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La controriforma dell'Università

Guido Liguori

La situazione dell’università italiana e le responsabilità del centrosinistra. Come la «controriforma Gelmini» peggiora la situazione: privatizzazione,  precarizzazione, fine del diritto allo studio, controllo sui contenuti della ricerca e sulla trasmissione del sapere. La lotta degli studenti e dei precari è destinata a continuare, per il diritto allo studio, al lavoro e al reddito.

La «riforma Gelmini», una vera e propria «controriforma» dell’università, è stata approvata subito prima di Natale da un Parlamento insensibile alle proteste non solo delle piazze, ma anche di vaste componenti del mondo universitario: studenti, ricercatori (precari e non), docenti, presidi, interi consigli di facoltà e corpi accademici hanno invano provato a far sentire le proprie ragioni, hanno invano provato a fermare questo ulteriore e più grave passo della università pubblica verso il baratro.

Il governo Berlusconi anche in questa occasione non ha mancato di mettere in moto la propria principale risorsa – una macchina propagandistica e massmediatica fondata sulla ripetizione ossessiva delle proprie «verità» di comodo – cercando di confondere l’opinione pubblica e di nascondere ai non addetti ai lavori la gravità dei provvedimenti assunti, la situazione reale delle università italiane, le responsabilità e le finalità che stanno dietro il loro stato attuale.

Ma anche «poteri forti» (in primis la Confindustria) e grandi giornali sono scesi incampo per difendere il testo di legge: che dunque risponde a interessi reali e spesso taciuti, trovando consensi sia a causa di alcune storture presenti nell’università italiana – che la «controriforma» però aggrava –, sia per il clima creato nella pubblica opinione da una martellante campagna dei media contro i «baroni» e i privilegi, veri o presunti, del mondo accademico, una vergognosa «macchina del fango» a cui pochi si sono sottratti.

Per cercare di diradare la fitta nebbia artatamente fatta scendere su tutta la materia a opera di editorialisti illustri e talk show sempre più simili a incontri di wrestling, proverò a riepilogare i punti principali del testo approvato in via definitiva dal senato il 23 dicembre scorso (che considero nella versione pubblicata dal Sole 24 ore del 24 e del 28 dicembre) – mettendolo a confronto con la situazione attuale delle università e cercando di fare chiarezza sulle novità reali che introduce.


La situazione attuale e le colpe del centrosinistra

Prima di procedere nell’esame del testo è necessario fare una premessa: quale è la situazione odierna dell’università italiana? Come è mutata negli ultimi anni? L’epoca dei grandi cambiamenti del nostro sistema universitario è iniziata a metà degli anni Novanta, quando si discusse e poi si introdusse, alla soglia del nuovo millennio, il sistema detto del «3+2», fortemente voluto dal ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer e dal ministro dell’Università Ortensio Zecchino, ministri (oltre che docenti universitari) nei governi dell’Ulivo dal 1996 al 2001. Nel 1999, sulla scorta della precedente «dichiarazione della Sorbona» del 25 maggio 1998, un accordo tra Germania, Francia, Regno Unito e Italia (quest’ultima rappresentata da Luigi Berlinguer), ventotto Stati europei si impegnarono con la Convenzione di Bologna a rendere omogenei i rispettivi sistemi universitari secondo questo «modello» importato dal mondo anglofono, per consentire la comparabilità dei titoli conseguiti nelle università europee. L’orientamento fu immediatamente recepito in Italia (ad appena quattro mesi di distanza da Bologna), con il decreto n. 509 del 1999, a rimarcare il ruolo protagonistico avuto in tutta la vicenda da Luigi Berlinguer. Con l’introduzione del «3+2» il ciclo formativo universitario venne spezzato in due: un primo ciclo di tre anni e un secondo ciclo di altri due anni, alla fine del quale si sarebbe conseguita una «laurea specialistica» (poi detta «magistrale»).

Come molti videro subito e come l’esperienza ha confermato, questo cambiamento si tradusse in un peggioramento sostanziale della preparazione universitaria. Il ciclo triennale risultò inutile perché non poteva essere sufficiente a preparare seriamente a nessuno sbocco professionale (infatti in molti paesi esso non dà diritto al conseguimento di una laurea vera e propria), il ciclo biennale superiore spesso rischia di essere parzialmente ripetitivo.

Contestualmente si iniziò a conteggiare i risultati conseguiti dagli studenti non per esami sostenuti ma per «crediti» (e si iniziò parallelamente anche a parlare di «debiti formativi»). Con questo linguaggio bancario – una concessione all’«americanismo» e alla dittatura dell’economico sulla società imposta dal neoliberismo – si intendeva il fatto che gli studenti per laurearsi non dovessero sostenere un numero definito di esami, ma conseguire il numero di «crediti» stabiliti in modi varianti: con corsi ed esami da 8 crediti, con corsi ed esami più brevi da 4 crediti, persino con miniprove complementari o con stages e tirocini o esperienze lavorative da 2 crediti. La frantumazione della didattica e dei carichi di studio, si disse, serviva a rendere più fruibili i contenuti dell’insegnamento, agevolare l’apprendimentoe diminuire il numero dei fuoricorso, male endemico dell’università italiana.

Un tragico errore: i corsi e i carichi di studio divennero per forza di cose più «leggeri» e vacui singolarmente presi, la loro parcellizzazione in molti casi fece ostacolo a una seria preparazione, senza neanche alleviare le difficoltà degli studenti, impegnati a seguire un notevole numero di minicorsi, senza avere il tempo di un approfondito studio individuale. L’università si avvicinava notevolmente al modello di un liceo a tempo pieno (mentre la preparazione liceale, tranne eccezioni pur esistenti, scadeva sempre più, consegnando all’università studenti molto meno preparati che in passato). L’obiettivo di impedire che si formassero i fuoricorso non è stato raggiunto. Negli anni più recenti un altro ministro di centrosinistra, Fabio Mussi, cercò di ovviare ad alcune delle distorsioni più evidenti, fornendo la direttiva di corsi ed esami più corposi. Si dovrebbe così tornare gradualmente di fatto allo stesso numero di esami precedenti all’introduzione dei «crediti». Nel 2004 la ministra Letizia Moratti aveva intanto confermato (con il decreto n. 270 del 2004) l’impianto della riforma Berlinguer-Zecchino, peggiorandolo, stabilendo ad esempio che anche il primo ciclo triennale conferisse il titolo di «dottore».


E al centrodestra non è parso vero…

Mentre avveniva questo profondo riordino normativo degli studi universitari, non si aveva nella misura necessaria (prevista dalla stessa Convenzione di Bologna) un deciso spostamento di risorse verso la formazione, l’università e la ricerca – all’altezza di una società, la «società della conoscenza», che richiedeva di investire proprio su questo fronte. Ciò ha sbilanciato il sistema, fondato dall’inizio degli anni Novanta (L. 537/1993) sulla cosiddetta «autonomia universitaria», che favoriva un aumento dell’autonomia di spesa dei singoli atenei, dando così il via a distorsioni localistiche – quali il passaggio alla fascia su-periore di un nutrito numero di docenti, sia pure spiegabile in larga misura con un sistema concorsuale che da lungo tempo era fermo, nonché con livelli retributivi tra i più bassi del mondo.

La crisi economica degli ultimi anni, e soprattutto le politiche economiche del centrodestra, le scelte concrete operate dal governo Berlusconi, hanno poi aggravato radicalmente la situazione: la politica di tagli radicali del ministro Tremonti ha portato tutte le università a una situazione di grave sofferenza e quasi di collasso. Si sono potuti tagliare solo parzialmente gli stipendi (bloccando gli scatti biennali previsti e i relativi incrementi), ma si sono prosciugate tutte le altre risorse necessarie per l’attività indispensabile perché una università sia degna di questo nome: si sono così drasticamente ridotti i fondi per l’attività di ricerca e culturale, si è bloccato il reclutamento delle nuove leve, si sono fermati o ritardati concorsi già banditi (cambiando in corsa addirittura regole già pubblicate dalla Gazzetta Ufficiale), sono divenuti impraticabili i contratti a tempo determinato. Sono state soprattutto colpite rovinosamente tutte quelle forme di finanziamento per i giovani più portati al lavoro di ricerca e in prospettiva all’inserimento nel mondo accademico: il taglio drastico delle risorse ha portato alla cessazione degli assegni di post-dottorato e dei dottorati di ricerca con borsa. Ogni anno da quando la destra è tornata al governo le risorse per l’università sono diminuite sensibilmente (circa un 10% l’anno), portando gli atenei alla paralisi – sulla base del resto dell’orientamento espresso da Tremonti, secondo il quale«con la cultura non si mangia» (mentre nella società odierna, e in un paese come l’Italia, potrebbe essere vero l’esatto contrario).

Si è così voluto colpire duramente l’università pubblica, per poterne denunciare l’inefficienza e poter procedere alla «controriforma». Efavorire parallelamente l’università privata, fino a ora in Italia notoriamente meno efficiente e prestigiosa. Riprendendo ripetutamente idee e proposte cresciute nel centrosinistra, nel Pd o nei partiti che lo hanno costituito (il concepire l’«autonomia universitaria» equiparando per alcuni aspetti una università a una azienda; il commercio con i privati tramite la costituzione di «fondazioni universitarie» avvenuta nel 2001; l’accettazione e l’esaltazione a più riprese del sistema americano), il modello verso cui il centrodestra marcia con la riforma Gelmini e con la strozzatura finanziaria dell’università pubblica è il modello statunitense, in cui le università migliori (e tali da garantire impieghi sicuri) sono private e costosissime, mentre le università pubbliche, economicamente più accessibili, sono di serie B. Si prepara così un futuro in cui si avrà un forte aumento delle tasse universitarie e, più in là, la fine del valore legale del titolo di studio, con atenei di Serie A, B e C a seconda delle tasse d’iscrizione richieste e della possibilità di poter trovare occupazioni migliori.


Il potere e i privati

Passiamo ora a esaminare gli aspetti più rilevanti della «legge Gelmini», iniziando dalla questione della governance, ovvero dei nuovi poteri chiamati dalla controriforma a gestire gli atenei. È uno degli aspetti più importanti, se non il più importante. L’art. 2 della legge aumenta il potere dei rettori, depotenzia il ruolo del Senato accademico (eletto dalla diverse componenti dell’università) e soprattutto affida al Consiglio di amministrazione gran parte delle finalità «controriformistiche» dell’intero progetto. La legge infatti prevede l’«attribuzione al consiglio di amministrazione delle funzioni di indirizzo strategico, di approvazione della programmazione finanziaria annuale e triennale e del personale, nonché la vigilanza sulla sostenibilità finanziaria delle attività». E ancora al Consiglio di amministrazione è riservata «l’attivazione o soppressione di corsi e sedi», la «competenza a conferire l’incarico di direttore generale», la «competenza disciplinare relativamente ai professori e ricercatori universitari», la «competenza ad approvare la proposta di chiamata da parte del dipartimento».

Non è chi non veda la rilevanza dell’insieme di tali funzioni, non puramente di tipo economico-amministrativo-gestionale, ma tali da lasciar immaginare la possibilità di un controllo politico-culturale sugli stessi insegnamenti, oltre che sulle linee-guida della ricerca. Come non pensare, ad esempio, che finiscano «soppressi» corsi giudicati inutili o scandalosi solo perché estranei al «pensiero unico» dominante? Come non temere che un organo amministrativo eserciti il proprio compito di fornire «indirizzo strategico» e di «programmazione» valutando negativamente le discipline ritenute «inutili», ovvero senza immediata ricaduta economica, o scomode, poiché anticonformistiche? Finisce il modello dell’università come comunità che si autoregola e autogestisce (sia pure con i difetti indubbi palesati, che andavano corretti), viene promosso un modello aziendalistico di università, economicistico ed eterodiretto.

Questi timori sono autorizzati e rafforzati dalle nuove modalità di composizione previste per lo stesso Consiglio di amministrazione. Esso sarà formato al massimo da undici membri, compreso il rettore e una «rappresentanza elettiva studentesca». Dunque, tolti il rettore e un paio di studenti, restano otto membri, che dovranno essere non eletti ma «designati» o «scelti» «tra candidature individuate […] tra personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale»: eletti o designati da chi? È incredibile che a tale questione fondamentale la legge non faccia cenno; ma è anche un caso nel quale assume importanza la battaglia per i regolamenti che renderanno attuabile la legge, in primo luogo gli statuti di ateneo. Almeno tre membri del Consiglio di amministrazione dovranno non appartenere «ai ruoli dell’ateneo», cioè essere rappresentanti di forze economiche o istituzionali esterne all’università. La qual cosa lascia spazio a due tipi di ipotesi: laddove esistono, forze economiche interessate a finanziare gli atenei per averne in cambio ricerca e formazione, realisticamente funzionali ai loro scopi; nei territori dove tali forze non esistono o non sono rilevanti, istituzioni regionali o comunque locali, quindi partiti o associazioni politiche, secondo una deriva che potrebbe avvicinarsi pericolosamente a quella delle Asl: quanti posti di professore o di dipendente tecnico pretenderà questo o quel partito rappresentato, di dritto o di rovescio, nel Consiglio di amministrazione? O, nell’altra ipotesi, quali ricadute «pratiche» e immediate si chiederà alle facoltà scientifiche da parte delle aziende che le finanziano? E che fine farannole facoltà obbiettivamente meno vicine alla produzione?

In coerenza con questa struttura aziendalistica disegnata per ogni ateneo, la legge prevede (sempre all’art. 2) la «sostituzione del direttore amministrativo con la figura del direttore generale», nominato dal Consiglio di amministrazione, e l’«attribuzione al direttore generale […] della complessiva gestione e organizzazione dei servizi, delle risorse strumentali e del personale tecnico-amministrativo».

Il prosieguo dell’art. 2 e il seguente art. 3 contengono norme che intendono favorire la semplificazione dell’articolazione interna degli atenei (con una forte valorizzazione del «dipartimento», che sembra destinato a prendere il posto in toto di «corsi di laurea» e «facoltà», e con la creazione di strutture di raccordo interdipartimentale); e l’accorpamento («federazione e fusione») di più atenei. Sono prevedibili, tra l’altro, ricadute sui livelli occupazionali e sulla residenza dei dipendenti, poiché il testo – anche in questo estremamente dirigista – prevede che «il ministro [possa] provvedere, con proprio decreto, al trasferimento del personale interessato».


La valutazione e il merito

Veniamo alle novità apportate sul terreno della valutazione. Il termine può essere inteso in più modi. Qui si intende in primo luogo la valutazione del funzionamento della «macchina» universitaria, per premiare i meriti e punire i demeriti, alla luce di una concezione della «meritocrazia» come grimaldello per accentuare le diseguaglianze. In primo luogo l’art. 1 della legge sottolinea il ruolo di una Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur), un organismo indipendente che dovrebbe valutare il funzionamento dell’intera struttura universitaria nazionale: circa cento atenei e 60.000 docenti. Una analoga istituzione statunitense (l’Ets) conta più di mille valutatori (statistici, sociologi, psicologi, economisti). L’Anvur in pratica non esiste: non ha attualmente né testa né gambe. Come sorgerà questa megastruttura? Quanto costerà? Funzionerà mai? Era necessaria? Essa attualmente non ha risorse, dunquelavalutazione–aquesto livello – è pura fantasia. Alla valutazione dell’attività didattica e di ricerca, recita l’art. 5, sono legati i «meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche». Come questo possa avvenire, stante la situazione suddetta, è un mistero. Se vogliamo escludere il ricorso all’autocertificazione (sarebbe ridicolo), si può paventare un forte margine di discrezionalità nell’attribuzione dei «premi» previsti. Il tutto nella direzione – va ripetuto – della voluta accentuazione delle differenze tra un ateneo e l’altro. La destra sceglie dunque il metodo dell’arbitrio (già ben visibile nella diffusione dei cosiddetti atenei telematici, cavalli di troia della privatizzazione).

Lo stesso art. 5 parla poi di rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l’accesso all’istruzione superiore», richiamando a tal fine la Costituzione. Ma la direzione di marcia in realtà è tutt’altra. Non solo perché – come si è detto prima – il collasso economico a cui il governo sta portando gli atenei determinerà un forte aumento delle tasse universitarie, ma perché le borse di studio previste (il «fondo per il merito») sono per i più bravi a prescindere dal reddito. Il «fondo di merito» inoltre – recita l’art. 4 – dovrebbe essere alimentato da «versamenti effettuati […] da privati, società, enti e fondazioni». È difficile pensare a un «privato» che sovvenzioni lo studio senza in qualche modo codeterminare gli orientamenti delle università e le loro finalità. Per mille vie si lega il sistema universitario al mondo economico, delle aziende e delle banche, la qual cosa riduce inevitabilmente lo spazio per la libertà di ricerca e per studi meno immediatamente produttivi.


Ricercatori e docenti

Le reazioni maggiori causate dalla controriforma sono quelle relative al reclutamento e allo stato giuridico di docenti e ricercatori. La legge Gelmini è stata preceduta da una chiassosa e prolungata campagna di stampa atta a preparare il terreno (l’opinione pubblica) alla controriforma. I docenti universitari sono stati dipinti come «fannulloni» e privilegiati, i metodi di reclutamento come luoghi del malaffare: la «macchina del fango» ha girato a lungo e a pieno regime.

Non è qui possibile soffermarsi in modo approfondito sul sistema di reclutamento in uso nelle università italiane. Dove ci sono indubbiamente storture e ingiustizie, ma dove non tutto è irrazionale o ingiusto. Chiamare qualcuno/a a entrare in ruolo è per forza di cose un atto di «cooptazione», poiché non altri se non chi già è in ruolo può giudicare nel merito, e perché non esistono parametri del tutto oggettivi di valutazione. Anche se scelti da una «élite informale», prima ancora che dalla commissione regolarmente designata (fatto che – è vero – rende il concorso poco trasparente), i vincitori sono molto spesso capaci e meritevoli. Il tutto è ingiusto non perché chi vince non lo meriti, ma perché chi perde spesso non merita di essere escluso. E in una selezione molto forte tra molti aspiranti spesso tutti forniti di titoli adeguati, inevitabilmente molti di coloro che restano esclusi possono a buon titolo dirsi vittime di una ingiustizia. Il problema principale è quello della radicale carenza di risorse, che non permette – così stante il sistema –di premiare tutti i meritevoli. Si potrebbe ovviare in molti modi. La proposta più radicale è quella dell’Andu, un sindacato universitario rappresentativo soprattutto dei ricercatori, proposta che si avvicina molto a un sistema basato sulla progressione per anzianità, fermo restando il controllo della qualità delle prestazioni di ricerca e di insegnamento. Non è questo il luogo per dibattere una materia molto intricata. Qui si vuole solo rimarcare come la ministra che tanto ha sbraitato negli ultimi mesi contro i «baroni» (ovvero gli «ordinari» più potenti, in grado di orientare i concorsi), poco dopo la sua entrata in carica, già nel 2008, ha stravolto le norme concorsuali, affidando tutto il potere… ai «baroni» stessi, o presunti tali, cioè ai soli professori ordinari, estromettendo dalle commissioni di esame le altre due categorie meno potenti, professori «associati» e ricercatori, che ne facevano parte prima della Gelmini. Questo per dire come la cortina fumogena alzata intorno all’intera materia sia stata densa e come la ministra non avesse i titoli per affermare di voler dichiarare guerra al «baronato» e invitare gli studenti a stare dalla sua parte per sconfiggere i «baroni».

Per quel che concerne i docenti, la legge stabilisce una procedura nuova: una abilitazione nazionale e una «chiamata» da parte delle università. Le «chiamate» dovranno ovviamente essere subordinate alle risorse: è possibile per questo un blocco reale delle «chiamate», ovvero una stasi di tutta la macchina non solo concorsuale, ma dell’effettivo avanzamento delle carriere. Della commissione nazionale che deciderà sulle abilitazioni faranno parte – per concorsi di ogni ordine e grado – i soli professori ordinari, che evidentemente sono i soli a stare a cuore alla ministra.

Vista la situazione di indebolimento cronico delle risorse destinate all’università, acquista particolare rilevanza la novità assoluta rappresentata dal fatto che vi potranno essere docenti voluti e pagati dai privati,unvero processo di privatizzazione strisciante dell’insegnamento. Infatti il punto 3 dell’art. 18 recita: «Gli oneri derivanti dalla chiamata […] possono essere a carico totale di altri soggetti pubblici e di soggetti privati». Oltre a docenti particolarmente ben visti da aziende e istituzioni private, vi è anche il rischio di docenti emanazione diretta degli enti locali (e dunque dei partiti)? Tutto ciò costituisce un terreno gravissimo di perdita dell’autonomia dell’università, ovvero della ricerca e dell’insegnamento.

Ancora più grave quanto previsto per i ricercatori. Innanzitutto, per quanto riguarda il loro stato giuridico, il punto 4 dell’art. 6 prevede che ai ricercatori si possano affidare compiti di insegnamento in cambio di una «retribuzione aggiuntiva» a discrezione delle singole università (che però non hanno i soldi…). In cambio i ricercatori ricevono il titolo provvisorio (dura finché hanno un insegnamento) di «professore aggregato»: a parte il noto pasticcio emerso nella discussione al Senato intorno a questa norma, che altrove viene contraddetta e abrogata, si tratterebbe di una ben magra consolazione, una vera presa in giro. Da anni le università si reggono sull’attività docente, spesso gratuita, dei ricercatori. La riforma doveva essere l’occasione per riconoscere loro il fatto di essere in tutto e per tutto dei docenti. Si propina invece un contentino (potersi chiamare «professore», sia pure «aggregato»), e si chiede lavoro in cambio – è facile prevederlo – di niente. Si nega la storica richiesta di avere un ruolo unico della docenza, comprendente tutte le figure professionali che di fatto hanno esercitato questa funzione negli ultimi decenni.

Il ruolo di ricercatore a tempo indeterminato va del resto in esaurimento, non vi saranno più concorsi per questa figura nata ormai trent’anni or sono. Il posto dei ricercatori a tempo indeterminato viene preso dai ricercatori a tempo determinato, tre anni rinnovabili, alla fine dei quali o si diventa associati o si deve lasciare l’università. Questo significa che un «giovane» può arrivare ai 35 o anche ai 40 anni per scoprire di essere giudicato inadatto a un determinato lavoro. E poiché le risorse sono quelle che sono, molti bravi e bravissimi ricercatori saranno espulsi giocoforza. O addirittura – come avviene in tanti altri settori della vita lavorativa – essi saranno «usati» in vari modi per i sei anni previsti e poi saranno «espulsi» e sostituiti da altri «apprendisti».

«Le risorse sono quelle che sono», si badi bene, non vuol dire che in assoluto non ci siano. Vuol dire che questo governo ha deciso che non occorre investire nell’università: è una scelta politica. Ad esempio la guerra in Afghanistan costa al nostro paese 65 milioni di euro al mese. Cosa si potrebbe fare con 780 milioni di euro l’anno? Nel mondo della ricerca e dell’università, tantissimo. Si decide invece di percorrere la strada della precarizzazione, contribuendo anche per questa via alla destabilizzazione esistenziale di più generazioni di giovani: lavori precari, insicuri, già da considerare una «fortuna», sembrano evidentemente il modo migliore per avere a disposizione forza-lavoro docile e a prezzi stracciati. Un «metodo Marchionne» esportato fuori dal mondo delle imprese. O, meglio, una università ridotta ad azienda anche per quel che concerne i rapporti di lavoro.

Nel quadro delle problematiche del reclutamento rientrano anche le norme anti-«parentopoli». La questione è stata agitata al di là della sua dimensione reale. Non perché manchino esempi di malcostume (specie nelle facoltà che con più facilità danno la possibilità di «guadagni collaterali»), ma perché usata strumentalmente per far passare il messaggio di una università in preda alla corruzione, generalizzando indebitamente i casi più condannabili. Fatti anche recenti hanno dimostrato che episodi simili esistono in molti comparti del settore pubblico (e probabilmente non sono del tutto assenti anche in quello privato). A ogni modo, la legge stabilisce (art.18) che «ai procedimenti per la chiamata, di cui al presente articolo, non possono partecipare coloro che abbiamo un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata». Una norma tra l’altro inutile, perché se ci si trova davanti una «chiamata» discutibile, è piuttosto raro che essa avvenga nell’ambito dello stesso dipartimento. È appena il caso di notare, inoltre, che anche qui la «facoltà», che fino a oggi effettuava la «chiamata», scompare dal panorama universitario, sostituita dai dipartimenti (come già era detto nell’art. 1).


Continuare la lotta

La controriforma è diventata legge ma, come recitava un vecchio slogan del «maggio francese», occorre «continuare la lotta». È quello che promettono, con armi diverse, molte componenti del mondo universitario. I ricercatori innanzitutto, che intendono in gran parte continuare nella linea della «non disponibilità» all’insegnamento. Poiché i corsi dei ricercatori sono stati spostati quasi tutti nel secondo semestre dell’anno accademico in corso, se le adesioni alla «non disponibilità» restassero alte si andrebbe incontro nei prossimi mesi a una forte riduzione dell’«offerta formativa», se non a una paralisi di fatto.

Un altro fronte su cui si giocherà la partita universitaria è quello dei decreti attuativi e degli statuti. I primi dovranno essere opera del governo, i secondi delle università. Molto dipenderà da come le università interpreteranno le norme approvate, cercando di formulare statuti che almeno in parte le depotenzino. È anche auspicato da alcuni un vero e proprio ostruzionismo contro i decreti attuativi. In ogni caso è una partita che durerà almeno un paio di anni. Nel frattempo vi sono anche soggetti sindacali, sociali e politici che pensano a un referendum abrogativo come arma per continuare e vincere la lotta contro la legge Gelmini

Gli studenti, da parte loro, avranno davanti il compito di contrastare soprattutto il prossimo forte incremento delle tasse universitarie e i processi di precarizzazione, processi che cadranno in una situazione sociale incendiaria, già segnata dal 28,9% di disoccupazione giovanile (dati Istat di gennaio), dal proliferare di contratti a termine e atipici, dalla scarsa sicurezza lavorativa che impedisce di formulare progetti di vita minimamente fondati.

Le forze della maggioranza di governo hanno dichiarato che con questa controriforma si è finalmente archiviato il ’68. È una sciocchezza da molti punti di vista. Ma dietro la frase a effetto si voleva dire che quel tipo di università di massa, almeno parzialmente aperta e democratica, nata tra anni Sessanta e Settanta, va superata: lo studio e la ricerca (almeno nella loro versione qualificata e/o più remunerativa) devono tornare a essere cosa da signori.

Ai movimenti e alle forze che operano nella società e nelle università il compito di sbarrare la strada alla restaurazione. Alle forze politiche della sinistra il dovere di impegnarsi in tutti i modi al loro fianco. Al Pd e alle altre forze di centrosinistra l’obbligo di uscire fuori dall’ipocrisia: molte delle idee della controriforma vengono dai loro «cervelli», molti loro esponenti nel mondo universitario non hanno affatto contrastato la riforma come dovevano e potevano, l’opposizione in parlamento è stata troppo tardiva e dunque inefficace. Ben prima bisognava richiamare l’attenzione del paese sulla pericolosità della manovra, invece che accodarsi alle campagne di stampa indiscriminate contro il mondo universitario nel suo complesso.

È prevedibile che – in forme e tempi non preventivabili – continui quella rivolta studentesca, generazionale, dei giovani lavoratori precari, che ha reso difficile l’approvazione della legge. Non si tratta di una previsione legata solo alla situazione universitaria, ma a una condizione più generale, che è la base strutturale sulla quale sono nati fenomeni di rivolta e tensioni in diversi paesi, europei e non. In una situazione sociale tanto difficile come quella attuale, l’assenza di qualsiasi misura di sostegno dell’occupazione dovreb

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