legato a questo e alla cronica disoccupazione, l’estensione dell’area della povertà e degli working poor. La scadenza in autunno di alcuni importanti contratti per milioni di lavoratori (metalmeccanici, servizi, logistica, etc.) ci dà, nonostante il clima moscio, l’occasione di parlarne in termini di classe, alternativi dalla a alla zeta rispetto ai minimalismi grillini.

Cos’è accaduto ai salari in Italia negli ultimi 40-45 anni? (E, ancora una volta, la tendenza è a carattere globale, Cina inclusa, dove negli ultimi dieci anni i salari reali sono molto cresciuti, ma è fortemente diminuita la quota-salari sulla ricchezza complessiva prodotta.)

C’è stata una secca riduzione della quota-salari del Pil rispetto alla quota-profitti&rendite: la prima è caduta dal 66% del 1975 al 52% del 2016, la seconda è balzata dal 34% al 48%. Se l’economia italiana ha perso punti nell’economia globale, la classe dei capitalisti ne ha invece guadagnati contro i lavoratori all’interno. Ha ingigantito la sua ricchezza (e il relativo potere) impoverendo e vessando operai/e e proletari/e. Questo è quanto. Che esista una vera emergenza salariale l’ha confessato l’ex-presidente Inps Boeri che fu contrario alla soglia del reddito di cittadinanza a 780 euro (rivelatosi, poi, una bufala) perché almeno nel Sud il 45% degli occupati non raggiunge quella soglia. E al di là del Sud, è accertato che i salari italiani sono tra i più bassi dell’Europa occidentale, e che il loro potere d’acquisto sta riducendosi lentamente da decenni anche per effetto dell’eliminazione di ogni meccanismo di indicizzazione.

Nel frattempo è cambiata anche la struttura del salario. Attraverso leggi o contratti sottoscritti da Cgil-Cisl-Uil, quote minoritarie ma crescenti del salario sono state subordinate alla presenza, alla produttività, agli obiettivi di profittabilità delle aziende: è la contrattazione di secondo livello, che corrode gli elementi unitari nelle singole categorie e rafforza l’assoggettamento dei lavoratori al primato degli interessi aziendali. Nella grandissima parte delle imprese, infatti, non ci sono contratti di secondo livello, mentre nelle imprese più grandi i dipendenti degli appalti e dei sub-appalti non hanno accesso agli incrementi di salario legati alla produttività. Alla Fincantieri di Marghera, ad es., il premio di produttività è riservato ai dipendenti diretti, benché su 4 lavoratori del cantiere, 3 siano degli appalti e sub-appalti – una riserva di tipo razziale perché la grande maggioranza degli addetti agli appalti sono immigrati dall’estero o dal Sud. La struttura del salario è cambiata anche per l’ampliamento delle prestazioni di welfare (privato) fornite dalle aziende, che sono preferite dalle aziende agli aumenti di salario in busta paga perché sono detassate, sostituiscono quote del salario diretto e garantiscono profitti alle ditte amiche. Tra i cambiamenti negativi avvenuti in materia di salari c’è anche la moltiplicazione dei livelli, con lo spezzettamento delle categorie. Dopo l’autunno caldo si affermarono l’inquadramento unico operai-impiegati, la riduzione dei livelli e i passaggi automatici di categoria – da decenni si marcia nella direzione diametralmente opposta (salvo che in alcuni magazzini della logistica). Un altro aspetto di grande rilevanza è la crescente presenza sui luoghi di lavoro di non-salariati, lavoratori (soprattutto donne) che si offrono per stage, o a cui viene offerto un contratto di stage spesso a semplice rimborso spese, o di semi-salariati, lavoratori con contratti part-time di poche ore, a chiamata, di apprendistato, che con un singolo rapporto di lavoro non arrivano a mettere insieme un salario pieno. Sono i dati Istat che lo certificano: aumenta l’occupazione, non aumenta l’ammontare complessivo delle ore lavorate. E si sta allargando il tempo di lavoro totalmente gratuito prestato dai salariati, se è vero che le ore di lavoro straordinario sono frequentemente erogate senza corrispettivo di salario. I lavoratori coinvolti in questi tipi di rapporti costituiscono la parte preponderante degli working poor attuali (nonostante, nel caso degli stage, il loro non sia considerato lavoro). E andando avanti su questa linea fatta di stage, lavoro sottopagato, ulteriore aumento delle percentuali di working poor negli anni a venire, sarà questa la condizione che prevarrà tra i giovani lavoratori senza diritti.

Poiché in questi decenni quasi tutti i luoghi di lavoro si sono popolati di lavoratori immigrati, è stato un gioco abbastanza semplice per i demagoghi anti-immigrati imputare a loro la caduta dei salari. Gli sbattiamo sul muso una doppia evidenza: in Italia i salari sono ai livelli più bassi proprio là dove di immigrati ce ne sono di meno, al Sud; e sono in netta crescita solo in un piccolo segmento dell’economia, una parte della logistica, proprio grazie alle lotte degli immigrati. Negli ultimi dieci anni, infatti, il SI Cobas ha strappato con la lotta contratti che hanno al loro interno forti, in alcuni casi fortissimi, aumenti salariali, passaggi di livello automatici in base agli anni di servizio nei magazzini, una riduzione degli orari di lavoro – e i protagonisti primi di questa lotta sono stati appunto proletari immigrati di decine di nazionalità.

Le cause di fondo dell’emergenza salariale, quindi, sono ben altre che l’immigrazione, e si riducono, stringendo, ad una: la spietata ricerca di tassi di profitto più alti dopo la caduta degli anni ’70 e ’80, specie in Italia e nella UE che debbono far fronte alla concorrenza selvaggia degli Stati Uniti e dei giovani capitalismi ascendenti. Questa/e cause di fondo vanno messe in luce. Borse, banche, fondi di investimento, Confindustria, Fmi, Ocse, UE, Maastricht, Banca d’Italia e relativi servi al governo (inclusi i governi di centro-sinistra, in Italia e ovunque), amministratori delle ferree leggi dello sfruttamento capitalistico: ecco i responsabili dell’emergenza salariale in corso. Altro che immigrati sui barconi!

Dunque, l’emergenza salariale ha due aspetti concatenati: riguarda la maggioranza degli operai e dei proletari alle prese con la perdita del potere d’acquisto dei loro salari “pieni”, e riguarda in modo speciale e drammatico una moltitudine di precari, occupati saltuari, stagisti, disoccupati, finte partite Iva, etc. La soluzione? Non può che essere anch’essa doppia e concatenata: forti aumenti salariali indipendenti da presenza, produttività e profittabilità, ripristino di un meccanismo di indicizzazione; salario medio garantito a tutti i precari, gli stagisti, i disoccupati, etc. Per sfida, si potrebbe perfino prendere in parola la proposta di 9 euro netti l’ora come minimo legale sotto il quale non può essere fissato il salario di qualsiasi contratto di lavoro, senza eccezioni e pena pesanti sanzioni legali. Si tratta, evidentemente, come per la patrimoniale sul 10% dei più ricchi, di proposte di un programma di lotta. Come non può esistere un governo capitalistico amico, così non esistono padroni buoni ben disposti ad aumentare i salari – se i Ferrero o i Del Vecchio sono in grado di dare gratifiche ai propri dipendenti, è perché gli hanno già rubato 2, 3, 5, 10 volte tanto di tempo di lavoro e di vita. Quindi solo un rilancio in grande delle lotte potrà mettere all’ordine del giorno, in concreto, l’incremento generale dei salari e il salario medio garantito. Per questo è da respingere integralmente, e non da civettarci, la politica del M5S. I Cinquestelle separano la questione del “salario minimo” dalla questione generale dei bassi salari, e nel precedente governo hanno varato leggi repressive che servono in generale a prevenire e stroncare le lotte, avocando in questo modo al governo e allo stato strangola-lotte il compito di regolare i livelli di salario e di consumo dei lavoratori più schiacciati. Di modo che, con il tempo, in un contesto di soffocamento del conflitto di classe, e grazie alla collaborazione di Cgil, Cisl e Uil – fino a che gli servirà -, i livelli salariali minimi diventino quelli verso i quali dovranno convergere tutti gli altri salari…

Dovrebbe esser chiaro che la nostra impostazione non ha nulla a che vedere con il redditismo di matrice “operaista” che ci ha assordato da decenni, ed è stato un ostacolo, non solo intellettuale, ai processi di ricomposizione del fronte di classe. Abbiamo affrontato qui la questione salariale in polemica con le proposte messe in campo da governo, Pd-Cgil e Cinquestelle perché è di queste che si discute nei luoghi di lavoro. Tuttavia, per noi, al di là del salario, la grande questione di fondo da sdoganare è quella della riduzione drastica e generalizzata della giornata di lavoro (a parità di salario). Al momento il tema è poco discusso e sentito a livello di massa. È vero: è nella piattaforma per lo sciopero del 25 ottobre, il Movimento di lotta-Disoccupati 7 novembre a Napoli ha ripreso la vecchia e sempre attualissima parola d’ordine “Lavorare meno, lavorare tutti”, e c’è a livello internazionale un circuito di metalmeccanici che si pone l’obiettivo delle 30 ore. E tuttavia siamo molto lontani dal fare i conti politici, a livello di massa, con il duplice, drammatico spreco della capacità di lavoro di miliardi di proletari/e. Perché oggi, nel mondo, e l’Italia non fa certo eccezione, a centinaia di milioni di lavoratori/lavoratrici è imposto un pesante sovraccarico di lavoro, mentre altrettanti e più uomini e donne che debbono lavorare a salario sono costretti, contro la loro volontà e contro le loro aspettative, all’inattività, o forzati a sopravvivere a stento con lavoretti precari, saltuari, umilianti, a orari e salari molto spesso ridotti. E le tendenze di fondo, che esprimono lo storico antagonismo capitale-lavoro in un nuovo contesto globale, sono verso la radicalizzazione, grazie anche all’uso capitalistico delle tecnologie di ultima generazione. Non vogliamo strozzare qui questo grande tema, solo anticipare che intendiamo tornarci a breve con la seguente parola d’ordine: “Lavorare meno per lavorare tutti/e, lavorare tutti/e per lavorare meno, per il lavoro socialmente necessario”, e dimostrare quanto questo tema abbia una doppia fondamentale valenza politica (non solo sociale), l’una immediata, l’altra di prospettiva.

Conosciamo l’obiezione: se passassero le vostre proposte sulla riduzione generalizzata della giornata lavorativa, i forti aumenti salariali, il salario medio garantito, fallirebbero la gran parte delle imprese e esploderebbe la disoccupazione. Il fatto è che da mezzo secolo, operando sempre più liberi da lacci e lacciuoli, da despoti assoluti liberi di fare e disfare, voi padroni del vapore e del web, e i vostri funzionari politici, avete creato questa situazione di precarizzazione generale, lavoro senza dignità, nuova emigrazione di massa anche dall’Italia, supersfruttamento. “Siamo il futuro senza futuro”: in queste amare parole di adolescenti c’è la condanna della vostra pretesa di avere la soluzione per il dissesto sociale che avete creato, e che consisterebbe nel continuare a torchiare il lavoro come prima e più di prima. Ecco perché una terza via non c’è: o passate voi sul corpo delle classi lavoratrici schiavizzate, o saranno le classi lavoratrici a passare sulle macerie del vostro sistema liberandosi dalle catene visibili e invisibili che oggi le imprigionano. A questo aut-aut storico si arriverà con il processo di approfondimento della crisi storica del vostro regime.

Se oggi siamo qui a porre rivendicazioni immediate di lotta, non è certo con l’illusione di renderlo più equo. È per incitare alla riscossa le immense forze dormienti della massa degli sfruttati e degli oppressi. La nostra soluzione non è: tutti paghino le tasse in proporzione, e tutti abbiano un salario dignitoso. È un sistema sociale in cui il lavoro non sarà più una merce venduta individualmente dai singoli in spietata concorrenza con altri venditori, una società in cui il lavoro dei singoli individui sarà parte di un’unica associazione produttiva di esseri umani liberi ed eguali, che taglierà di netto l’immensa attività produttiva anti-sociale, anti-ecologica, inutile che oggi ci appesta, produrrà secondo un piano generale dei consumi necessari a soddisfare i bisogni autenticamente umani e a dare gli aiuti necessari alle popolazioni che per secoli abbiamo, come Occidente, spogliato e trucidato, rottamerà quell’anticaglia chiamata azienda che produce solo per ammassare follemente profitti su profitti, non importa quanta distruzione e quanti morti semina sul suo cammino. Un sistema sociale in cui gli orari di lavoro giornalieri saranno abbattuti (eccola una soluzione-chiave che voi aborrite) e tutti i parassiti, privati della proprietà dei mezzi di produzione, saranno obbligati al lavoro; in cui le donne e gli uomini che oggi si vergognano perfino di definirsi operai/e saranno protagonisti della vita sociale e riconquisteranno anche la propria vita personale, liberi dalle mutilazioni che la divisione sociale, sessuale e internazionale del lavoro oggi impone loro; in cui il potere non sarà più nelle mani di tecnici ciechi davanti alle conseguenze dei propri tecnicismi, di esperti, di specialisti (in truffe), di politici di professione virtuosi negli inganni, né tanto meno nelle mani dei dottorini stranamore del voto elettronico a distanza; sarà nelle mani dei lavoratori auto-addestratisi a conoscere a fondo le questioni del mondo, della storia, delle scienze, accaniti nel partecipare al processo infinito della conoscenza umana attraverso lo spazio e il tempo. E sarà necessariamente un potere duro, dittatoriale su quanti cercheranno di riportarci all’indietro, e sarà capace di realizzare quella collaborazione paritaria tra popoli e culture che voi avete reso impossibile, pur avendo unificato il mondo riempiendolo però di massacri e di disuguaglianze…  Noi lo chiamiamo socialismo internazionale, e sappiamo che è la semplicità difficile a farsi, che ne è stato sfigurato il nome, etc. etc., ma era tanto per capirsi: voi non avete altra soluzione che rendere ancora più insopportabile questo presente, noi abbiamo una prospettiva luminosa, e contribuirete – contro voi stessi – a farla rinascere dalle sue ceneri. Avete talmente tanta paura di queste ceneri che i vostri tirapiedi al parlamento europeo di Strasburgo, a centodue anni dal 1917 (centodue!), si prendono ancora la briga di votare una risoluzione in cui pretendono di equiparare comunismo e fascismo… è un’ossessione!

 

L’immigrazione, la repressione, la NATO, e molto altro ancora

Ciò detto, torniamo al presente, che sta per noi su questa traiettoria internazionalista rivoluzionaria. Nel presente, delineando qui solo due punti che ci paiono essenziali per il programma di classe delle lotte immediate e nel presentarli alle avanguardie di lotta per la prossima stagione autunnale e per le successive stagioni, proviamo a raccogliere e tradurre in obiettivi i bisogni oggettivi che sottostanno al silenzio della classe. Con ciò né sogniamo di essere noi a smuovere la classe, né snobbiamo i movimenti trasversali a più classi sociali, dal battagliero movimento delle donne alle desideranti proteste ecologiste, entrambi a carattere internazionale, fino a quello francese del gilet jaunes o alle grandi proteste di massa algerine e sudanesi, tutt’altro! Semplicemente non siamo così modaioli da dire: ecco scoperti i nuovi modelli di movimento, addio vecchio proletariato – lo disse già un certo Gorz decine d’anni fa, e tanti “scienziati” anti-comunisti prima di lui, facendo metodicamente figure da fessi. Neppure dimentichiamo che i terreni di lotta contro il padronato e contro il governo Conte-bis appena nato non si esauriscono nella questione fiscale e in quella salariale. Il fatto è che sull’immigrazione crediamo di avere già detto e fatto qualcosina, ma possiamo ripeterlo ancora una volta per slogan: cancellazione immediata dei decreti-Minniti e Salvini, permesso di soggiorno europeo incondizionato per tutti gli immigrati presenti in Italia e nell’UE, completa parità effettiva di trattamento tra lavoratori autoctoni e immigrati, lotta senza quartiere al razzismo di stato e ai suoi agenti. E, quanto alla repressione, possiamo ripetere, non guasta, che la si sta sottovalutando molto, sia quella che ha per protagonista lo stato, sia quella agìta direttamente dai padroni; che è un’idiozia legare la prima al Salvini di turno, se è vero che con l’avvento del nuovo governo, “il più a sinistra della storia della repubblica”, stanno fioccando denunce, processi, arresti contro anti-militaristi, anarchici, militanti del sindacalismo di base, lavoratori e disoccupati comuni; che stanno per riprendere gli sgomberi, e nessuno degli strumenti repressivi e di controllo apprestati dal precedente governo sarà revocato; e, quanto alla seconda, la repressione attuata direttamente dai padroni, che dovremmo prendere molto sul serio la recentissima decisione di Amazon Italia di reclutare di preferenza manager con esperienza di comando militare. Perciò è per noi del tutto incomprensibile e suicida che si continui a fronteggiare questa azione razionale e sistematica centralmente organizzata dello stato, e la riorganizzazione sempre più militarizzata dei luoghi di lavoro, con risposte frammentate e locali, che si ignorano e magari sono addirittura in concorrenza tra loro – prima si abbandonerà la logica territorialista che già ha fatto tanti danni, meglio sarà. E poi, bisognerebbe prepararsi ad una protesta nazionale ben organizzata per l’assemblea generale dell’Ata, l’organismo della NATO per influenzare l’opinione pubblica, che si terrà a Genova a inizio di novembre. E a dare un contributo di merito più ricco al confronto tra il movimento delle donne e gli altri movimenti di lotta, un confronto avviato in vista dello scorso 8 marzo, che è passibile di importanti sviluppi per fronteggiare quell’assalto internazionale alla condizione e ai diritti delle donne che ben si è espresso nel congresso di Verona ed è lungi dall’essere archiviato, per fronteggiare insieme una quotidianità di doppia e tripla oppressione democratica sulla vita delle donne. E ancora prepararsi a dialogare in modo più serrato con le iniziative dei giovani ecologisti.

Il nostro programma di lavoro tiene presenti queste necessità. Ma questo testo voleva essere solo un segno di convinta adesione all’assemblea organizzata dal SI Cobas il 29 settembre a Napoli attraverso l’esame della nuova situazione politica in Italia, in vista dello sciopero del 25 ottobre, della manifestazione nazionale del 26 ottobre a Roma e dell’autunno contrattuale. La proposta di un fronte proletario di lotta anti-capitalista, di provare ad avvicinare e far cooperare tra loro i pochi e sparsi organismi di resistenza e di lotta oggi in campo ci convince. E deve darsi, secondo noi, come sua prospettiva la proiezione verso la massa degli sfruttati.


Note
[1] Quanto fosse consapevolmente truffaldina questa demagogia l’ha messo il luce Tria nell’intervista a “la Repubblica” del 21 settembre, sostenendo che l’introduzione della flat tax nella finanziaria 2020 “non è mai stata in discussione. Le dichiarazioni sulla riforma fiscale da fare in deficit, senza coperture, erano fatte a soli fini politici [cioè per truffare il pubblico], ma io nella mia bozza di manovra, concordata con i viceministri Garavaglia [della Lega] e Castelli [dei 5S], avevo scritto ben altro. (…) C’era scritto che avremmo scongiurato la clausola di salvaguardia sull’aumento dell’Iva (23 miliardi), in parte (8 miliardi) con entrate fiscali aggiuntive [quindi con un aumento di tasse] e risparmi di spesa su quota 100 e reddito di cittadinanza, e per il resto con il taglio delle spese tendenziali [altri tagli alla spesa sociale], uno sfoltimento delle agevolazioni fiscali [un altro modo per maggiorare il prelievo fiscale] e misure anti-evasione”. Della flat tax neppure l’ombra, perché “non possiamo permetterci una detassazione di 17 miliardi”. Forse, forse, forse, si sarebbero potuti trovare dei fondi per qualche modesta riduzione dell’Irpef, ma solo a condizione di alzare “alcune aliquote agevolate” Iva [altro aumento di tasse, “assolutamente escluso” dal duo di bari Salvini e Di Maio]. Con Salvini ho vinto sempre io, afferma il sornione Tria: e chi può dargli torto?
[2] L’una fa capo a Giorgetti, che è l’uomo di collegamento col sistema bancario e grande-imprenditoriale privato italiano, cioè padano, e con la stessa BCE, apertamente contrario a ogni avventura (lodato da Monti per ciò che fece nel 2011-2012 a favore della messa in Costituzione del Fiscal Compact); l’altra fa capo a Siri&Co., sostenitori di illimitate agevolazioni fiscali alla piccola impresa, dei condoni tombali e della legalizzazione dell’evasione fiscale; la terza ai Borghi-Bagnai, che teorizzano l’uscita dall’euro e dall’UE come via per far rinascere l’economia italiana, e confezionano invenzioni “tecniche” per avviarla (i mini-bot liquidati da Giorgetti come un’idiozia).
[3] E se Berlusconi non riuscì a portare a termine la sua promessa elettorale di due sole aliquote al 23% e al 33%, il suo erede universale leghista la rilancia estremizzando: 15% e 25% – la distanza tra le due aliquote verrebbe così ridotta a 10 punti, ampliando a dismisura la quota di sopralavoro, di lavoro non pagato, di cui si possono appropriare, attraverso un sistema fiscale di massimo favore, capitalisti e redditieri.
[4] Eccole:
  •  5% per le imprese start-up in regime forfettario, per 5 anni
  • 15% per le partite Iva fino a 65.000 euro di giro di affari, e per le lezioni private
  • dal 10% al 21% la cedolare secca sugli affitti, anche se sei proprietario di 1.500 appartamenti
  • dal 12,5% al 26% per gli utili da attività finanziarie
  • 10/11% per la rivalutazione dei terreni di qualsiasi valore
  • 10% su straordinari, premi di produttività, lavoro notturno – sia per i dipendenti, che per le imprese.
[5] Nel 2014 Ryanair ha evitato di pagare 9 milioni di tasse. Nel 2015 la Apple ha dichiarato 150 milioni di fatturato a fronte dei 9 miliardi effettivi. Le aziende petrolifere godono di un sistema di franchigie per cui non solo non subiscono una tassazione specifica come avviene in altri paesi, ma pagano royalties solo in 18 casi su 69 concessioni in mare, e in 22 delle 133 concessioni di terra, astraendo dai sussidi e incentivi che intascano. L’ultimo cioccolatino per le imprese edili è arrivato con il decreto-crescita firmato Di Maio: “Compro, ristrutturo e rivendo con soli 600 euro di imposte”, così lo sintetizza “il sole 24 ore” del 3 luglio, e l’agevolazione dura fino al 31 dicembre 2021 …

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claudio
Saturday, 12 October 2019 16:10
Direi che prima di tutto occorre sintetizzare questo lungo romanzo, in modo da capire le vostre posizioni, poi, se del caso, si possono prendere in considerazione. Nell'attesa, penso che non ne valga la pena.
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