Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Il corpo non è mio, e me lo gestisco io

di Paolo Bartolini

femministeSicuramente un pensiero della differenza è ancora necessario, forse mai come prima, data la tendenza del sistema tecno-capitalista a diluire ogni singolarità dentro il brodo indifferente del puro funzionamento (monetizzabile). Recentemente una bellissima intervista di Paola Tavella alla filosofa Adriana Cavarero, uscita per Il Foglio, ha suscitato il mio desiderio di aggiungere qualche nota che possa arricchire il dibattito intorno alla teoria gender. Quest’ultimo, quando non serve come diversivo per distogliere la nostra attenzione dai problemi ecosociali prodotti da un modello di sviluppo ipertrofico e criminale, testimonia nel presente un’urgenza diffusa che riguarda i percorsi individuativi di ciascuna/o. Parliamo di corpi in lotta, di corpi che amano, di soggettività attraversate da un senso drammatico (o talora più pacificato) di distanza tra ciò che si prova e il nostro “corpo ricevuto”. Ricevuto da chi ci ha messo al mondo e, simbolicamente, dall’intera specie che nelle sue occasioni individuali si figura, ripetendosi e variandosi nel corso dell’evoluzione.

La riproduzione sessuale pone innegabilmente la questione di sessi complementari che, nel necessitare l’uno dell’altra per generare una vita simile a sé ma non identica (Aristotele), uniscono le loro differenze per produrre quel Terzo che è il figlio o la figlia. Da questo non segue, per gli esseri umani, alcuna prescrizione “naturale” su cosa significhi essere donne e uomini, né un dogmatico divieto alle innumerevoli (ma non infinite) combinazioni amorose. L’identità di genere e l’orientamento sessuale vivono di quella enorme plasticità che caratterizza homo sapiens.

Con buona pace dei tradizionalisti, dei fascisti e di tutti i conservatori moralisti di ogni latitudine ed epoca, genere e sesso non vanno pensati come monoliti, come leggi universali a cui aderire auspicando una fantomatica “coincidenza” tra sé e sé. Ciò che mi sta a cuore, ben prima delle questioni che incendiano il dibattito su LGBTQI+ e diritti civili, è rimarcare che, nonostante alla nascita ci troviamo quasi tutti/e sessuati e differenziati con organi genitali distinti e separati (fatta eccezione per casi rari denominati “intersessuali”), l’armonia tra psiche e corpo dato/ricevuto non è mai qualcosa di facile e scontato, piuttosto richiede un lavoro psicologico paziente e accidentato. Il sé, per trovare dimora nel corpo, attraversa sempre delle peripezie. Sarebbe assurdo non riconoscerlo, visto che filosoficamente troviamo a monte la palese de-coincidenza di ciascuno con sé. Non combaciamo mai completamente con noi stessi, l’identità è sempre attraversata da un processo metamorfico di alterazione, che ci tra-passa e va oltre. Quindi, nessuno stupore e nessuno scandalo se esistono esseri umani che non si riconoscono a pieno, o per niente, nel corpo dato e – soprattutto – negli stereotipi di genere veicolati dal potere dominante. Che la donna “sia fatta per essere madre” è puro pregiudizio sessista, che vuole le donne subalterne e tutte interne al codice del desiderio maschile. Per quanto cercherai, non troverai mai un destino pre-scritto per l’animale senz’opera (Agamben) che è l’umano. Tuttavia, per effettuare una torsione al concetto di destino, o semplicemente restituirlo a una sua formulazione filosofica più accorta, potrei aggiungere che ognuno di noi ha sempre un destino in-scritto nella propria figura. Tutte le forme di vita sono occasioni del transito, dotate comunque di una struttura (non fissa, non eterna, come intuì il grandissimo Darwin) che implica – volenti o nolenti – una serie di vincoli che fanno sì che la frase “tutto è possibile” debba subito risultarci equivoca e inaffidabile. “Tutto è possibile” è il motto neoliberista, che piace al pensiero transumanista e spesso incrocia altre derive “accelerazioniste” del nostro tempo.

Il punto cruciale è che stiamo gravitando, com’è chiaro, intorno al nesso che distingue e accomuna “natura” e cultura. Tema gigantesco, che posso solo sfiorare. Se la parola natura l’ho scritta tra virgolette è per un motivo ben chiaro. Prima della nascita del linguaggio, dell’agire strumentale complesso e del corrispettivo lavoro sociale, e prima dell’emergere del sapere della morte che contraddistingue gli umani, vi è sicuramente un intreccio ricchissimo di fenomeni pre-umani e pre-verbali che rimangono comunque sottesi anche alla nostra vita. Non a caso ci definiamo spesso “animali culturali”. Del resto non siamo proprio a noi a parlare di “pre-umano” e “pre-verbale” assegnandoci la differenza che ci distingue da piante e animali che non possono (e non hanno alcun interesse a) risponderci?

La cultura, insomma, senza trascenderla, si scosta dalla natura e dai suoi processi spontanei di riequilibrio, e lo fa operando uno stacco rispetto a un insieme di pratiche sinergiche solidali tra loro che non prevedono ancora l’uso della voce significativa, la produzione di oggetti come resti utilizzabili, ecc... Restiamo natura, senza dubbio, e al contempo ce ne distanziamo in modo peculiare.

La coscienza riflessiva, il fatto di crescere dentro il liquido amniotico di discorsi, operazioni pratiche e racconti mitici, rende gli umani animali molto particolari. Al contempo, ed eccoci alle virgolette, guai dimenticare che di “natura” siamo sempre noi a parlare, portandola dentro il cerchio del nostro dire, scrivere e agire comunitario. Ecco perché la barra che separa e connette natura/cultura è tanto importante. Queste due dimensioni non sono diverse e non sono la medesima cosa. Nel continuum della vita, a un certo punto, emerge un modo di essere e fare esperienza che comincia a raccontarsi, a coordinare azioni intenzionali progettate in maniera mirabile, ad allentare alcuni vincoli istintuali dando spazio al gioco inquietante della pulsione, e così via. Attualmente ciò che mi sta più a cuore, in senso filosofico ed etico-politico, è coniugare un pensiero della metamorfosi e del transito con il concetto – e la realtà! – del limite. All’interfaccia tra di essi (divenire e limiti strutturali del vivente) colgo quel senso di misura che tanto manca al nostro tempo. Non una misura che impedisca al possibile di dispiegarsi, bensì una misura che sappia tenere insieme legami e libertà senza cedere al mito della crescita esponenziale, delle infinite scelte reversibili, del fatale e antiecologico “tutto è possibile”.

Anche la differenza, dentro queste coordinate appena abbozzate, è molteplice e si dà in una tensione fondamentale con il mondo da cui proveniamo, l’irrevocabile che con la sua aura di sterminate antichità accompagna le nuove prese di forma del vivente. Un ragno non diventerà un nuovo genere di marmotta, come un ecosistema che prospera nella giungla amazzonica non si trasformerà in uno scenario desertico, a meno che non venga sconvolto radicalmente il suo Umwelt (il mondo circostante-ambiente) da fattori umani e climatici. Mi interessa, in altre parole, quell’insieme di vincoli strutturali (non “in sé” e sempiterno, ma anch’esso forgiato da un divenire storico-evolutivo) che incanala la creatività della vita permettendole di esplorare in ogni circostanza gli “adiacenti possibili” (Kauffman) che riguardano i singoli viventi e i loro compagni di avventura.

Torniamo però al punto decisivo della differenza. Se penso alle questioni di genere scorgo diversi livelli tra loro intrecciati e anche conflittuali. Il più primitivo: ogni vita che nasce è diversa da un’altra, pur conservando anche delle somiglianze (sull’importanza del concetto di somiglianza rimando a F. Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Ed. Laterza, 2019). Poi si nasce – tranne casi abbastanza rari – con una certa conformazione fisica che include caratteri sessuali ben distinti: il pene non è la vagina, anche se un giorno potrà essere per-la-vagina e reciprocamente. Inoltre, con lo sviluppo psicologico, ogni umano deve sentire se il sesso ricevuto alla nascita (sì, “ricevuto”, come l’intero corpo, che alla nascita nessuno di noi può scegliere, manipolare e modificare) viene vissuto piacevolmente e serenamente come sintonico rispetto all’identità di genere percepita. E qui la stoccata ai reazionari: cari miei (si fa per dire) l’identità di genere percepita non coincide necessariamente con il sesso “biologico”, quindi margini di disallineamento tra genere e sesso sono sempre possibili, e non di rado tali da meritare ogni attenzione e cura. Questa diffrazione di base, se ragioniamo filosoficamente, vale per chiunque (pensiamo all’adolescenza!) e implica un complesso gioco di interiorizzazioni delle figure adulte, fantasie inconsce, sensazioni emergenti e così via. Insomma la maggioranza statistica eterosessuale non va assolutamente pensata come normalità secondo cui misurare i caratteri di devianza di altri umani che non si riconoscono in quest’ordine dei corpi e del discorso. Individuarsi è un’avventura per tutte/i e la dualità maschio/femmina a cui si affida la specie per riprodursi, non assegna a nessuna/o un compito da realizzare pre-deciso e (già l’ho detto) pre-scritto. Una donna può desiderare intensamente la maternità, un’altra meno e un’altra ancora non avvertire affatto la spinta a portare in grembo un gentile fardello. Un uomo può volere molti figli, un altro neanche per sogno, uno omosessuale li adotterebbe con gioia... Una ragazza con la vagina può sentirsi un ragazzo e avvertire il bisogno profondo di un percorso di transizione che consenta di armonizzare corpo e percezione di sé. Potrei continuare, ma la varietà delle emozioni e delle inclinazioni è cangiante.

Il fatto, da non dimenticare mai (qui si pensi agli studi maturati nel campo della psicologia dello sviluppo), è che siamo inevitabilmente e sempre un sé-con-l’altro. Esserlo fin dalla nascita impedisce categoricamente di pensare il sé in modo sostanziale, come un centro statico di comando coincidente con il nostro caro io (Kant). Piuttosto, come umani, siamo tutte/i destinati allo spazio del riconoscimento intersoggettivo. La vita anonima degli infanti, già segnata da corpicini e sessi diversi, viene inculturata dentro la sfera simbolica del gruppo umano di appartenenza, ottenendo un nome e ricevendo un calco linguistico/educativo (più o meno rigido, ma ovunque presente) che posiziona i nuovi arrivati dentro relazioni di appartenenza, riconoscimento e confronto/conflitto. Posso essere un Io solo per un Tu, e viceversa. Difficile che genere e orientamento sessuale non risentano di questa interdipendenza fondamentale che connota l’umano nel suo farsi e nel suo dirsi all’altro (e quindi, di rimbalzo, a “sé”).

Ecco allora un’ulteriore differenza: quella di corpi che parlano e vengono per questo inclusi in comunità di chiacchieroni che si avvalgono di segni per definire ogni volta i rapporti costitutivi tra differenza e somiglianza. “Sei la piccola adorata di papà!”, “Sei l’amore di mamma!” ecc. ecc. Già nei primissimi anni di vita il nostro corpo, che accede alla sfera linguistica gradualmente, viene investito di proiezioni libidiche consce e inconsce da parte di chi lo accoglie. Ecco la differenza ineliminabile del desiderio dell’Altro, che rimane per sempre nella carne viva fino a condizionare la creazione dell’immagine corporea di ciascuno di noi (cioè il fatto di sentirci amabili o meno nel nostro corpo). Il desiderio dei caregivers non è controllabile, è asimmetrico e influisce potentemente nello sviluppo della dimensione inconscia del/la bambino/a.

Insomma, se il campo della differenza è multilivello, come mi pare di aver sbrigativamente messo in evidenza, allora il punto cruciale non sarà abbandonare il maschile e il femminile nell’uso corrente della lingua, o parlare astrattamente di “persone con utero” per garantire che anche i neonati possano impunemente circolare come una merce sul mercato. Nemmeno mi sembra utile osannare una “fluidità” che oggi è diventata una parola chiave dell’ideologia tecno-capitalista. Va detto comunque che il concetto di persona, se inteso in modo non astratto, risulta ricco di storia e lo condivido. Le persone non sono banali “individui”, sono nodi di relazioni. Le persone, però, si qualificano come donne, uomini, nere, bianche, eterosessuali, omosessuali… Perché, se rinunciamo alla scissione tra sostanza e attributi/qualità (del resto abbiamo detto che il singolo non è una “sostanza”, qualcosa di immobile e sempre uguale) troviamo che ognuno di noi è – ecco in sintesi la mia definizione – un’espressione dell’Intero, proprio quella che è, nelle relazioni reali a cui prende parte. Nulla è indifferente in una singolarità, che esprime la potenza del comune, e nulla è assoluto, quindi sciolto da rapporti con il mondo circostante (da cui fra l’altro proviene). La differenza, per come mi impegno a pensarla, non sorge primariamente sul piano egoico, anzi l’io deve farsene carico mentre viene continuamente provocato da essa a decentrarsi. Se a volte cambio un famoso slogan femminista, affermando che “il corpo non è mio, e me lo gestisco io”, è per riconoscere qualcosa di fondamentale che è stato intuito anche da Miguel Benasayag in alcuni suoi lavori. Come nodi di una rete siamo fatti di fili, siamo quel preciso intrico di fili. Nascendo la nostra prospettiva incarna in prima istanza la prospettiva del gruppo a cui apparteniamo e solo lentamente, forse, ci vedrà maturare una posizione nostra più meditata e libera. Penso a un uomo di origini africane che mi è capitato di incontrare periodicamente negli anni scorsi. Il punto di vista soggettivo di Rudy non può che derivare dalle coordinate storiche e geografiche oggettive che fanno di lui un maschio adulto, sposato con prole, nero, nato in uno e non in un altro paese dell’Africa subsahariana, vissuto dentro determinati incubatori antropo-poietici, che parla fluentemente due lingue, emigrato dieci anni fa per cercare una vita dignitosa in Europa, ecc.

Per questo, se vogliamo conservare il concetto importante di scelta e contrastare le derive autoritarie liberiste e neofasciste di questi anni, è opportuno comprendere che la scelta è sempre l’approdo di una progressiva integrazione del molteplice, dei limiti ecosociali e dei livelli di differenza che prima ho elencato (ma ce ne sono sicuramente altri).

Il corpo lo gestisco io perché incarno nella mia persona, tagliata dal linguaggio e dall’autocoscienza, il transito della vita in questa forma singolare, tuttavia il corpo non è certo “mio” come un possedimento, anzi è ciò che continuamente sfugge, cambia e si sottrae a identità rigide (qualunque esse siano). Lo snodo risolutivo, insomma, è fare i conti profondamente con ciò che è ricevuto, che è per definizione fuori dalla nostra scelta. Fare i conti con il corpo dato, con i suoi limiti e con i segni indelebili dell’amore (o del rifiuto) dei grandi che si sono presi cura di noi. I tragitti di transizione, inclusi quelli che culminano nella riassegnazione chirurgica del sesso, per quanto mi riguarda non hanno nulla di sbagliato, anzi, possono migliorare sensibilmente la qualità della vita di certi soggetti. Mi preme solo ricordare, per motivi essenzialmente politici qui mediati da conoscenze psicodinamiche, che tali modificazioni non possono cancellare una realtà insuperabile: qualsiasi alterazione volontaria del corpo dato (e si è ormai compreso che “corpo dato” è il corpo che riceviamo dagli altri che lo generano e lo curano/plasmano inevitabilmente) mobilita ricordi, emozioni e talora fantasie inconsce di onnipotenza. Il legame con la nostra origine e provenienza non si può rompere facilmente, senza dover svolgere un concomitante lavoro interiore di ricucitura, comprensione, ri-narrazione. Qui l’ideologia neoliberista si appropria furbescamente del lavoro politico di alcune frange del femminismo angloamericano, cercando di saldare la fluidità di genere con la pretesa del capitale di disregolare e destrutturare il vivente, sperando di ridurre la resistenza di umani e non umani all’estrazione incessante di plusvalore. Le super-erbacce nei campi coltivati con gli OGM, i popoli nativi nel Centro America e non solo che difendono la loro terra dalla deforestazione e dall’invasione delle multinazionali, i sintomi dei giovani ansiosi e depressi che non si adattano (per fortuna) all’imprenditorializzazione del sé e al precariato come stato ordinario delle cose, sono dei segnali importanti – fra molti altri – che denunciano come l’uniformazione astratta del tecno-capitalismo non sia compossibile (concetto di Leibniz ripreso e usato a modo suo da Benasayag), ovvero compatibile con il tessuto psicosociale e organico della vita su questo pianeta. Qualunque approccio alle questioni di genere ed ecologiche non si premuri di coltivare un pensiero complesso della differenza, rischia di fare il gioco delle élite neoliberiste e di dimenticare il valore – che io sento protettivo e non ostativo – delle nostre appartenenze multiple a una vita che ci precede, ci supera e ci sorpassa da ogni lato.


Paolo Bartolini è analista filosofo, saggista e formatore. Il suo ultimo libro, uscito per Mimesis, si intitola Un’ecologia delle pratiche. Curare l’ignoranza dei legami con la filosofia.

Comments

Search Reset
0
Nicoletta
Tuesday, 22 August 2023 14:30
Non c’è biologia che non sia già da sempre biopolitica.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Stella
Tuesday, 22 August 2023 01:48
Ma questo cosa si fuma?
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Renato
Tuesday, 22 August 2023 10:21
Esistono anche gli sciamani laici e inconsapevoli. Doti innate e naturali quindi. Un consiglio , non giudicare mai se non conosci a fondo il mistero della vita, quindi praticamente mai.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfred
Monday, 21 August 2023 21:11
Possiamo dire che siamo corpi? Anche il cervello e' un organo e a oggi non mi risulta che viva a lungo senza le altre parti.
condivido parecchio, ma quando leggo

Il corpo lo gestisco io perché incarno nella mia persona, tagliata dal linguaggio e dall’autocoscienza, il transito della vita in questa forma singolare, tuttavia il corpo non è certo “mio” come un possedimento ecc..

Direi che la mente in parte gestisce e in parte e' gestita, avere scompensi cardiaci o renali non e' indifferente al gestore e, da gestore, la mente e' in grado di gestire e produrre farmaci, ma non di far ricrescere o sostituire in modo naturale un braccio se amputato (ok, le protesi, ma auguro a tutti di non averne bisogno)
Decisamente il nostro corpo e' un bel maestro di dialettica ... quando siamo disposti ad ascoltarlo.. indipendentemente da orientamenti di genere, cultura o altro
Temo che molto marketing sull'inadeguatezza dei corpi attechisca proprio perche' questa dialettica del corpo un po' non la coltiviamo, un po' la dicotomia mente e resto del corpo ci spinge ad altre considerazioni e strade.

Preciso che non vuole essere una critica al testo che ho trovato interessante, solo una osservazione da corpo umano (pigro e terra terra) a corpi umani
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit