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Industrializzazione e progresso

La lezione della Rivoluzione d’ottobre

di Giorgio Grimaldi

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017 licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0

26925 Favai New York LinguerrimPremessa. Dalla rivoluzione socialista a quella borghese e viceversa

Per dimensioni, dinamiche e contenuti, solo la Rivoluzione francese può essere proposta per un’analisi comparativa con la Rivoluzione d’ottobre, mentre il ciclo rivoluzionario inglese e a maggior ragione la Rivoluzione americana, pur preparando anche sul piano ideologico gli eventi del 1789, fanno riferimento a blocchi sociali troppo diversi da quelli che saranno protagonisti dei rivolgimenti successivi. Naturalmente - e non solo dal punto di vista cronologico - il rapporto tra queste due grandi epoche di crisi storica va subito rovesciato: la Rivoluzione francese è stata uno sconvolgimento politico e sociale le cui ripercussioni su larga scala hanno dato avvio a un ciclo rivoluzionario che si sarebbe concluso esattamente duecento anni dopo.

Tralasciamo gli avvenimenti intermedi come la Comune di Parigi. Tralasciamo anche il fatto che alla fine del XIX secolo la borghesia nel prendere il potere abbia dovuto mettere in azione forze a lei conflittuali, aprendo la strada a istanze nuove e più avanzate; forze anche contrapposte agli interessi borghesi stessi, ma che continueranno a muoversi nel solco della loro provenienza. Se la rivoluzione del 1789 ha visto la presa del potere politico da parte di una classe che già deteneva di fatto quello economico, la rivoluzione del 1917 si è trovata di fronte per lo meno un doppio ostacolo: giungere al socialismo a partire da un’economia ancora prevalentemente agraria.

La dirigenza bolscevica si è assunta il compito di trasformare un paese nella cui struttura economica si era affacciato appena qualche elemento di capitalismo. Un paese lontano dalle condizioni oggettive in cui avrebbe dovuto maturare il socialismo e cioè la presenza di un’economia di mercato così avanzata da non essere più adeguata allo sviluppo delle forze produttive, le quali non avrebbero avuto che da spezzare il proprio involucro. In Russia, invece, la transizione da un’economia pre-capitalistica (o al massimo proto-capitalistica) al socialismo non avrebbe in nessun modo potuto essere immediata e indolore. Passaggio obbligato sarebbe stata un’industrializzazione capace di realizzare quello sviluppo che avrebbe dovuto condurre il capitalismo a non avere più alcuna «giustificazione storica»1.

Il problema allora è questo: se lo sviluppo della società rivoluzionaria è conseguenza di quel modello industriale che ha determinato l’affermazione del capitalismo in Occidente, non nasce qui un rapporto essenziale con l’avversario? Siamo di fronte al paradossale problema, teorico e pratico, di un socialismo che per affermarsi deve farsi esso stesso capitalismo e realizzare quanto in Occidente era stato fatto dalla borghesia.

 

1. Passaggi storici in Hegel e Marx

Nel lungo § 3 dei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel specifica due categorie decisive per la lettura del suo sistema: la «spiegazione e giustificazione storica» e la «giustificazione valida in sé e per sé»2, che è da riferirsi allo «sviluppo del concetto»3. Di fronte al movimento storico nel suo svolgersi, che risponde al concetto (il quale non è astratto, ma si dà in forme storiche man mano determinate), ciò che ha solo «giustificazione storica» decade:

«Quando l’origine di un’istituzione sotto le sue determinate circostanze si mostra completamente adeguata allo scopo e necessaria e quindi è compiuto ciò che il punto di vista storico [der historische Standpunkt] esige, ne segue, se ciò deve passare per una giustificazione universale della cosa stessa, […] che […], poiché tali circostanze non ci sono più, l’istituzione quindi ha perduto il suo senso e il suo diritto [ihren Sinn und ihr Recht4.

Potremmo dire, interpretando Hegel, che il concetto si manifesta in forme storiche determinate che ne costituiscono lo sviluppo in direzione del compimento, verso la piena identità con se stesso: una volta che esse abbiano sviluppato le premesse per un nuovo stadio storico- concettuale, una volta che abbiano condotto a esso, meramente sussistono e decadranno. Ma nel decadere non scompariranno in senso assoluto: nel movimento dialettico saranno proprio esse, tramite il movimento delle loro forme più avanzate, a costituire l’origine della nuova fase storica. Un’origine che non ne è la verità, il contenuto autentico, specifico, il quale si dà invece come risultato nel processo.

Leggiamo ora quanto scrivono Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista:

«i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si è formata la borghesia furono prodotti nella società feudale. A un certo stadio dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, i rapporti all’interno dei quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l’organizzazione feudale dell’agricoltura e di manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppatesi. Inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si erano trasformati in altrettante catene. Esse dovevano essere spezzate e furono spezzate»5.

L’impianto generale del ragionamento è, con tutta evidenza, debitore di quello hegeliano appena visto. Non si tratta di “marxianizzare” Hegel o di “hegelizzare” Marx: non si può però non rilevare come il materialismo storico debba proprio a Hegel la teorizzazione della modalità secondo cui avvengono i passaggi storici. In Marx il «concetto» assume carattere assai problematico (è il problema di ciò che è meramente storico e di ciò che resiste e permane nel movimento storico); allo stesso tempo però il brano appena letto, pur in una particolare prospettiva, non è che un’applicazione di quanto teorizzato da Hegel nel § 3.

In altre parole, Marx e Engels osservano che il capitalismo sta perdendo la propria «giustificazione storica». Esso ha creato le condizioni di una nuova fase6 a cui non riesce a corrispondere. Deve quindi essere superato: «I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per poter contenere la ricchezza creata dalle forze produttive»7. Tale passaggio, però, è all’insegna del conflitto: «Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di vita della borghesia e del suo dominio»8.

Questa emergenza, che non scaturisce da desiderata né individuali né collettivi, ha necessariamente una base oggettiva – lo sviluppo delle forze produttive – su cui, in seguito, può innestarsi la soggettività. La base oggettiva, però, non va mai assolutizzata perché è condizione necessaria ma non sufficiente. A essa deve accompagnarsi una soggettività in grado di compiere il passaggio storico in quel momento in atto. Ma questa saldatura oggettività/soggettività non comporta passaggi d’epoca assoluti nella propria nettezza, “puri”, bensì progressioni e scarti, interazioni fra elementi diversi che, in una data fase storica, possono assumere e sviluppare funzioni differenti. Anche se alcuni elementi particolari possono permanere, è l’intero che esprime una diversa configurazione ed è tale configurazione che conferisce senso e funzione agli elementi.

Una fase storica nuova e ulteriore è dunque quella nella quale avviene una riconfigurazione dell’intero tale sì da esprimere elementi nuovi, ma anche capace di modificare il senso di altri che permangono e, naturalmente, di superare definitivamente quelli che non hanno più ragion d’essere, «giustificazione storica». Ma questo passaggio storico non può avvenire se non si è creata una solida e matura base oggettiva, uno dei cui elementi è lo sviluppo delle forze produttive. Uno sviluppo che deve poi saldarsi a una soggettività matura e adeguata, capace di costruire un assetto che ne realizzi tutte le potenzialità. Una soggettività, però, a sua volta bisognosa di una corrispondente oggettività, senza la quale resterebbe nel desiderio di qualcosa di cui non vi sono le condizioni materiali.

Di che natura è però questa «ricchezza» che conferisce il senso dello sviluppo delle forze produttive? Non siamo di fronte a un nietzscheano continuo e infinito potenziamento della potenza, ma a un medium per la libertà, la cui base – qui sta il senso di quella «ricchezza» – è il benessere materiale.

 

2. Sviluppo delle forze produttive e nuove fasi storiche

La fulminante conclusione del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini di Rousseau registra perfettamente lo squilibrio – la diseguaglianza, appunto – presente nella società. Come porre fine a una condizione, non certo temporanea, in cui «un pugno d’uomini rigurgit[a] di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario»9? La risposta di Marx (e Engels) si muove con nettezza in direzione non di una povertà diffusa, dell’eguaglianza universale nella povertà, ma del benessere universale (diverso dal lusso e dall’eccedenza: se vi è una situazione di eccesso essa non può che essere possibile grazie a una corrispondente situazione di mancanza). Come è possibile un benessere universale materiale? Certo, esso si dà a partire da una redistribuzione all’insegna dell’equità e della giustizia, ma occorre anche la possibilità concreta, tecnica, di un aumento dei beni a disposizione. Questo aumento dei beni, in quantità e qualità, è possibile grazie a un aumento della produttività, che implica a sua volta lo sviluppo delle forze produttive.

Siamo così giunti al nodo teorico e pratico. Occorre elaborare una strategia per aumentare in ogni situazione determinata lo sviluppo delle forze produttive, condizione necessaria per aprire il passaggio storico oltre il capitalismo; guardando al concreto svolgersi storico, occorre però riconoscere una processualità del tempo storico che si compie attraverso passaggi determinati. In altre parole, non è possibile pensare a un superamento del capitalismo che non passi attraverso uno dei suoi elementi fondamentali: lo sviluppo tecnologico-industriale. Sarà difficile altrimenti elaborare un progetto concretamente applicabile nella storia che non guardi romanticamente al passato pre-industriale e pre- capitalistico e alle nostalgie del mondo agrario10.

Nulla di più lontano da Marx di un pregiudizio verso l’aumento della ricchezza. Anzi, come abbiamo visto nel Manifesto, la borghesia cade proprio perché inadeguata a gestire il poderoso sviluppo delle forze produttive messo in atto. L’accento sulla «ricchezza» è mantenuto ancora dieci anni dopo nei Grundrisse, quando Marx riflette sul suo specifico contenuto emancipativo: la società post-capitalistica è quella capace di realizzare compiutamente la ricchezza, che invece nel «mondo moderno» si presenta solo

«come scopo della produzione11. Di fatto però, se la si spoglia della limitata forma borghese, che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc., degli individui, generata nello scambio universale? Cos’è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della sua propria natura? Cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato. Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la sua totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire?»12.

Mai la «ricchezza» viene condannata come tale da Marx, se non nel contesto della disuguaglianza e dello sfruttamento universali. Non è il ressentiment contro la ricchezza e il benessere materiale ciò che lo muove, dunque, ma il rifiuto delle loro forme esclusivistiche e produttrici di disuguaglianza. La società post-capitalistica realizza l’universale, libera tutte le potenzialità dei periodi precedenti. Nella storia non ci sono fasi ultime, definitive, ma un continuo progresso, un tortuoso allargarsi della sfera della libertà entro un movimento storico che sa schiudere il contenuto progressivo del passato ma non è mera realizzazione di esso, bensì apertura di condizioni di possibilità inedite e più avanzate. È la potenza dissolutrice, combinatrice e innovatrice dell’Aufhebung a permettere che i nuovi livelli raggiunti non siano né realizzazione tout court di ciò che fu, né novitas assoluta. In questo quadro, e non certo nel senso di un movimento verso la «fine della dialettica»13, possiamo leggere quanto espresso nei Grundrisse:

«Nell’atto della riproduzione stessa [dello “stesso modo di esistenza oggettivo”] mutano non solo le condizioni oggettive, ad esempio il villaggio si trasforma in città, la boscaglia in terreno arativo ecc., ma mutano anche i produttori in quanto estrinsecano nuove qualità, sviluppano e trasformano se stessi attraverso la produzione, creano nuove forze e nuove concezioni, nuovi modi di traffico, nuovi bisogni e un nuovo linguaggio»14.

Il superamento del capitalismo non è dunque palingenesi totale (il cui motivo è pure presente in Marx), ma uno sviluppo su un piano qualitativamente superiore e più avanzato a partire dagli elementi che esistono nella realtà presente e che, per forza immanente, trascendono se stessi. I produttori «creano […] nuovi bisogni»: siamo agli antipodi dall’idillio campestre, della celebrazione della vita “semplice” che è oggi tanto in voga ma che non costituisce che la trasfigurazione dell’«idiotismo della vita rurale»15 e della doppia morale famiglia/lavoro. La necessità dell’industrializzazione non comporta la trasformazione del pianeta in una fabbrica tossica, né l’atomizzazione dei rapporti sociali. Allo stesso modo, l’idillio familistico-rurale che sta dietro ogni richiamo alla semplicità e all’autenticità non è spesso e volentieri che la trasfigurazione nostalgica di modi di vita legati al mondo pre-industriale, né più veri né più falsi di quelli che si sono presentati successivamente. E questo per un motivo semplice: i secondi scaturiscono dai primi, ne sono il conseguente sviluppo rispetto alle loro premesse.

Pensiamo alla centrale idroelettrica: è poi molto meno naturale e autentica di un mulino a vento, al netto di una trasfigurazione dei bei tempi andati che rimuove ideologicamente la fatica, la fame e la violenza del premoderno? Questo non significa negare gli aspetti negativi nella vita moderna: e però non vi è nessuna vita autentica da ripristinare bensì promesse di libertà da mantenere e nuove libertà da conquistare. E ci sono anche quei «nuovi bisogni» evocati da Marx, che non sono capricci dell’uomo moderno ma un ampliamento della sfera della libertà. Una libertà che a un tratto appare ristretta perché si sono prodotte le condizioni di una nuova fase, della quale lo sviluppo delle forze produttive è premessa decisiva.

 

3. Automatizzazione dei processi produttivi e liberazione del lavoro

Torniamo adesso ai Lineamenti di filosofia del diritto hegeliani, e precisamente al § 198, dove Hegel registra la tendenza storica (attuantesi per mezzo della «divisione dei lavori») grazie alla quale «il lavoro» diviene «sempre più meccanico e quindi alla fine idoneo a che l’uomo possa ritrarsene e far entrare al suo posto la macchina»16. E leggiamo anche il Marx dei Grundrisse: «la via per cui è sorto il macchinario nel suo insieme, e […] la via per cui esso si sviluppa in dettaglio […] è l’analisi – attraverso la divisione del lavoro, che già trasforma sempre più in operazioni meccaniche le operazioni degli operai, cosicché a un certo punto il meccanismo può prendere il loro posto»17. La filiazione di Marx da Hegel è chiarissima, ma non su questo intendiamo concentrare l’attenzione, bensì sul fatto che anche a partire da questa tendenza storica oggettiva Marx pensa al passaggio storico post-capitalistico: l’automatizzazione dei processi produttivi è una nuova base per l’ampliamento della libertà.

Marx non è ingenuo in proposito: invece di realizzare il sogno, già degli antichi18, della liberazione dalla fatica del lavoro, la macchina

asservisce maggiormente l’operaio allo sfruttamento capitalistico19. Marx e Engels sono estremamente chiari in merito nel Manifesto (lo stesso approccio al problema accompagnerà Marx lungo tutto l’arco della sua evoluzione): «Gli operai […] come soldati semplici dell’industria vengono sottoposti alla sorveglianza di un’intera gerarchia di sottoufficiali e di ufficiali. Non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono ogni giorno e ogni ora asserviti anche dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica»20. Né manca il ravvisare la crescente alienazione del lavoro dovuta alla macchina: «l’operaio […] diventa un semplice accessorio della macchina»21, che così allarga sempre maggiormente la distanza fra azione particolare nella catena della produzione e prodotto finito, sempre più sottratto al singolo lavoratore. Ma la soluzione non è né la distruzione delle macchine, né il ritorno all’aratro: essa si situa proprio sul piano aperto, inaugurato dall’automazione dei processi produttivi.

Sì, nel contesto capitalistico la macchina asservisce sempre di più il lavoro, ma al contempo sta ponendo le premesse oggettive di una liberazione del lavoro stesso. Il “ritrarsi” (che abbiamo visto in Hegel) dell’uomo dal lavoro svolto ora dalla macchina è anche un “liberarsi” da quella quota di lavoro adesso effettuata al suo «posto» dalla macchina. Certo, il capitale ha una sua struttura specifica al cui interno il lavoro non si ricalibra come emancipazione, bensì si riconfigura per realizzare il massimo profitto del capitalista e il massimo accumulo di capitale. E però le macchine hanno in sé non solo in potenza ma anche in atto la disposizione effettiva di un’emancipazione del lavoro realizzabile in una diversa e più avanzata configurazione economica, sociale e politica.

Ragionando sull’utilizzo delle macchine nel sistema capitalistico e sulla non-accidentalità della loro invenzione (esse permettono sempre maggiore aumento della produttività e profitto), Marx non sovrappone l’origine storica (capitalistica) delle macchine con le potenzialità insite nel loro sviluppo (presente e futuro):

«ciò non significa affatto che […] il macchinario in sé […] sia capitale, o che il loro sussistere come macchinario sia identico al loro sussistere come capitale; così come l’oro non cesserebbe di avere il suo valore d’uso in quanto oro per il fatto di non essere più denaro. Il macchinario non perde il suo valore d’uso appena cessa di essere capitale. Dal fatto che il macchinario è la forma più adeguata del valore d’uso del capitale fisso, non consegue affatto che la sussunzione sotto il rapporto sociale del capitale sia il rapporto sociale di produzione più adeguato e ultimo per l’impiego del macchinario»22.

E poco più avanti: «il capitale, senza averne l’intenzione, riduce a un minimo il lavoro umano, il dispendio di energia. Ciò andrà a tutto vantaggio del lavoro emancipato, ed è una condizione della sua emancipazione»23.

Se il primo passo riportato ci conduce alla domanda su quale possa essere il rapporto sociale di produzione «più adeguato» (su quanto possa essere «ultimo» si può anche essere più cauti) «per l’impiego del macchinario», il secondo ci pone di fronte alla spinosa questione dell’alternativa liberazione del lavoro / liberazione dal lavoro. Se, infatti, le macchine permettono una nuova fase della storia del lavoro, tale nuova fase è frenata, inceppata dal capitale e dunque dalla concentrazione del massimo profitto e della massima accumulazione nelle mani del capitalista. Circostanza che impedisce il compiersi di tutte le potenzialità dell’automatizzazione dei processi produttivi in termini di ricchezza distribuita socialmente e di qualità della vita degli individui (nonché della possibilità dello sviluppo delle macchine stesse, progettate secondo le esigenze di una società più avanzata, con «nuovi bisogni» etc.).

Da un lato vi è la possibilità di porre fine, materialmente, alla disuguaglianza denunciata da Rousseau, a cui viene a mancare la giustificazione tecnica della mancanza di beni per tutti; dall’altro si apre la possibilità di un diverso approccio al lavoro e di un diverso stile di vita. In entrambi i casi il punto decisivo è l’universalizzazione del moderno apparato tecnico-industriale, dei suoi benefici e del miglioramento della qualità della vita che ne deriva24, e, in parallelo, l’afflato universalistico che muove l’azione del proletariato, una classe che non libera solo se stessa, ma, tramite sé, l’umanità25. In questo senso, non vi è in Marx particolarismo operaio, bensì tensione universalistica. Una tensione che trova però la propria base oggettiva in quella automatizzazione dei processi produttivi che permette l’aumento della produzione (e quindi dei beni disponibili) e l’emancipazione del lavoro.

Chiaramente, il semplice aumento dei beni (primari e non) non basta: occorre riconfigurare su un nuovo piano la distribuzione e la possibilità di accesso effettivo ai prodotti. Questo nuovo piano contiene un nuovo e superiore livello di socializzazione e cioè un allargamento della fruizione dei beni e della loro accessibilità. Non è sufficiente, cioè, l’aumento dei beni disponibili e un generale abbassamento dei prezzi come concessione dall’alto, magari per contenere i conflitti e mantenere, in una determinata congiuntura, la pace sociale. Fruizione e accessibilità devono in altre parole essere possibilità concrete, permesse attraverso una ridefinizione dei diritti economici e sociali acquisiti da soggetti riconosciuti come tali. Perciò la regola-guida non diviene più il profitto per il profitto e l’accumulazione in quanto accumulazione, bensì la produzione come mezzo per la ricchezza sociale26. In questo contesto, cessa progressivamente la funzione puramente strumentale del lavoro umano, che però non diventa mai infantilistica o aristocraticistica pretesa di una liberazione dal lavoro stesso.

Se, come abbiamo visto, non si può parlare di socialismo senza sviluppo delle forze produttive, premessa per una fase storica nuova e più avanzata, dunque, sembra anche che non sia possibile pensare tale sviluppo secondo una via diversa da quella dell’industrializzazione e del confronto con la sua matrice capitalistica.

 

4. Dentro il capitalismo, verso una nuova fase

La lezione della Rivoluzione d’ottobre è, in questo senso, fortemente istruttiva. Giunta alla prova dei fatti, essa ha, con Lenin, dovuto rinunciare all’immediatezza del socialismo e muoversi verso un’industrializzazione che ha comportato elementi capitalistici, compreso il celebre «capitalismo di Stato»27. Su questo insieme di eventi Lenin si pronuncia con quella che possiamo ritenere una massima di carattere generale: «Tutto ciò non era mai stato previsto, ma tuttavia questo è un fatto incontestabile»28.

È la rassegnazione a una situazione assolutamente determinata e immodificabile? No, il punto è proprio questo: se non si riconosce il carattere oggettivo di una congiuntura storica si rimarrà travolti da essa. Il socialismo ha mosso i suoi primi passi in Europa, poi ha virato in Russia e di lì ha ispirato una parte non minoritaria del mondo non- industrializzato. Si è realizzato il socialismo? No. Non dobbiamo però mai sottovalutare un movimento di emancipazione politica ed economica su larghissima scala, che ha, fra mille difficoltà, enunciato il diritto al riconoscimento degli esclusi dallo spazio sacro politico ed economico delle élites e ha determinato la fuoriuscita dal rischio di morte per inedia per centinaia di milioni di persone.

In realtà, come non vi è mai stato un capitalismo puro, non vi sono neanche un socialismo e un comunismo puri, e la misura non è la consonanza del reale con le aspirazioni dei puristi a un mondo migliore e con i Sacri testi, bensì l’ampliamento o meno della libertà e del diritto e l’elevamento o meno degli standard di vita, assieme al procedere mediato verso di essi. Una delle lezioni fondamentali dell’ottobre leniniano è allora questa: la necessità (in concreto, non solo in teoria) dello sviluppo delle forze produttive per migliorare le condizioni di vita e porre le premesse per una nuova fase storica più avanzata (il socialismo). Tale sviluppo passa necessariamente per l’industrializzazione e l’industrializzazione implica delle dinamiche anche dolorose ma, a quanto la storia finora ci ha mostrato, ineludibili.

A tal punto Lenin, giunto a gestire concretamente il potere nell’obiettivo primo di costruire il socialismo, intende la nuova fase storica quale l’erede dei punti più alti di quella precedente, che invita direttamente a guardare alle strategie e ai modi di produzione capitalistici in quel momento più all’avanguardia: «bisogna imparare il socialismo in larga misura dai dirigenti dei trust, bisogna imparare il socialismo dai massimi organizzatori del capitalismo»29 e occorre «introdurre in tutta la Russia il sistema Taylor e l’aumento scientifico americano della produttività del lavoro»30. Certo, il «sistema Taylor» risulta particolarmente odioso, ma lo è nella sua declinazione capitalistica, che è quella originaria ma non l’unica. Ricordiamo quanto detto a proposito delle macchine da Marx: la loro valenza va al di là del capitale e ciò vale anche per un sistema di produzione come il taylorismo, che, anzi, può aprire scenari di emancipazione del lavoro.

Per Lenin si deve utilizzare tale sistema collegandolo a una

«riduzione dell’orario di lavoro, alla utilizzazione di nuovi metodi di produzione e di organizzazione del lavoro senza alcun danno per la forza- lavoro della popolazione lavoratrice. Anzi, l’impiego del sistema Taylor, giustamente diretto dai lavoratori stessi, se essi saranno abbastanza coscienti, sarà il mezzo più sicuro per un’ulteriore e grandissima riduzione della giornata lavorativa obbligatoria per tutta la popolazione lavoratrice»31.

Questa è la prospettiva leniniana, che non risulta però completa se dimidiata dall’attenzione nei confronti della coscienza e maturità della «popolazione lavoratrice»: nessuna congiuntura oggettiva può bastare, infatti, se non c’è un soggetto che, a quello stesso livello, possa agire. Ancora più precisamente: nessuna congiuntura oggettiva può essere di per sé sufficiente se non è anche il prodotto di una coscienza soggettiva matura, capace – perché coinvolta nel rapporto oggetto/soggetto (che è vicendevole: dialettico) – di essere all’altezza della gestione di quella congiuntura stessa.

In quest’ottica, appare del tutto infruttuoso e insensato discettare di decrescita, di economia sul modello dei monasteri o di coltivazioni da balcone o da salotto, come oggi spesso accade, assecondando forme pur diverse di avversione, malcelata o meno, nei confronti della modernità. Occorre invece volgersi e puntare l’attenzione lì dove lo sviluppo delle forze produttive è più avanzato, dove lo sono anche i modi di produzione e dove perciò si sviluppano standard e modi di vita all’altezza di quel livello. Il che non implica il dissolversi di ogni difficoltà e di ogni conflitto, il benessere totale e la fine dell’alienazione, ma la capacità di tenere insieme nuove conquiste e nuovi standard di benessere con nuove difficoltà, nuovi conflitti, nuovi livelli di alienazione. È di qui che passa la nuova fase storica più avanzata, non certo dal regresso a fasi storiche precedenti: sono queste nuove difficoltà, inediti conflitti e livelli di alienazione che bisogna risolvere e superare, pena l’immobilismo o la regressione.

Occorre allora non volgersi (indietro) verso il mito dell’idillio romantico-agrario bensì (avanti) verso i luoghi dove modi di produzione e stili di vita sono più avanzati o dove vi è questa tensione verso l’avanzamento. L’immaginario del socialismo non è come il mondo vuoto dei sogni ma come quel non-luogo, u-topico che vuole diventare luogo e realtà, vuole tramontare come utopia e realizzarsi come concreto, perché solo questo passaggio ne compie la verità. È l’immaginario che intravvede, seppur confusamente, l’avvenire, e che imprime alla realtà del presente il movimento verso quelle immagini: immagini-guida del futuro nel presente, a partire da esso e non da un totalmente-altro. Solo coltivando questo immaginario, metropolitano e cosmopolitico, si potrà essere all’altezza di una nuova fase storica progressiva.


Riferimenti bibliografici
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Note
1 HEGEL 2004, § 3.
2 Ibidem = HEGEL 1970, § 3.
3 Ibidem.
4 Ibidem = HEGEL 1970, § 3.
5 MARX E ENGELS 2003, pp. 12-13.
6 È qui presente la categoria hegeliana di salto qualitativo, che può assumere la valenza di categoria rivoluzionaria; su questo aspetto cfr. LOSURDO 2001, pp. 217-51.
7 MARX E ENGELS 2003, p. 14.
8 Ivi, p. 13.
9 ROUSSEAU 2005, p. 205.
10 Di qui l’aggancio dei movimenti progressisti odierni all’“ecologismo” heideggeriano. Su Heidegger e la tecnica ci permettiamo di rimandare a GRIMALDI 2015.
11 E appena prima si legge: «la produzione come scopo dell’uomo» (MARX 1976, p. 466).
12 Ibidem.
13 NEGRI 2016, p. 252.
14 MARX 1976, p. 474.
15 MARX E ENGELS 2003, p. 11.
16 HEGEL 2004, § 198.
17 MARX 1976, p. 716.
18 Marx, nel Capitale , cita Aristotele e Antipatro: cfr. MARX 2009, pp. 544-45.
19 Cfr. ivi, pp. 501-656.
20 MARX E ENGELS 2003, pp. 15-16.
21 Ivi, p. 15.
22 MARX 1976, pp. 710-11; un’impostazione analoga della questione è ribadita nel Capitale, cfr. MARX 2009, pp. 583-84.
23 MARX 1976, p. 713.
24 In L’uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine, Spengler accusa l’Occidente di aver svelato la tecnica ai popoli coloniali e in generale non-bianchi, i quali se ne avvarranno proprio ai danni dell’Occidente stesso: cfr. SPENGLER 2008, pp. 103-05. Naturalmente è aliena dal pensiero di Spengler qualsiasi tensione all’uguaglianza e all’universalismo.
25 Cfr. MARX E ENGELS 2003, p. 37.
26 Il che non esclude affatto il mantenimento di strumenti aziendali volti all’organizzazione e alla razionalizzazione della produzione e della ricchezza accumulata, non più volte all’interesse meramente privatistico ma che non si risolvono in automatismi o deregolamentazioni possibili grazie a migliori disposizioni d’animo degli uomini.
27 LENIN 2017a, p. 467.
28 Ibidem.
29 LENIN 2017b, p. 171.
30 Ivi, p. 174.
31 Ibidem.

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