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ilpedante

Avengers: Infinity War

di Vito Plantamura (aka Tom Bombadillo)

box office avengers infinity war record 1Nelle more di nuovi articoli, e in altre faccende scrittorie affaccendato, ricevo e pubblico volentieri il contributo di un amico, lettore e commentatore del blog, Tom Bombadillo. Si tratta della recensione di un film di grande successo proiettato in questi giorni anche in Italia. Nel rilevare un cambio di paradigma nella cinematografia di intrattenimento americana - e quindi globale - l'autore registra l'emersione anche subliminale di temi bioetici e biopolitici che sembrano destinati a occupare sempre più spazio nel mainstream, oltreché nei commenti della cronaca. Nella trama del nuovo cult della Marvel-Disney l'idea di una "igiene del mondo" che lo renda più sostenibile ed equo, di un'umanità di troppo di cui ci siamo già occupati in altro modo sul blog, si insinua nella riflessione degli spettatori giovandosi di una dialettica morale inedita dove il male si contamina con il bene, diventa bene superiore e si veste da ragion di Stato, qui anzi dell'Universo.

Non abbiamo mai scritto in queste pagine di sovrappopolazione, pur sapendolo un tema molto caro ai sovrani del nostro tempo: letteralmente e non. Né saremmo in grado di farlo con competenza, salvo osservare in punto di metodo una curiosa convergenza: tra i messaggi apocalittici di una denatalità che renderebbe insostenibili gli standard di vita odierni - da cui la prescrizione di imbarcare carne umana dal Terzo Mondo, quella che "ci pagherà le pensioni" - e i messaggi apocalittici di un'esplosione demografica che... renderebbe insostenibili gli standard di vita odierni. E condividere con i lettori la sensazione, netta, che in un regime di riduzione e selezione eugenetica delle vite umane non saremo noi a dettare i tempi, i modi e i numeri dell'austerità biologica, come già oggi di quella fiscale.

Né chi ce li impone, come già oggi, a subirli [il pedante].

***

Nelle sale cinematografiche di tutto il mondo sta riscuotendo un enorme successo commerciale l’ultimo film della Disney, Avengers: Infinity War, che si basa sulle avventure di un gruppo di supereroi della Marvel (la casa editrice dell’Uomo Ragno, dei Fantastici 4, ecc., mentre la DC è quella di Superman, Batman, and so on), appunto i Vendicatori, e, in particolare, su una saga fumettistica, «il guanto dell’infinito», nella quale, per altro, i Vendicatori non avevano un ruolo di primissimo piano. Ma evidentemente il grande successo della serie di film di Iron Man interpretato da Robert John Downey Jr. (personalmente, trovo strepitoso il suo Sherlock Holmes) ha consigliato di adattare la trama per includere i personaggi più cari al pubblico cinematografico.

Fin qui, nulla quaestio. E allora perché scrivere di un film che, nonostante stia sbancando i botteghini in tutto il mondo, dovrebbe essere un prodotto di solo, puro - e, in verità, affatto efficace - intrattenimento, senza alcuna ambizione culturale, né, tanto meno, politica? La risposta si trova tutta nelle convinzioni politico-economiche del cattivo di turno, Thanos di Titan, che nell’universo fumettistico Marvel, è un cattivo classico, senza troppi chiaroscuri: innamorato della morte, uccide per puro piacere (nonché per compiacere la sua amata, di cui è devoto, fino all'ossessione), ha ucciso la sua stessa madre (successivamente, pure il padre, mentre si diletta nel torturare suo fratello Eros, reo di essere belloccio, a fronte della sua deformità: non a caso, mitigata e ingentilita nella versione cinematografica), compie esperimenti scientifici su cavie umane e vuole conquistare e dominare l’intero universo. Insomma, è uno che fa sembrare Adolf Hitler una dama di carità. Nel film, invece - la cui importanza non si deve sottovalutare solo perché non lo si è visto, in quanto sta raggiungendo folle oceaniche - Thanos diventa disinteressato; anzi, altruista. Vuole sì sterminare metà delle persone dell’universo, ma non per fare colpo e finalmente conquistare la sua amata morte (nel fumetto, personificata). No, lui si preoccupa solo della prosperità delle persone, e si rende conto che il dimezzamento delle popolazione è l’unico modo per portare il benessere - e parliamo del livello di sussistenza (la dialettica è, letteralmente, pance piene vs pance vuote) - nei mondi poveri, nonché per evitare la catastrofe e la distruzione dei mondi floridi.

Vaneggiamenti del cattivo di turno, direte voi. Mica vero. Le teorie malthusiane, nel film, sono dimostrate dai fatti (immaginari, del film stesso). A Gamora, che gli rimprovera di aver ucciso metà della popolazione del suo pianeta, Thanos risponde facendole notare che prima il suo pianeta era poverissimo mentre, dopo il suo intervento, è diventato un sorta di paradiso terrestre. Al dottor Strange, che osserva la desolazione del pianeta natio del cattivo (nel fumetto il riferimento è a Titano, una delle lune di Saturno), Thanos mostra con i suoi poteri come il pianeta fosse invece splendido prima dei problemi causati dalla sovrappopolazione: lui aveva avvisato che era necessaria la cura drastica che sappiamo, ma gli altri abitanti non gli avevano creduto, lo avevano esiliato, e così avevano finito per condannare l’intero pianeta. In definitiva, qui siamo di fronte al mito della scarsità delle risorse portato al suo estremo, poi dimostrato empiricamente (sempre a livello immaginario), e, per giunta, reso del tutto insensibile a ciò che invece, nella realtà, ha eliminato la questione della scarsità delle risorse, falsificando (ove mai ve ne fosse stato bisogno) le teorie malthusiane: ovverosia la rivoluzione industriale e tecnologica. Viceversa, lo spettatore è portato a pensare che, se perfino nell’ipertecnologico e futuristico mondo di Thanos si finisce per fare la fame se non si dimezza la popolazione, figuriamoci cosa succederà nel nostro che, al confronto, pare abitato da poco più che cavernicoli.

Evidentemente, cinquant’anni di frigoriferi traboccanti, di colesterolo alle stelle e di diffusissimi problemi di obesità, nonché gli ultimi dieci anni di crisi economica per eccesso di offerta, e non di domanda, di beni (beninteso: non che la domanda non ci sia, ma la si sterilizza privandola del bene di scambio, ovverosia creando artificialmente la scarsità della moneta convenzionale), non riescono a scalfire nell’uomo comune il timore irrazionale della scarsità delle risorse, che infatti è ancestrale, perché è dentro di noi da millenni - da quando, cioè, i nostri antenati dovevano impiegare tutto il loro tempo per procurarsi lo stretto necessario per sopravvivere - ed esercita sulle masse un’attrazione tanto fatale quanto acritica.

Nel film, il buono che ha i mezzi per opporsi a un tale cattivo è niente meno che Thor, il dio guerriero del tuono. Sebbene la pellicola si apra con una sua sonora e agevole sconfitta per mano di Thanos, il dio del tuono - pur scampato solo miracolosamente alla morte - non se ne cura: è certo che la seconda volta le cose andranno diversamente, e vincerà. La sua fede nella vittoria finale è granitica, non a caso sono millenni che combatte mostri del genere, finendo sempre per prevalere. La questione è interessante, perché qui si tocca un vero e proprio pilastro dell’ideologia Disney, ovverosia il cosiddetto wishful thinking. Come cantava Cenerentola, i sogni son desideri di felicità e «if you keep on believing, the dream that you wish will come true». Si tratta di una concezione fondamentalmente neoliberista, cioè calvinista, dove il rovescio della medaglia è che, se invece poi non ce la fai a realizzarti, in fondo la colpa è solo tua che non ci hai creduto abbastanza.

Come finisce lo scontro tra questi due liberisti, il malthusiano Thanos e l’imprenditore di se stesso Thor? Facile, direte voi, vince il buono. E invece no. Sorpresa, sorpresa. Credo di poter affermare senza tema di smentita, infatti, che trattasi, in assoluto, del primo film Disney in cui vince il cattivo. Sì, avete capito bene, vince il cattivo. E uccide metà della popolazione universale, sconfiggendo contemporaneamente anche la colonna portante del pensiero disneyano: ché infatti tutto si può rimproverare a Thor, tranne la mancanza di fiducia nei suoi, per altro eccezionali, mezzi. Certo, ci sarà un seguito (d’altronde, la serie di questi film rappresenta una vera e propria miniera d’oro, e sarebbe impensabile abbandonarla proprio ora che rende di più), in cui il cattivo finirà per perdere. Ma, per adesso, il film si è concluso con il “tenerone” Thanos (ché tale diventa nella trasposizione cinematografica) che ha vinto, contro tutto e tutti, imponendo ai supereroi quei sacrifici necessari - perché tali sono, come ampiamente dimostrato dai fatti (immaginari) del film - ai quali loro, per eccessiva gentilezza d’animo, per incomprensione, nonché per una certa mancanza di risolutezza, si opponevano.

Vi ricorda qualcosa?

Questa recensione non può concludersi senza un paragone con un’altra opera cinematografica, che, di primo acchito, può destare perplessità, ma che a un più attento esame offre utili spunti. Mi riferisco al bellissimo film degli anni ’40 del secolo scorso, Ich klage an, concepito dal ministero della propaganda nazista come manifesto per l’eutanasia attiva. I favorevoli all’eutanasia attiva - che di certo non ci staranno ad essere accumunati ai nazisti: eppure Hitler era vegetariano ed animalista, il che fa tanto politicamente corretto - replicheranno che il film in questione voleva predisporre soprattutto al famigerato programma T4, successivo a quello di sterilizzazione magistralmente trattato in un altro straordinario vecchio film, Judgment at Nuremberg.

Nel film in questione non si parla dell’Aktion T4. Circostanza alla quale si dovrebbe obiettare che, una volta passata nel metodo l’idea che si debba o si possa uccidere un uomo per ragioni di opportunità (ad es. perché soffre molto e non potrebbe guarire), nel merito l’asticella dell’opportunità può essere lentamente spostata a piacimento senza suscitare soverchie preoccupazioni. Si tratta probabilmente di un’obiezione che dispiacerebbe ai sostenitori dell’eutanasia attiva, i quali preferirebbero allora negare che il film fosse diretto a suscitare nel popolo l'accettazione del programma T4.

Ma non è questo che rileva in riferimento al film degli Avengers. I punti di contatto sono altri, anche se sempre di “assassini a fin di bene” si tratta. Mi ha colpito piuttosto l’analogia dei due film nel saper rendere gradualmente accettabile un esito finale che all’inizio del film risulterebbe invece irricevibile per lo spettatore. Nel film tedesco si vuole giungere a rendere accettabile l’eutanasia attiva dei neonati (e quindi, a fortiori, quella degli adulti che non possono esprimere un valido consenso) e, per far questo, si parte dall’eutanasia di un animale (una cavia di laboratorio), si passa da quella di un adulto consenziente e si finisce appunto con quella di un neonato, che (purtroppo?) non può materialmente compiersi, ma che è vissuta dai personaggi positivi della storia (compresi i genitori dell’infante) come la - se pur terribile - soluzione migliore. Non diversamente, nella produzione USA, si inizia con l’uccisione di un personaggio ambiguo, a volte schierato coi cattivi e altre volte coi buoni, si passa all’uccisione di una supereroina, per concludere con l’assassinio di metà della popolazione universale.

Inoltre, anche nel film tedesco ci sono due personaggi buoni in opposizione: il medico e lo scienziato, entrambi innamorati della donna malata (che è la moglie del secondo) proprio come, se vogliamo, Thor e Thanos. Entrambi i protagonisti hanno il potere di fare ciò che andrebbe fatto, ovverosia uccidere la donna secondo le sue richieste (o, se preferite, indossare il guanto dell’infinito e uccidere metà della popolazione universale), ma il primo non ha il coraggio, la visione, la risolutezza per fare ciò che andrebbe fatto. Sia il medico che Thor (o Iron Man), cioè, sono indubbiamente dei buoni, eppure non lo sono a sufficienza per sopportare il peso di una scelta tanto difficile: non amano abbastanza. Come emerge chiaramente nel dialogo cardine del film tedesco, dove il medico rinfaccia allo scienziato (medico anch’esso) che sua moglie aveva chiesto anche a lui di ucciderla, ma lui non l’aveva fatto perché l’amava. “Io l’ho fatto perché l’amavo di più”, risponde il marito.

Allo stesso modo, l’antieroe malthusiano del film Disney, lungi da essere rappresentato per ciò che è - in definitiva, un odiatore dell’umanità - finisce perfino per apparire “più buono dei buoni”, per poter vantare una superiorità morale. La stessa superiorità morale, del resto, di cui i media mainstream hanno sempre ammantato quei “tecnici” che, lungi da dare ai popoli ciò che essi (irresponsabilmente?) richiedevano, hanno invece propinato loro quella (responsabile?, necessaria?) durezza del vivere che in tante, troppe occasioni, si è trasformata in una durezza della morte (si pensi ai sucidi e agli aborti legati alle problematiche economiche, nonché al diminuito accesso alla sanità pubblica: paradigmaticamente, se hai un infarto, non è certo indifferente, ai fini della tua sopravvivenza, quanto dista l’ospedale attrezzato più vicino) o, comunque, della compressione della vita, come è dimostrato dalla denatalità.

I media mainstream, però, sono ormai in declino. L’informazione viaggia su altri canali. E allora che fare? La soluzione è l’intrattenimento. Far passare messaggi politico-economici attraverso spettacoli di intrattenimento, come, in primis, i film, mi pare l’ultima e più subdola frontiera del controllo del dissenso, e questo, evidentemente, a prescindere dalle intenzioni, e perfino dalla totale inconsapevolezza dei temi politico-economici di fondo che, con certezza oltre ogni ragionevole dubbio, avrà caratterizzato gli ideatori dell’ultimo capolavoro Disney come quelli dell’italianissimo film Quo vado? di cui pure, non a caso, a suo tempo ritenni utile scrivere una recensione.

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