Una spinosissima questione teorica, politica e pratica
di Algamica*
Forse è opportuno prendere di petto una questione teorica, politica e pratica che ci trasciniamo da circa due secoli, fra quanti si sono richiamati, in un modo o nell’altro, agli ideali del socialismo e del comunismo. E lo facciamo partendo da un fatto: le drammatiche difficoltà della causa palestinese in questa fase di fronte al genocidio che sta subendo a opera dello Stato sionista di Israele che agisce in proprio e in nome e per conto dell’insieme degli interessi dell’Occidente. E ancora più nello specifico riprendendo uno scritto del 24 dicembre di un militante palestinese di Birzeit, Omar Abdaljawad1 circa la questione dell’agire politico tra fazioni del popolo palestinese.
Cerchiamo di essere ancora più chiari: nella storia del movimento socialista e comunista è tradizione consolidata il metodo della polemica e delle invettive non solo contro i «nemici di classe», ma anche nei confronti dei più prossimi compagni dello stesso percorso teorico politico. A riguardo c’è tutta una letteratura partendo dai grandi padri fino ai più umili e ultimi militanti, dove l’ardore per la polemica molto spesso prende il posto delle argomentazioni, sfuggendo, in questo modo, alla necessità di affrontare le cause in questione per rifugiarsi nella responsabilità di individui e o gruppi dirigenti di partiti, sindacati, e così via.
Dunque non una questione teorico-filosofica fra le volte dell’astrazione, ma cerchiamo di parlare dei fatti nella loro concretezza.
In questo periodo viene proiettato in tutte le sale cinematografiche un film su Enrico Berlinguer, un’operazione politica, per così dire di “alto” profilo, il cui sottofondo propagandistico vuole essere la tesi del “grande” leader di aver fatto una giravolta sulla questione della Nato dicendo di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello a direzione Usa. Era il lontano 1976, circa 50 anni fa, ma si sa che quando il presente è poco luminoso ci si appella alle anime nell’al di là. Basta pensare che la figlia, la signora Bianca è passata alle reti della Fininvest dell’odiata famiglia Berlusconi.
Ora: era un rinnegato Berlinguer o si trattava di un processo storico iniziato con la Resistenza e via via era giunto al suo più logico e coerente compimento? Non a caso di lì a pochi anni crolla il muro di Berlino e implode l’Urss. Dunque il Pci, attraverso il suo segretario carismatico completava un percorso ma contemporaneamente anticipava anche quella che sarebbe stata la sua dissoluzione come partito. Sarebbe potuto andare diversamente se al posto di Berlinguer ci sarebbe stato un altro segretario? Chiacchiere da osteria a tarda sera.
Veniamo alla questione che ci sta a cuore con riferimento alla questione palestinese ponendo questo interrogativo: la vittoria o la sconfitta da cosa dipende? Nel rispondere a questa domanda dobbiamo essere seri, ovvero analizzare le forze in campo piuttosto che ricorrere con prose struggenti a eroismi di leadership.
Ora Omar Abdaljawad fa uno sforzo sovrumano nell’affrontare la questione che si pone oggi dinanzi ai palestinesi e a quanti hanno amato e difeso la loro causa. Lo fa non da occidentale che ha manifestato nelle metropoli agiate e sazie di tutto e di più, ma dalla Cisgiordania, cioè da un’area sotto pressione da parte del sionismo dello Stato di Israele. Uno Stato che agisce in nome e per conto dell’insieme dell’Occidente, che dopo il genocidio perpetrato a Gaza sta procedendo nell’area circostante terrorizzando ogni tentativo di autonomia economica e politica di fazioni arabo-islamiche mentre gli Stati sono imbrigliati dalle leggi del mercato e incapaci, perciò, di difendere una causa storica di propri simili, come quella della popolazione palestinese che rischia l’estinzione in nome del controllo delle materie prime dell’area da parte dell’Occidente.
Uno scenario simile pone a ogni palestinese due sole possibilità: morire da eroe o assoldarsi al nemico. E a chi non è palestinese pone – seppure dall’esterno – la stessa questione: giustificare senza condizioni la determinazione all’eroismo e condannare senza appello l’assoldamento oppure giustificare la resa senza condizioni e porsi al servizio del padrone sionista e occidentale contro i suoi simili palestinesi con tutti i mezzi del caso. È piuttosto facile condannare chi si “offre” assoldato, mentre è molto più complicato sostenere il martirio in modo particolare quando alla sua insorgenza seguono lunghi mesi di ininterrotto genocidio.
Ora ridurre al comportamento dell’individuo le ragioni di una guerra è riduttivo e fuorviante e non aiuta, perciò, a capire la natura vera dello scontro in atto in Medio Oriente e non solo. E per capirlo siamo costretti ancora una volta a leggere chi difende le ragioni dei potenti, come ad esempio quell’Ernesto Galli della Loggia che dalle pagine del Corriere della sera non le manda a dire e dopo aver definito il genocidio che si sta perpetrando a Gaza contro i palestinesi della stessa portata storica della distruzione di Dresda nel febbraio del 1945 contro il nazismo quale «male assoluto» oggi rimprovera agli occidentali e in primis agli europei di non possedere la stessa determinazione che hanno gli ebrei – popolo ubris – nell’usare la forza contro il nemico, con riferimento esplicito alle ipocrite critiche che determinati ambienti politici rivolgono allo Stato sionista di Israele. L’ultima prova di quella determinazione è stata data dalla distruzione dell’ultimo ospedale a Gaza come messaggio inquietante del criminale Netanyahu: «vivi o morti via da Gaza »! Sempre per le medesime ragioni, mentre la Corte Penale Internazionale emetteva un mandato di arresto per crimini di guerra nei confronti di Netanyahu, gli intellettuali prezzolati a difesa del dominio occidentale condividono il ritratto che Bibi dà di se stesso nella sua autobiografia, ossia quello di incarnare il Wiston Churchill del XXI secolo a bastione contro un diverso e peggiore «male assoluto».
Posta la questione nei termini che coerentemente la pone Ernesto Galli della Loggia, perchè di questo e solo di questo si tratta, il popolo palestinese non ha scampo, perché allo stato attuale delle cose i paesi arabo-islamici oltre che parlare e finanziare gruppi disponibili all’eroismo in difesa di quella causa, non vanno oltre per le ragioni sopra dette: sono imbrigliati nelle leggi del mercato e la difesa di interessi che nel mercato assumono un valore infinitamente maggiore della difesa coerente e conseguente del popolo palestinese. Così stanno le cose.
Se poi ci sono ipocriti sognatori che dall’”alto” di concetti ideologici assurdi pensano a una purezza di classe, quella proletaria, come garanzia di conseguenza “rivoluzionaria”, beh lasciamo perdere, stanno fuori da ogni pensiero umano.
Dunque il popolo palestinese non si deve confrontare solo con la forza bruta dell’esercito israeliano e con l’Occidente che gli sta dietro ma anche con l’indifferenza da parte dei paesi arabo-islamici che, come dice lo stesso Omar Abdaljawad, sonnecchiano, dando campo libero allo Stato sionista di Israele di sterminare i palestinesi a Gaza ed estendere il raggio d’azione per tutto il Medio Oriente contro i tentativi di gruppi votati al martirio in difesa di un principio sacrosanto: la propria terra, la propria autonomia, la propria necessità di sviluppo e accumulazione.
Si capisce bene, perciò, che non di direzione politica si tratta, ma di due opzioni che la storia sta ponendo di fronte: in Medio Oriente non c’è nessuna – ribadiamolo a chiare lettere nessuna – possibilità che nel quadro dello status quo si possa costituire uno Stato palestinese– sintetizzato nella espressione di due Stati per due popoli - e tutti quelli che cianciano su questa tesi mentono sapendo di mentire, a cominciare dai democratici americani per finire all’ultimo idealista europeo, oppure arabo o islamico che sia.
Lo diciamo per scoraggiare i palestinesi? No, lo diciamo per la lettura che diamo dei fatti, in modo particolare per l’analisi circa la gravità di una crisi economica, politica e sempre di più anche sociale, che il modo di produzione capitalistico ha imboccato. Una crisi che impone – ecco il vero punto qualificante dell’analisi in questione – all’Occidente la legge del mors tua vita mea, ovvero che per sopravvivere come sistema deve andare ben oltre il livello di criminalità che ha speso per gli ultimi 500 anni e ne sta dando prova a Gaza.
Ha ragione Ernesto Galli della Loggia a esortare gli occidentali a spendersi senza remore nella difesa estrema dell’Occidente contro il nuovo «male assoluto» costituito da una destabilizzazione del Medio Oriente costituito dalla rivendicazione di una terra e una patria per i palestinesi, perché in questa fase storica del modo di produzione capitalistico in Medio Oriente gli arabo-islamici devono essere polverizzati come potenza (della qualcosa se n’è accorto pure il sornione Lucio Caracciolo che senza mezzi termini lo ribadisce una volta si e un’altra pure). La ragione è molto semplice: quando la coperta si fa corta si riducono le possibilità di coprire tutto il «corp », ovvero l’insieme delle forze che compongono il mercato mondiale e questo determina una guerra senza condizioni per assumere il controllo indiscussodelle materie prime, non a caso sono scoppiate due crisi in due corni del mondo capitalistico: in Ucraina prima e in Medio Oriente poi.
A certi ciarlatani di “sinistra” che ancora oggi mettono in discussione la « legge del valore », che ha sviluppato il modo di produzione capitalistico, andrebbe posto sotto il naso la capacità degli ebrei, in modo particolare quelli che si rifanno al sionismo, di capire l’attuale crisi della produzione di valore che rischia di far saltare il sistema nel suo insieme. Per questa ragione rafforzano la loro determinazione, anche criminale e ne sono ben consapevoli, a smantellare ogni possibilità che possa infrangere, dunque indebolire, il dominio occidentale in Medio Oriente per il controllo delle materie prime. La verità storica è che il sionismo ebraico ha saputo allevare le leggi del modo di produzione capitalistico sconfiggendo il nazismo per un verso e scoraggiando il comunismo fino a integrarlo nella sua stessa concezione liberista, almeno per gran parte dei paesi dell’Est europeo e cercando di mettere alle corde la Russia dopo che l’Urss è imploso come “sistema” aggregato di nazionalità e di mercato.
Ora siamo al redde rationem, ovvero al momento cruciale per cui l’insieme dell’Occidente sta perdendo in concorrenza con l’insieme dell’Asia e sta avendo un calo demografico pauroso proprio quando avrebbe maggiore necessità di incrementare la sua crescita per una sovrapproduzione di mezzi di produzione e di merci.
In questo «redde rationem» un Ernesto Galli della Loggia coglie nel segno, e contro una parte molle dell’establishment occidentale scrive «Ma la riprovazione che ci piace muovere a Israele » a noi occidentali, sottinteso «per il suo uso spregiudicato della potenza, mi chiedo, non è forse solo un modo per cercare di nascondere a noi stessi la nostra impotenza? Per cercare di nascondere la rassegnazione da parte nostra, da parte dell’Occidente europeo, a non avere più alcun ruolo nelle faccende del mondo, al fatto di esserci virtualmente ritirati dalla storia»?
Ecco la posta in gioco nella fase del «redde rationem» che la parte più cosciente, più avveduta sa capire e trarne le dovute conseguenze senza mistificazioni e ipocrisie, ma chiamando le cose per il loro nome e attrezzandosi di conseguenza. Il personaggio è coerente in una fase che richiede «coerenza» convinzione e determinazione piuttosto che mollezza politica. Ed afferma senza nascondersi che « Israele e l’ebraismo contrappongono una diversa modernità: che mostra viceversa una sostanziale continuità con la dimensione religiosa e che forse non a caso, lungi dal conoscere la disperazione, si ostina a tenere accesa la fiaccola della speranza ».
Altro che antisemitismo pietistico alla Liliana Segre ripetuto a ogni piè sospinto, qui siamo al cospetto della difesa dell’hybris ebraica, ovvero alla convinzione e ostentazione della propria superiorità come “razza bianca” padrona rispetto ad altre “razze” che nella crisi generale del moto-modo di produzione si dà un colpo di reni per non soccombere e che anzi si ripropone con tutta la convinzione del caso.
Che gli ebrei si siano distinti in modo particolare negli ultimi secoli nello studio di tutte le scienze e nell’eccellere in esse è fuori discussione, proprio per i caratteri “ecumenici” di una interpretazione religiosa che considerava la concorrenza nelle relazioni di mercato un elemento da accogliere senza temere lo straniero e dunque sintetizzare al meglio i risultati innovativi dello scambio tra Oriente e Occidente. E che si siano messi al servizio di leggi economiche dettate dalla natura dello scambio e della produzione del valore lo è altrettanto. E che con l’incedere dell’epoca rivoluzionaria “dei lumi”, proprio per la fedeltà degli ebrei delle diverse nazionalità europee alla loro tradizione religiosa e a quel particolare ecumenismo - che orientò tra l’altro molti di essi verso il movimento socialista internazionale - essi divennero quel vulnus interno da eradicare da parte dei moti risorgimentali e dei nazionalismi europei che sorgevano come potenze in virtù del loro precedente e continuo saccheggio coloniale. Che abbiano saputo antivedere il determinarsi dunque di processi storico-economici e perciò politici, ridefinire l’ebraismo nella sua forma nuova del nazionalismo sionista come forma particolare del colonialismo imperialista delle potenze europee e inventarsi come “popolo etnico” unico e nazione è alla prova dei fatti storici. Che si siano prestati, dunque, a fare da cani da guardia per conto dell’Occidente in Medio Oriente è altrettanto certo. Che riescano a essere lungimiranti come pochi è fuori di ogni discussione. Che sono stati capaci di scalare le più alte vette dell’economia e della cultura più ancora della politica è chiaro come la luce del sole, basta guardare negli Stati Uniti, dove nel giro di pochi messi sono stati capaci di far destituire dal governo delle più prestigiose Università americane rettori non allineati e tra questi due donne afroamericane.
Detto tutto ciò, cerchiamo di fare i conti all’interno di una tendenza ideale, utopica, composita e variegata, fin da molto prima di Marx a tutt’oggi come quella che cerca di articolare una critica valoriale al modo di produzione capitalistico che si avvolge su sé stessa senza venirne a capo proprio perché è incapace di mettere in discussione i cardini del modo di produzione capitalistico. E proprio per questo motivo la sua critica è monca e priva di sbocchi. Ci si appella il più delle volte al fatto che l’Occidente abbia imboccato la via del liberalismo, come se il capitalismo potesse arrestarsi di fronte a leggi che lo obbligano a divenire tale nella fase più avanzata.
Si vuole un esempio a riguardo? In un libro di recente pubblicazione Critica della ragione liberale, il professor di filosofia morale Andrea Zhok, afferma «Non c’è mai nella ragione liberale alcuna profondità etica» p. 345.
Oibò, verrebbe da dire, e perché mai ci dovrebbe essere una etica se liberalismo vuol dire libertà assoluta, che nei rapporti economici e non solo vuol dire libertà dei più forti contro i più deboli? È il professor Zhok che deve rendersi conto di non conoscere le leggi dell’economia e dello scambio che si basano solo ed esclusivamente sull’”etica” dell’accumulazione e del profitto. Sicchè non vi può essere un limite a quelle leggi. Aveva ragione Hayek e quanti al suo seguito. E il professore è ingenuo a tal punto che in chiusa del suo libro osa scrivere « E il limite è esattamente ciò che deve essere reintrodotto nel sistema, pena il suo collasso» p. 356.
Il punto teorico-politico in questione è proprio nella contraddizione che palesa Zhok: il non comprendere il ruolo delle leggi impersonali della storia del moto-modo di produzione capitalistico e finisce per augurarsi (beato lui!) che siano reintrodotti dei «limiti» al sistema. Dunque «osanna!» al capitalismo non liberalista. Campa cavallo.
Per tornare alla questione posta da Omar Abdaljawad nel suo scritto del 24 dicembre 2024 diciamo che la patente di traditori nei confronti di miseri uomini schiacciati dalla potenza straordinaria di un nemico feroce è sbagliata, perché si parte dalla constatazione del fatto, ma non dalle cause che l’hanno determinato, così facendo si finisce per assegnare agli individui una libertà di arbitrio antistorica. E lo stesso Abdaljawad è costretto a denunciare la posizione corresponsabile degli Stati arabo-islamici che sparano parole contro l’Occidente, mentre Netanyahu spara bombe di ogni tipo su Gaza e tutta l’area confinante. È questa poi la differenza che conta.
La storia del movimento operaio socialista e comunista è straricca di “tradimenti” e di “traditori”, un linguaggio che dovrebbe essere messo fuori dalla letteratura della storia.
Il metodo che qui poniamo all’attenzione di quanti si accalorano sulla questione palestinese e della storia degli oppressi e sfruttati va ancora e di più impugnato nei confronti di quanti si sono spesi in eroismo contro il dominio barbarico, come nel caso specifico, dei palestinesi da parte dell’Occidente attraverso lo Stato sionista di Israele.
Sia detto senza mezzi termini: a chi oggi di fronte al disastro genocida allude all’azione del 7 ottobre 2023 con un non detto ma bisbigliato nelle orecchie per far intendere (a chi di dovere) «se ne valeva la pena», vale da parte nostra un giudizio senza appello del riconoscimento che esso è stato un momento rivoluzionario in quanto conseguente alle necessità dei palestinesi ridotti alla disperazione. Perché se è vero che degli uomini miserabili interpretano la ragione dei miserabili, degli uomini coraggiosi sono l’espressione della disperazione degli oppressi e agiscono non in base a un calcolo, ma in base alla forza di inderogabili necessità. E per paradossale che possa apparire lo diciamo senza mezzi termini, in Medio Oriente si confrontanodue disperazioni: una quella dei palestinesi che dopo 80 anni di soprusi hanno dovuto reagire, senza calcolo; l’altra quella dell’Occidente, dello Stato sionista di Israele e di Netanyahu. All’oggi ha avuto successo la seconda disperazione, quella del più feroce e potente.
Che fare allora, a questo punto? È una domanda che serpeggia nell’animo di tanti militanti sia arabo-islamici che comunisti, è inutile nascondercelo e a chiare lettere, ancora una volta diciamo chenon saremo certamente noi a consigliare o sconsigliare di intraprendere o meno azioni contro un nemico potente, questo lo fanno certi ideologi “marxisti” legati al principio kautskiano-leniniano dello sviluppo della coscienza da introdurre dall’esterno nella classe o fra gli oppressi per educarli alla rivoluzione. Mentre il nostro è un punto di vista che si basa sul determinismo storico, sono le condizioni che si determinano volta per volta che fanno emergere lotte e sue avanguardie allo stato dato. Successe con la Comune di Parigi nonostante i pareri di Marx, successe nel febbraio marzo del 1917 nonostante le remore dei bolscevichi, successe il 7 ottobre 2023 nonostante la sonnolenza e la collaborazione dei paesi arabo-islamici. Pertanto non possiamo in alcun modo fregiarci di chissà quale qualifica per consigliare ai palestinesi, e non solo, cosa fare o non fare in questa fase.
Così è in Palestina e Medio Oriente nel momento presente per la thàlatta delle masse arabe e palestinesi che Abdaljawad Omar con lucida analisi descrive al riguardo del sotteso della collaborazione con l’impianto colonialista e imperialista del sionismo, gli USA e la EU quando descrive i mesi del genocidio in corso:
«…mentre il mondo guardava, lo stesso facevano i palestinesi che vivevano all’interno del dominio israeliano, la cui sopravvivenza si è basata su un calcolo difficile, scommettendo segretamente sulla cooperazione come mezzo per sopravvivere. Per loro, sopravvivere significa navigare negli ingranaggi implacabili della macchina, sperando di sopravvivere al suo peso schiacciante, anche a prezzo di tale cooperazione…», una necessità di sopravvivenza, come scrive più avanti, che « compone un’infrastruttura economica finemente sintonizzata sul consumismo, che opera come logica materiale e simbolica. Questa infrastruttura non si limita a plasmare i desideri di una popolazione, ma impone attivamente condizioni in cui la sottomissione appare come l’unica linea d’azione “razionale”, ma anche quella che soddisfa il desiderio di seguire le tendenze di TikTok, di innamorarsi in un moderno centro commerciale o di aprire le porte di una vita in cui il paradiso dei prodotti di consumo è facilmente disponibile. In questo senso, il tradimento non è solo una scelta politica, ma diventa una modalità di esistenza, ammantata dal linguaggio della necessità e dell’inevitabilità. »
Di fronte a questo, i comunisti non giudicano secondo principi etici o morali, bensì sono chiamati a ricavare e descrivere la relazione materiale degli uomini con i propri bisogni soddisfatti dalla produzione di merci e dal loro consumo attraverso il mercato, ovvero cogliere quella che è una descrizione scientifica, antropologica, materialista (ovvero di leggi deterministiche) della dipendenza degli uomini verso questa relazione. Nei primi mesi dell’offensiva israeliana a Gaza, alcuni giovani della Striscia si adoperarono a realizzare una rete di hot spot per fornire servizi di accesso a internet ai telefonini, scaricare gli episodi in streaming di serie televisive arabe famose, in modo tale che la gente e i più giovani potessero continuare a seguire nonostante tutto le serie TV preferite o le sintesi delle partite del Liverpool dove gioca Salah. Chi sta comodamente seduto in Occidente e idealisticamente si richiama moralisticamente agli ideali del comunismo avrebbe potuto sentenziare “ma che cavolo, possono essere queste le preoccupazioni del momento per i giovani di Gaza”? Noi, viceversa, comprendiamo le leggi impersonali che determinano il bisogno realizzato attraverso la merce e la necessità di continuare la vita attraverso il rapporto con le relazioni dello scambio. Così come il nostro giudizio verso il 7 ottobre è stato e rimane quello già scritto, non ci precipitiamo a condannare gli uomini e in particolare le masse povere a tra queste quelle più oppresse arabo e palestinesi di Gerusalemme, Ramallah, Hebron, ecc. che ancora non si sollevano con estremo coraggio. È la stessa considerazione al riguardo dei saccheggi di massa fatti dagli afroamericani quando si sollevano contro il razzismo. Poi in un tempo recente passato durante la rivolta di George Floyd, giovani afroamericani e giovani bianchi, piuttosto che saccheggiare hanno letteralmente raso al suolo i centri commerciali con le merci dentro e con esse anche le condizioni materiali dei loro salari sottopagati, un picco “inusuale”, temporaneo e diverso rispetto all’usuale saccheggio di merci futili.
Piuttosto dobbiamo sapere noi in Occidente, che ci riteniamo, il più delle volte a torto, avanguardie di chissà cosa, a continuare a sostenere la mobilitazione e la battaglia di propaganda contro l’Occidente e il suo cane da guardia in Medio Oriente, prestando l’orecchio a ciò che si muove nel mondo oltre la nostra volontà e la nostra ideologia, nella consapevolezza che la disperazione di Israele e dell’Occidente, attraverso il genocidio, sta spingendo la thàlatta composita di milioni di arabi e palestinesi nel buio oltre la siepe. I poveri di spirito magari si meraviglieranno, noi affermiamo che è nell’ordine delle cose e cerchiamo di stare al posto che ci compete. Lavoriamo per questo!
Ma resta alquanto semplicistico e equivoco affidarsi passivamente a una concezione entropica e fatalista dei fatti economici e del capitalismo.
Infatti la fantomatica e apodittica legge impersonale, che determina i bisogni, che a loro volta si realizzano nella merce e acquisiscono continuità temporale nello scambio, potrebbe essere ignorata e sostituita dalla triviale credenza che si è sempre nel migliore dei mondi possibili, che ciò che accade è quanto deve accadere.
Viene accreditata una sorta di deresponsabilizzazione di soggetti antagonici e in particolare di un partito dotato di un solido punto di vista marxiano, (se spuntasse, per grazia divina, sarebbe il caso di dire), quando per venire meno il ruolo di uno specifico soggetto rivoluzionario, nei termini teologici e di autoconvinzione ipotizzati da Marx, sembrerebbe emergere, a maggiore ragione, una sua assoluta necessità nello spazio politico.
Se poi uno è convinto che tutto vada sempre per il meglio e secondo legge deterministica, non dovrebbe affliggersi se altri, con maggiore o minore intelligenza e successo, si organizzano o agitano in chiave di conflitto e definizione di obiettivi alternatici, dato che il tutto rientrerebbe comunque nella provvidenza divina ovvero legge naturale capitalistica del mondo.