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gasparenevola

Una ‘guerra civile’ sottotraccia tra società dell’iper-fiducia e società dell’ipo-fiducia

Scienza, politica e media nella crisi covidiana

di Gaspare Nevola

Schermata del 2023 02 25 15 07 59Dietro alle spalle un pescatore
E la memoria è già dolore
E’ già il rimpianto d’un aprile
Giocato all’ombra di un cortile
(F. De André)

I

Lo scrivevo già tra l’inverno e la primavera del 2020. Quando stavamo entrando sotto il regno del Covid. Oggi ritorno su quella stagione, a proposito del ruolo della scienza e delle decisioni pubbliche, ammonendo gli esperti dei salotti televisivi, i politici alla “si salvi chi può” e i mass media all’arrembaggio. Ritorno su alcune delle considerazioni fatte all’epoca per due motivi principali: 1) perché tali considerazioni non erano (né sono) ispirate dalla fregola di partecipare alle contingenti polemiche di un momento, e tanto meno erano (e sono) il riflesso di una paura obnubilante o di una “crisi di nervi” dettate dal virus e foraggiatrici di negazionismi scientifici vari o complottismi improvvisati “per dirne quattro a quel farabutto di nemico”; 2) affinché tali considerazioni tengano viva nella memoria collettiva gli equivoci e le responsabilità di chi ha operato scelte che hanno avuto un impatto devastante su tutti coloro che le hanno subite, con accondiscendenza o meno, ma spesso senza interrogarsi su come funzionano di fatto scienza, politica e mass media e su come invece dovrebbero funzionare una scienza, una politica e una comunicazione matura, se non virtuosa.

Torniamo con la mente ai primissimi mesi del 2020. Ci si chiede, tutti, da chi occupa posizioni apicali negli apparati politici, scientifici e mediatici, fino al comune uomo della strada, compreso il “personale di servizio” a collegare gli uni agli altri: come si propaga il virus? come fermarlo? quando e come ne usciremo?

Ben pochi esperti della variegata materia rispondono: «Non lo sappiamo, dobbiamo studiare»[1]. Una risposta del genere non era apprezzata da colleghi, da politici o dai media: “La gente ha bisogno di certezze!” – giganteggia il coro – poco importa se le risposte siano invero incerte, confuse, contraddittorie o elusive; l’importante è che il messaggio ai cittadini sia: “La situazione è seria, ma è sotto il controllo della scienza”, poi ciascuno (giornale, tv, parte politica) può scegliersi a piacere l’una o l’altra risposta giusta, tanto per cambiarla basta sceglierne un’altra il giorno o la settimana dopo. Così, una settimana appresso all’altra, i Burioni, i Bassetti e le Capua, i Salvini e gli Zingaretti o i Sala sindaco di Milano (velo pietoso sui mass-media).

Un esempio. Per valutare le politiche del distanziamento sociale e calibrare le misure di contrasto al contagio, in quelle settimane si chiede agli esperti se il virus sopravviva e viaggi nell’aria, se ci si possa contagiare anche solo con il respiro. Ma non arrivano risposte certe, univoche. Per Anthony Fauci, autorevole immunologo americano e gran cerimoniere del Regno del Covid, ci sono evidenze che il virus resti nell’aria 3 ore; lo stesso sostiene l’americana National Academy of Science: sembra che il virus si diffonda e si trasmetta da una persona all’altra pure attraverso la conversazione, ma probabilmente solo negli ambienti chiusi, stando al New England Journal of Medicine. Per Ilaria Capua, virologa dell’Università della Florida e all’epoca viro-star televisiva, sibillinamente, la risposta è: «non possiamo escluderlo». Secondo Brusaferro, in questi giorni confermato presidente dell’Istituto Superiore di Sanità italiano (ISS), invece, non ci sono prove sufficienti per sostenere una sua significativa resistenza e diffusività nell’aria, e quindi neppure per affermare la sua preoccupante contagiosità, perlomeno all’aperto. Per Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’ISS, e il virologo Pregliasco, è comunque «escluso che il virus circoli all’aria aperta» – una perentorietà di posizione che i due hanno manifestato anche in seguito, però sostenendo la tesi antitetica di un virus praticamente quasi incontenibile. Ma il catalogo delle posizioni scientifiche sul fenomeno è anche più ricco. Alcuni studi del periodo dicono che il virus, specie in ambienti chiusi, contagia anche oltre la distanza di sicurezza di 1-2 metri; una ricerca del Mit di Boston dice che uno starnuto può veicolare il virus fino a 7-8 metri di distanza.

In quelle settimane, analoga è stata la varietà delle indicazioni offerti dagli esperti su molti altri fronti: sulle origini del Covid-19, sul fatto che l’infezione si riveli attraverso sintomi o possa essere asintomatica, sulla somministrazione del tampone come strumento diagnostico, sulla durata dell’incubazione della malattia o sulla durata necessaria della quarantena, sulla recidività o meno dell’infezione, sull’uso delle mascherine, e così via.

Il profano, ovviamente, non poteva (e non può) valutare la validità dell’una o l’altra posizione degli scienziati. Si fida della scienza (ovvero, talora o a un certo punto, non si fida). Lo stesso vale per il decisore politico, che però tende ad esprimere (sebbene taluno con qualche intimorita titubanza) “una totale fiducia nella scienza”: “Il governo sta operando secondo le indicazioni fornite dalla scienza”. Punto. Bene, caro lettore. Sì, certo. Ci mancherebbe altro che un governo operasse scelte a casaccio o, che so?, per sedare la gente o per coltivare interessi inconfessabili, e che magari dicesse queste cose pubblicamente. Forse che sconcezze del genere possono capitare? Ci mancherebbe! E men che meno possono capitare nelle nostre democrazie liberali e costituzionali. O no?

 

II

Il punto che qui mi interessa è un altro, e nella fattispecie si tratta di un punto specifico.

Mettiamola così: sì, la scienza, d’accordo. Ma a “quale scienza” ci siamo affidati, noi cittadini, i decisori pubblici della salute delle persone, i mezzi di comunicazione e gli stessi esperti in campo scientifico-sanitario? La “crisi multi-sistema” innescata dal Covid – da subito; e poi nei suoi sviluppi, con la comparsa (out of blu?) del vaccino, e a seguire del green pass, dell’“obbligo vaccinale che apre le porte al vivere sociale e che salva dal contagio, dalla malattia e dalla morte per Covid”, secondo la pronta e unilaterale comunicazione pubblica – tale crisi multi-sistema ha via via reso manifesta, in modo vivido a non pochi cittadini, persino senza la mediazione dello “studio sui libri”, ciò di cui il singolo fino a quel momento apprendeva dalla sua esperienza personale, ad esempio quando era coinvolto nei circuiti diagnostici o terapeutici su una malattia. Solitamente, a riguardo si pensa: i medici non sono tutti ugualmente bravi, le cliniche o gli ospedali non sono tutti alla stessa altezza; e così ciascuno (o chi può permetterselo) va alla ricerca del “dottor Tizio, che è più bravo” o della “clinica Tale che è specializzata e meglio attrezzata”. Del resto, come negare che le cose, almeno in una qualche misura, stiano così? Ma se ci fermiamo qui, perdiamo di vista qualcosa che sta a monte dei singoli medici od ospedali a cui ci rivolgiamo. Perdiamo di vista la ricerca scientifica che sta a monte (a volte a fianco) del Dott. Caio o dell’Ospedale Sempronio. Ebbene, questa scienza, in realtà, è essa stessa plurima e divisa su questioni cruciali, anche quando la consideriamo nelle sue espressioni più prestigiose ed accreditate. Ed è anche per questo che diagnostica e terapia possono variare da una clinica all’altra, da un medico all’altro. In breve, la “crisi multi-sistema” covidiana ha comportato l’emergere di una sfida per la mentalità e per l’educazione scientifica collettive, un’esperienza foriera di disorientamenti e di paure: a quelli relativi al virus e al contagio sono andati aggiungendosi quelli relativi a un vaccino di fatto sperimentale e i cui effetti (avversi o non) andavano monitorati e indagati da subito, anziché essere esclusi per partito preso o per mala organizzazione e per carenza di risorse. La vicenda avrebbe dovuto sensibilizzare tutti i partecipanti, protagonisti e comparse in scena, su un fatto, noto a chi pratica la scienza, semplice ma gravido di conseguenze, e che invece è stato taciuto o negato con protervia: la scienza, anche con tutta la sua potenza di tecno-scienza, non è il regno delle certezze o dell’”oggettività”. La scienza, piuttosto, è faccenda “strutturalmente limitata”, è faccenda umana.

 

III

Da tre anni a questa parte, sotto il Regno del Covid (pur ora sottratto ai riflettori) stiamo attraversando un cambiamento epocale? E su quale piano? Socio-culturale, psicologico, politico, riguardo all’idea di scienza? Difficile a dirsi: sarà il futuro che aiuterà a capirlo; sarà la storia a dirlo. Già. Ma chi sarà a scrivere questa storia, e più precisamente quella che conterà? Chi vivrà, vedrà.

Al momento, intanto, si tratterebbe di governare con una razionalità e una ragionevolezza fin qui deturpate l’inquietudine collettiva, che oggi pare riguardare una minoranza di persone, ma che rischia di rivelarsi un seme che si spargerà sottotraccia. Tale inquietudine, e talora la frustrazione o la rabbia che da essa gorgogliano, concerne una molteplicità di aspetti della vita sociale, della “con-vivenza con gli altri e tra diversi”, della fiducia orizzontale (tra persone) e della fiducia verticale (cittadino comune verso istituzioni pubbliche). Qui voglio limitarmi a fermare pochi punti, soprattutto a proposito del sapere scientifico.

Dall’inizio di questa amara storia (per non pochi indigeribile), i governi continuano a ripetere (seppur al momento con meno enfasi di prima), dove più dove meno: “Facciamo come ci dice la scienza”; sui media (anche se nel complesso l’attenzione è calata) non mancano alla bisogna le professioni di fede scientifica e gli interventi pubblici (pur un po’ defilati) di virologi, epidemiologi, medici. Punto fermo resta il “celebrare la scienza” e, con il supporto di questa, mantenere l’ammonimento (che in bocca a taluno ha un sapore quasi sinistro): “Non abbassiamo la guardia contro il contagio e i suoi effetti!”; allo stesso tempo, si continua a sorvolare o ad oscurare il tema degli effetti avversi del vaccino e quello dei danni sociali, psicologici, culturali, politici e anche economici provocati a molti dal “lasciapassare verde” per poter condurre una normale vita. Insomma, quasi a dire che se “Sanremo è Sanremo”, a maggior ragione “La scienza è sempre la scienza”. Punto e basta. Bene (si fa per dire).

Ma il fatto che mi disturba, come cittadino e come studioso della società, è che la cultura socialmente e mediaticamente dominante continua a distogliere lo sguardo da due fenomeni cruciali, e per niente ignoti, che investono i rapporti tra scienza e politica: 1) le decisioni di policy non sono mai meccaniche applicazioni di conoscenze scientifiche, 2) la scienza offre conoscenze certe e “oggettive” molto più raramente di quanto crediamo, né essa né la medicina o le tecnologie vaccinali, ammettendo che lavorino in pura buona fede e con specchiata onestà deontologicamente orientata, sono in grado di offrire certezze, e continuano a possedere conoscenze limitate, nella fattispecie in merito al Covid-19 e ai suoi annessi e connessi, dove tra gli esperti le divisioni sono molte e forti, e non pare che vadano scemando, anzi.

Ciò che non riusciamo ad accettare, o che si accetta solo quando fa comodo, è un fatto semplice ma vettore di grandi conseguenze: quella della scienza è una razionalità “limitata” e “multipla”. Ed è questa razionalità limitata della scienza che, lo si voglia o meno, è posta a guidare tanto le istituzioni politiche o le organizzazioni internazionali (come l’OMS) e le loro scelte pubbliche, quanto i centri di ricerca e le loro indicazioni sanitarie.

 

IV

A comprendere la “razionalità complessa” delle scelte pubbliche e scientifiche avrebbero dovuto (e potrebbero) aiutare anche gli esperti di scienze sociali, di epistemologia e di etica, studiosi le cui voci dall’inizio di questa brutta e opaca storia sono state e sono tutt’ora parecchio silenti, mentre a quei pochi che ci han provato sono state chiuse le porte di un sano e maturo dibattito pubblico, faticando perciò a trovare orecchie aperte e interessate. Vero che gli esperti di cui ora sto dicendo non curano direttamente le malattie del corpo, non proteggono da rischi di morte. Ma avrebbero da dire sul governo di società in preda a un virus e alla paura, avrebbero da dire qualche parola su cosa si fondano e come si prendono nelle nostre democrazie le decisioni pubbliche su salute, cure, vita e morte. Scienze sociali e politiche, epistemologia, etica pubblica, a volerli e saperli usare, hanno gli strumenti utili per ragionare e fare riflettere sul tema negato che ha caratterizzato l’epoca odierna all’insegna del Regno del Covid e dell’“assolutismo del vaccino senza macchia e senza infamia” e le sue annesse e connesse “tessere digitali o meno”. Il “tema negato” può essere formulato in termini semplici e acquisiti. Ossia, in campo pubblico, le scelte e le decisioni hanno per bussola un interrogativo-guida essenzialmente “politico”: quali tipi di rischi o danni possono essere accettati in cambio di quali aspettative di benefici? Le risk-issues e le risk-policies sono, in ultima istanza, non strettamente scientifiche, ma politiche. I decisori pubblici si muovono su uno scacchiere a opzioni scientifiche multiple. Esperti e tecnici devono essere in grado di dire cosa sanno e cosa no sulle conseguenze probabili delle loro “risposte scientifiche”. Ma la responsabilità della scelta resta sulle spalle del politico, o meglio: è politica anche quando è fatta da un tecnico o è da lui dettata. La validità di fondo della lezione di un Max Weber, teorico del razionalismo occidentale, permane e rimanda proprio all’idea di democrazia difesa dal vecchio Max democratico scettico. Per i governi è un “uovo di Colombo” nascondersi dietro il corpo protettivo degli esperti: riduce la loro responsabilità per decisioni rischiose o foriere di danni, ma sovraccarica le aspettative e le responsabilità in capo alla scienza. Il fatto è che di fronte a situazioni di rischio, le scelte di policy sono sempre prese in condizioni di incertezza, di informazione incompleta e di evidenze ambigue: questa condizione non risparmia neppure le conoscenze scientifiche.

 

V

Nel febbraio del 2020 Maria Rita Gismondo, microbiologa clinica e virologa, come peraltro altri sparuti colleghi, sostenne: «È una follia questa emergenza, si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale», attirandosi indecorose parole da Roberto Burioni, un altro esperto, e da un nugolo di altri addetti ai lavori. Devo dirlo: ho sempre considerato con perplessità l’assimilazione del Covid-19 a un qualunque altro virus influenzale: anche se ci abbiamo nel complesso capito poco, anche se le informazioni e i dati circolanti sono distorti e chissà quali sono “affidabili”, resta che qualcosa sfugge o è fuggito chissà da dove per nascondersi chissà dove. Negazionismo? Complottismo? Si dica quel che si vuole, non mi tange. Dietrologia? Sarà… ma, chiedo scusa, quanti siete, miei cari lettori dell’universo-mondo, a credere che le cose della vita che in qualche modo ci coinvolgono e che contano (oggi come in passato) siano (solo) quelle che si vedono, belle in mostra e trasparenti sotto la luce del sole? Nessun problema, quale che sia, la risposta non mi guasta il sonno, potrebbe (nel caso) provocarmi un triste sorriso di meraviglia. Ma torniamo ai “Gianni & Pinotto” della pandemia. Il problema non stato nel fatto che i Burioni e i Gismondo di turno fossero in profondo disaccordo, ma nel linciaggio pubblico che i Burioniani & Co. hanno inflitto ai malcapitati e minoritari Gismondiani. E ciò è accaduto con la colpevole complicità dei mezzi di comunicazione più potenti. E soprattutto con quella di uomini di Stato e di governo, che han voluto metterci anche il loro carico da 90, gratuito e irresponsabile, senza neppure saper leggere i dati su ciò che stava avvenendo, ad esempio in materia di contagio, di immunità-grazie-al-vaccino, di eventi-avversi-dovuti-a-vaccino, vaticinando così una “verità di Stato” che ha seminato malessere e odio sociali, distrutto la fiducia orizzontale (cioè interpersonale) e verticale (cioè verso le istituzioni).

Tale “verità di Stato” è stata imposta camuffandola da “verità scientifica” dettata da istituzioni scientifiche tecno-burocratiche, a vario titolo e motivo complici dei guasti prodotti. Non si è voluto ragionare con serietà sul fatto che la macchina del sapere scientifico è una faccenda umana, e che in quanto tale produce una conoscenza “complessa, limitata e multipla”.

Se si desidera che i cittadini nutrano fiducia nelle loro scelte e valutazioni dei rischi, è bene che i governi per primi imparino a riconoscere il carattere incerto e limitato delle conoscenze scientifiche. Se non si percorrerà questa strada presto o tardi arriveremo a un bivio: una via porterà a una società dell’iper-fiducia, e di crescente conformismo, a un “totalitarismo dolce” in abiti democratici (non si abbia paura delle parole, dobbiamo pur intenderci!); l’altra via porterà a una società dell’ipo-fiducia, a una “guerra civile fredda” della sfiducia reciproca galoppante, di un tutti contro tutti tribalizzato e caratterizzato da un anarchismo malinteso o da un darwinismo della sopravvivenza, dove ogni mezzo è lecito per salvare, ciascuno, la propria esistenza o l’anima. La guerra tra ipo-fiducia e iper-fiducia (che poi sono due facce della stessa medaglia) è cosa disastrosa.

 

VI

Ho detto della politica. Ma, per evitare la deriva della società su una o l’altra delle suddette due vie distruttive della convivenza civile e di una democrazia che voglia essere “convivenza tra diversi”, anche i professionisti della scienza devono però fare la loro parte: promuovere un’educazione alla scienza che aiuti il cittadino a familiarizzarsi con la scienza per quello che effettivamente è. Tra i tanti virus da tenere a bada, va contenuto pure il virus dello scientismo, che è ideologia o mitomania della scienza e non scienza. La nostra società ha bisogno di un’educazione e di una comunicazione a favore di una “scienza non mitica”, né religiosa, ma sobria, seria e laica. Ciò richiede l’impegno di uomini e di donne di tutte le scienze. Il monito vale per tutti, da vertici alla base della piramide sociale, quale che sia lo strumento usato per comunicare: dai convegni scientifici e accademici alle pagine dei social.

Infine, se non si vuole compromettere del tutto la fiducia sociale e la fiducia dei cittadini verso le scelte pubbliche delle autorità politiche e verso il contributo della scienza di fronte a rischi emergenziali, sono imprescindibili due condizioni: 1) un regime di genuina libertà di informazione, di pensiero e di indirizzi di ricerca scientifica; 2) una chiara separazione tra a) i responsabili della protezione della cittadinanza, b) i responsabili di interessi industriali/commerciali e c) i responsabili della ricerca scientifica. Una sana alleanza tra politica, economia e scienza è desiderabile, ma ai nostri “tempi difficili” appare per niente scontato che sia un’impresa alla portata degli uomini e delle donne.

E sui mass-media? C’è tempo. Altro gettone, altro giro…


[POST per i distratti e per chi va di corsa: Anche la scienza esige un dialogo aperto (tra ricercatori con orientamenti diversi, tra coloro che a diverso titolo ne parlano). Sennò è qualcos’altro… Ecc. ecc. ecc.]

NOTE
[1] Tra questi rari casi, ad esempio, Roberto Rigoli, virologo e primario a Treviso (intervistato dal Corriere del Veneto, 4 aprile 2020.

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