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la citta futura

Il disagio dei marxisti: la crisi, la finanza e la caduta del saggio del profitto

di Alan Freeman

Alcune affermazioni sulla crisi che trovano riscontro nella realtà ma possono rendere infelici gli economisti borghesi, ma anche molti marxisti

04clt1brooklyn street art variousInizierò parafrasando George Bernard Shaw: sono state dette molte cose apprezzate sull’economia, e molte cose vere. Però ciò che è apprezzato è sempre falso e ciò che è vero è sempre impopolare.

Detto in altri termini ogni verità in economia infastidisce qualcuno e talvolta infastidisce quasi tutti. Eppure, come disse Rosa Luxemburg, l'azione più rivoluzionaria è dire come stanno le cose. Quindi l'affronto è inevitabile se si persegue la verità.

Perciò intendo dire alcune cose impopolari che, credo, si siano dimostrate vere. Potete decidere se siete d'accordo dopo aver letto i materiali in cui si presentano l’evidenza e le argomentazioni. Li cito alla fine. Alcuni non sono ancora stati pubblicati, ma scrivetemi e invierò un testo preliminare alla pubblicazione.

Potere scegliere di ignorare queste affermazioni se non concordano col vostro modo di pensare. Per aiutarvi sono disponibili molte strategie di diniego: potete liquidarle come assurde o irrilevanti; potete usare la tecnica ad hominem per ridicolizzare gli autori; potete incitare gli altri a schierarsi contro di esse, o semplicemente far finta che non esistano.

Oppure, come Marx, potete riconoscere che la conoscenza procede attraverso la contraddizione e il contrasto. Quindi che è preferibile spendere il tempo per disputare con gli avversari piuttosto che per concordare con gli amici.

In breve, il compito del marxismo, nello spirito di Marx, è di ri-imparare l'arte dell’opposizione. Con questo spirito, comincio con alcune dichiarazioni aggressive che spero vi disturbino. Altrimenti, avrò fallito.

Ecco la prima: non esiste il sottoconsumo e non esiste la sovrapproduzione.

Perché tali parole abbiano un significato dovremmo dire “sotto, o sopra cosa” si consuma o si produce. Ma questa grandezza sopra o sotto la quale ci attesteremmo non esiste, perché diversamente sarebbe valida la legge di Say: questa “cosa” può essere concepita solo come uno stato “naturale” autoreplicantesi dell'economia. Non possiamo usare tali termini senza presupporre che esista uno stato di equilibrio dell'economia.

Che non esiste, né in teoria né nella realtà. La storia del capitalismo è scandita da periodi alternati di ascesa e caduta che si verificano ogni 7-10 anni dal 1805. È anche contrassegnata da boom febbrili, o età dell'oro, lunghi 15-20 anni, come l'espansione postbellica, che si alternano a ristagni prolungati, come l'attuale, lunga depressione, che risale al 1974 ed è la più duratura nella storia del capitalismo.

Questi lunghi alti e bassi possono essere chiamati “cicli” o “onde” non più del moto di un ubriaco errante che cade e si rialza. Come Trotsky insisteva, Kondratieff negava, e Schumpeter ignorava, ogni lungo boom viene arrestato da un'azione umana consapevole, quale la riduzione degli investimenti al di sotto del livello necessario per la stabilità sociale, con si interrompe l’operato “normale” del mercato.

In alcuni di questi momenti predominarono l'imperialismo, il fascismo e la guerra; in altri, la rivoluzione. Il compito che ora ha di fronte l'umanità è la scelta tra queste uscite alternative dalla crisi attuale.

La crisi non può quindi essere analizzata facendo astrazione dalle classi, dalle nazioni e dalle rispettive azioni. In breve, non serve l’economia “pura” ma l’economia politica e, propriamente, l’economia geopolitica, come la definisce Radhika Desai. La “legge di movimento” del capitalismo di Marx non espone le fluttuazioni alienate e reificate degli indici azionari e dei prezzi, ma il movimento reale di grandi masse di persone, le cui attività sono nascoste e feticizzate dalla relazione fra le merci eccetto, appunto, nella crisi, quando il la mano invisibile diventa visibile.

La domanda, apparentemente economica, “qual è la causa della crisi”, si riduce quindi sempre alla appropriata domanda politica “che cosa si può fare per porvi fine?” E alla domanda altrettanto saliente “quale classe può farlo, e con quali mezzi?

Da qui l'obiezione principale al concetto di sottoconsumo: le sole azioni politiche che possono porre il consumo a un livello socialmente sostenibile sono quelle che lo sottraggono al dominio dell'organizzazione capitalista degli investimenti e lo pongono all'interno del dominio delle libere decisioni umane. Ciò a sua volta richiede la rettifica del meccanismo di investimento stesso - il perseguimento del più alto rendimento degli investimenti - che è al centro della crisi. Vale a dire, la domanda può essere resa “sufficiente” per la sostenibilità sociale solo trascendendo l'organizzazione capitalistica della domanda.

Molti potrebbero concordare con quest'ultima affermazione. Ma si deve dire loro in aggiunta: non potete tenere fede a questa affermazione mentre, allo stesso tempo, parlate come se esistesse un livello di domanda “sufficiente” a sorreggere il capitalismo. Eppure è esattamente questo che siete costretti a supporre dicendo che la causa della recessione, o addirittura di qualsiasi crisi capitalista, è la “insufficienza” della domanda.

Insufficiente per cosa? Questo è sempre il quesito. Se confondete la sufficienza per l'umanità con la sufficienza per il sistema economico capitalista, non fate fronte alla vera domanda a cui dare risposta. Per favorire una visione teorica, commettete un errore teorico; per meglio comunicare con il vostro uditorio, inducete tale uditorio a credere a cose che sono letali per l’ottenimento degli obiettivi teorici che con esso condividete.

Questa affermazione concettuale è confermata da due fatti empirici: il fallimento dei tentativi dei governi radicali latinoamericani di ricostruire le loro economie semplicemente elevando il tenore di vita dei poveri e il successo del socialismo cinese.

La mia prossima affermazione impopolare: la disuguaglianza non è la causa della crisi e quest’ultima non verrà superata ponendo fine alla prima. L'ineguaglianza non può essere irragionevole perché non esiste una ragione da ristabilire. Pertanto, non si supera la crisi riducendo la disuguaglianza.

Se ciò vi sembra insensato, rimarco che è socialmente, moralmente e politicamente essenziale combattere contro la povertà e la disuguaglianza e lottare per un uso giusto, equo ed ecologicamente sostenibile di ciò che la società produce. Il punto è che questa lotta non solleverà l'economia, neppure avendo successo. È necessario creare la base materiale per il necessario, effettivo cambiamento: l’organizzazione unita di tutte le classi non sfruttatrici che consenta loro di compiere il prossimo, veramente difficile passo: superare il meccanismo degli investimenti, provocando la resistenza ostinata e cruenta delle classi possidenti.

Un'altra verità impopolare: se facciamo finta che si possa raggiungere in un altro modo un buon risultato economico, diciamo una grande bugia. Se le persone ci ascolteranno, causeremo loro enormi inutili sofferenze. Il perseguimento di una buona teoria è quindi un dovere morale, non un fatto di autocompiacimento. In breve, la teoria è troppo importante per lasciarla ai teorici.

A questo proposito, dobbiamo essere precisi. La responsabilità morale di perpetuare l'illusione di un'insufficienza della domanda non è in quanto “induce” le persone a combattere per un uso corretto del prodotto sociale. Il problema è che sottovaluta il livello di sacrificio necessario per ottenere questo uso corretto. Non si può assicurare una giusta distribuzione del prodotto se non si affronta e non si supera la resistenza dei proprietari a quelle che il Manifesto comunista definisce "incursioni dispotiche nella proprietà". Si deve calpestare il loro diritto di decidere come investire il surplus e porre queste decisioni sotto il controllo pubblico. Non è sufficiente controllare ciò che viene fatto con il resto del prodotto.

I popoli del Brasile e dell’Argentina stanno scoprendo questo a loro spese. Speriamo che quello del Venezuela possa impartire al mondo una lezione, se sarà abbastanza fortunato da mettere al potere un governo disposto a compiere il prossimo passo nello sviluppo della società, andare oltre la semplice redistribuzione del reddito dei rentier, politicamente lodevole, socialmente magnifica, ma obiettivo economicamente inadeguato.

Ecco quindi la mia prossima affermazione, particolarmente impopolare tra i marxisti: la conclusione di Marx, secondo cui la causa ultima della crisi è la caduta del saggio del profitto, è tanto corretta quanto scomoda. In effetti è così scomoda, almeno per i marxisti accademici, che i più farebbero qualsiasi cosa piuttosto che ammetterlo e, in effetti, pare passino la loro vita a cercare di smentirla.

Ciò mi porta alla settima affermazione, che ho trovato particolarmente impopolare tra i marxisti, compresi quelli che riconoscono l'importanza della teoria di Marx della caduta del saggio del profitto: non possiamo dare un senso a questa teoria, per non parlare della teoria della crisi, astraendo dal suo concetto di finanza.

Nello specifico, dobbiamo renderci conto che il denaro è capitale. Detto così può sembrare ovvio, ma non appare in quasi tutti gli scritti marxisti sul saggio del profitto.

La crisi consiste proprio nell'accumulazione di capitale monetario al posto di quello produttivo. Certamente, se si nega che il denaro - compreso il debito monetario - funzioni come capitale, allora si resterà sconcertati dall’andamento del saggio del profitto e dal suo effetto sugli investimenti.

Per Marx, il denaro ha ciò che egli definisce un “secondo valore d'uso” come capitale; in questa veste, funziona da un punto di vista proprio come il capitale produttivo, ma da un altro punto di vista come il suo opposto. Questa contraddizione è al centro della crisi.

Pertanto dobbiamo riconoscere polemicamente che sia il denaro, sia gli strumenti monetari, entrano nella formazione del saggio del profitto. Essi includono tutto ciò che Marx chiamava “capitale fittizio” - obbligazioni, azioni, proprietà immobiliari, tutti i debiti monetari, squadre di calcio e la maggior parte delle proprietà da collezione: opere d'arte, francobolli, tappeti, vini pregiati e moda, per citarne solo alcuni.

Emerge quindi che il tasso di profitto nei paesi avanzati - in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito - è diminuito più o meno continuamente, in realtà in modo esponenziale, con un R2 [1] di 0,95 o più, dalla metà degli anni '50 (figura 1)

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Questo non è un dogma: è un fatto. Il compito della teoria è spiegarlo. Il dogma è continuare a venerare teoremi, come quello di Okishio che intende dimostrare che questo fatto non può esistere, o l’affermazione di scrittori come Harvey o Heinrich che Marx abbia sostenuto che non può succedere. Succede, e Marx lo spiega. Non per mancare loro di rispetto, ma solo per evidenziare che la loro teoria non spiega la realtà e che la loro interpretazione non spiega Marx.

Come tutte le pratiche teoriche, ciò ha una portata morale. Viene detto, giustamente, che nessuna forza è più potente di un'idea di cui è giunto il momento. Potremmo aggiungere che non c’è forza più pericolosa di un'idea il cui momento è trapassato.

La causa del ciclo breve è in effetti semplice. Questa affermazione è impopolare anche per molti marxisti che amano complicare le cose, in quanto ostacola la possibilità che essi possono dedicare la loro carriera allo studio delle complicazioni, a scapito dell’insita semplicità che genera queste complicazioni.

Per giungere al fondo della questione, dobbiamo riconoscere un altro fatto ugualmente impopolare per i marxisti accademici, ma centrale nell'interpretazione di Marx, offerto dalla scuola a cui sono orgoglioso di appartenere, denominata “Temporal Single System Interpretation” o TSSI. Cioè che il tasso di profitto non è uniforme. Il rendimento del capitale, come Marx non smette mai di sottolineare, è in base a una distribuzione dei tassi intorno a quello medio - alcuni più alti, altri più bassi. Il vero motore del capitalismo è la ricerca di un surplus di profitto, un profitto superiore alla media. Trascurando questo fatto non si descrive più nulla di ciò che esiste realmente o potenzialmente.

C'è pure una distribuzione dei tassi di rendimento nei mercati finanziari e monetari. La questione è ora estremamente chiara: più il saggio medio del profitto è basso, più i capitali cercheranno un rendimento più elevato accumulando beni inattivi anziché spostarsi nella produzione. Il capitale quindi si accumula come denaro; La "finanziarizzazione" è un prodotto della caduta del saggio del profitto, non una spiegazione alternativa della crisi.

In base a una qualsiasi teoria dell’equilibrio o alla legge e di Say nemmeno questo è possibile, perché in tali sistemi teorici il denaro non esiste: è un “velo”. In realtà, il capitale si accumula in due forme: la forma produttiva e quella monetaria. Tutti quegli strumenti monetari che cercano un rendimento del capitale – cioè quelli scambiati sui mercati monetari – comprimono il saggio generale aumentando il denominatore, senza aggiungere nulla al numeratore [2].

Gli strumenti monetari si accumulano a tal punto che in Gran Bretagna, dal 1987, il capitale ha acquisito più attività finanziarie che risorse produttive. Allo stesso tempo e di conseguenza, come tendenza secolare i volumi improduttivi aumentano: una evidente manifestazione della prolungata stagnazione (figura 2).

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Non si tratta di una sovraaccumulazione, né di una sovrapproduzione. Il capitale si è effettivamente accumulato; soltanto non si è accumulato nella produzione. Questa è l'essenza dell'attuale, prolungata crisi.

Un altro argomento più difficile che impopolare. Il flusso di entrate cui queste attività danno diritto include il semplice aumento del loro prezzo, causato dalla bramosia di acquisirle. Possiamo vederla in funzione nel mercato dei bitcoin. Ho scritto in merito un saggio matematico piuttosto lungo ma completo e sto realizzando un videogioco. Il lettore erudito può consultare la matematica e quello pragmatico può giocare. L’ideale sarebbe che almeno alcune persone facessero entrambe le cose. A quei pochi disposti a provarci, faccio un appello: contattatemi e lavoriamoci insieme.

Si giunge così alla classica super-inflazione delle attività finanziarie che precede ogni crollo. Il rendimento aggiuntivo, divenuto indipendente e non avvalorato dai fondamenti reali, gonfia il prezzo delle attività finanziarie ben al di sopra del livello corrispondente al flusso di entrate a cui danno legalmente diritto o, concretamente, all’insieme di entrate che possono procurare. Ciò è occultato dal fatto che il valore è mascherato dalla sua espressione monetaria, il che spiega l'apparente ‘irrazionalità’ dei mercati finanziari.

La cosa si risolve tipicamente in un crollo finanziario. Esso non è il prodotto dell'accumulazione finanziaria ma dell'assenza di sbocchi per gli investimenti produttivi. Non può quindi essere sanato da una cosiddetta “distruzione dei valori” che riguardi solo le attività finanziarie e non le merci sottostanti e, soprattutto, non riguardi il capitale produttivo.

Il crollo finanziario non risolve il problema; che dire delle contromisure, lo stimolo e così via? Certamente, queste rendono le cose ‘meno cattive’ e quindi dovrebbero essere supportate, ma non curano la malattia. La crisi non liquida il capitale reale - quello legato agli acquisti passati di mezzi di produzione, e la cui accumulazione è responsabile della riduzione del saggio generale del profitto.

Solo una cosa può impedire la crisi, cioè farsi carico della funzione di investimento, rimuoverla dalla sfera delle decisioni private su questo "secondo uso" del capitale: vale a dire calpestare uno dei più fondamentali diritti della proprietà capitalistica.

Possiamo ora concludere su un punto che illustra il vero dilemma pratico dell'umanità. Non si verifica ovviamente il caso che il saggio del profitto cada indefinitamente e necessariamente. Questo errore positivista è infantile, come probabilmente avrebbe detto Marx, quanto l'affermazione che non può assolutamente cadere.

Sappiamo che il saggio del profitto diminuisce, perché possiamo osservarlo. Ma sappiamo anche che può essere ripristinato, perché in determinate situazioni storiche, così è avvenuto: in particolare nel 1893 con l'inizio dell'imperialismo, e nel 1942 sotto l'impatto del fascismo e della guerra.

Il problema è quindi in quali circostanze viene ripristinato. In merito ci sono tre grandi punti di vista. Quello di Schumpeter è che non è necessaria alcuna azione e l'economia si ristabilirà da sola. Basti replicare che abbiamo atteso dal 1974 e, con buona pace di Duménil, della teoria Social Structures of Accumulation (SSA) e della World Systems [3] non si è mostrato il minimo segno di ripristino. Il secondo è quello dei Keynesiani, anche se non di Keynes, secondo cui è sufficiente uno stimolo della domanda; la lunga depressione tuttavia è iniziata proprio al culmine delle politiche di gestione della domanda. Quindi abbiamo la conclusione di Marx, Trotsky e incidentalmente di Keynes stesso che il problema può essere superato solo attraverso la “socializzazione degli investimenti e l'eutanasia del rentier”.

La domanda quindi è: Come può essere assicurato ciò. La storia suggerisce che occorrono grandi eventi rivoluzionari o controrivoluzionari - una conclusione schivata da Keynes, ma mostrata da Marx. La scelta è quindi, come ci ricorda la Luxemburg, se questi “grandi eventi” conducono nella direzione del socialismo o nella barbarie.


Note:
[1] Si tratta di un indicatore statistico che misura il grado di aderenza di una curva a dei dati reali. Nel nostro caso significa che il 95 per cento o più dell’andamento reale del saggio del profitto è “spiegato” da una funzione esponenziale [n.d.t.].
[2] Si ricorda che la formula del saggio medio del profitto è PV/(C+V) cioè plusvalore prodotto dalla società diviso il capitale complessivo impiegato (capitale costante+capitale variabile) [n.d.t.].
[3] Sia Gérard Duménil che la SSA hanno sostenuto che nel 1980 vi è stata una ripresa del capitalismo realizzata attraverso le politiche neoliberiste. Successivamente hanno dovuto parlare di una nuova "crisi del neoliberismo" per spiegare il crollo finanziario del 2008 [n.d.t.].

Riferimenti:
A. Freeman, The Whole of the Storm: Money, debt and crisis in the current long depression, Marxism 21, Volume 13 N. 2, pp190-224, Luglio 2016.
A. Freeman, Introduction to Chris Freeman’s “Schumpeter’s ‘business cycles’ revisited”, European Journal of the Social Sciences, vol 27 N. 1-2. luglio 2015.https://ideas.repec.org/a/ris/ejessy/0003.html
A. Freeman, Axiomatic foundations of the value theory of finance. Manoscritto inedito, 2017.
A. Kliman, A. Freeman, A. Gusev e N. Potts. The Unmaking of Marx’s Capital: Heinrich’s Attempt to Eliminate Marx’s Crisis Theory,https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2294134, 2014.
A. Kliman, The Failure of Capitalist Production: Underlying Causes of the Great Recession: Amazon.de: Andrew Kliman. Lexington., 2018.

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clau
Friday, 27 July 2018 12:38
Le sue domande e relative risposte sulla crisi sono indubbiamente interessanti, ma mi chiedo, perché non cerca d’impegnarsi a rispondere ad un’altra affermazione di Marx, che grosso modo recita: “Troppi filosofi hanno interpretato il mondo, è ora di cambiarlo!” E’ questo e soltanto questo il punto, altro che i motivi che portano alla crisi. Credo infatti che non bastino affatto le “incursioni dispotiche nella proprietà”, se con queste intende semplicemente “decidere come investire il surplus … sotto il controllo pubblico”. Ho motivo di pensare che anche lei non creda a questa soluzione, un po’ troppo semplicistica e che sa tanto di “socialismo reale”. Infine non concordo su un’altra sua affermazione, in cui dice che, “secondo Marx, la causa ultima della crisi sarebbe la caduta del saggio del profitto”. Pur non essendo un profondo conoscitore del marxismo, come probabilmente sarà lei, mi risulta che nel III libro de Il Capitale, dopo aver illustrato la “Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto”. Marx dedica un altro intero capitolo alle “Cause antagonistiche” , che illustra una ad una tutte quelle conosciute ai suoi tempi, e delle quali il capitalismo globalizzato ha fatto un amplissimo uso, parando, credo, in gran parte il colpo.
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Giancarlo
Thursday, 26 July 2018 11:04
Ho visto la crisi del 2007 a Dakar. "Paese povero" nel quale comunque la domanda non cresceva pur in presenza di risorse finanziarie diffuse. Case, auto, ICT, etc. diffuse in larga parte della società. Pensai ad una "crisi da saturazione". Non si sapeva cosa acquistare dopo che i prodotti cinesi erano entrati in moltissime famiglie. Si crea una situazione di stallo....ad oggi irrisolta.
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Franco Romanò
Wednesday, 25 July 2018 22:45
Nello schema usato da Freeman mi sarei aspettato una trattazione del modello di Sraffa in modo esplicito, dal momento che certe affermazioni sembrano chiamarlo in causa.
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Mario Galati
Wednesday, 25 July 2018 20:51
Speravo che non fosse necessario spiegare ad economisti marxisti che sottoconsumo e sovrapproduzione non sono dati assoluti riferibili ad un equilibrio “naturale”, ma concetti riferibili al sistema capitalistico ed ai suoi rapporti di classe.
Così anche per l’erroneità delle spiegazioni neokeynesiane sottoconsumistiche, o da domanda, della crisi.
Non pensavo, inoltre, che la spiegazione marxiana della crisi da caduta tendenziale del saggio di profitto fosse così impopolare proprio tra tanti economisti marxisti.
E che tanti economisti marxisti tendano a feticizzare i rapporti tra le classi, travestiti da misurazioni e meccanismi “economici”, e a non leggere nelle crisi anche l’attività “volontaria” (entro limiti e condizioni oggettive cicliche determinate, credo di capire) delle classi. La distruzione di capitale e la crisi anche come reazione della classe capitalistica ad un certo livello di rapporti tra le classi che si verifica ciclicamente.
Non parliamo, poi, del concetto elementare che il problema delle classi subalterne nella crisi non è soltanto quello di realizzare la redistribuzione delle risorse, l’uguaglianza distributiva, o di favorire investimenti privati, ma di dirigere la produzione, ossia, di redistribuire il potere, sottraendolo ai capitalisti.
Molto interessante, ed evidente, ciò che l’autore dice sul Venezuela e sulla Cina.
Se non sbaglio, però, l’autore da una parte asserisce che il sottoconsumo e la sovrapproduzione non esistono (che la crisi non sia da sottoconsumo Lenin ce lo insegnava nei suoi scritti sul romanticismo economico e su Sismondi), dall’altra fa riferimento alla sovrapproduzione di capitale, produttivo e finanziario (fittizio), insito nella legge della composizione variabile del capitale e nella caduta tendenziale del saggio di profitto. Forse ha come bersaglio soltanto la spiegazione da sovrapproduzione di merci.
Ma la stessa sovrapproduzione di merci (oltre a quella di capitale) non potrebbe essere l’epifenomeno, il fenomeno esteriore, l’onda superficiale, del fenomeno profondo dell’aumento del lavoro morto in rapporto al lavoro vivo e della caduta del saggio di profitto?
-Freeman richiama la concezione marxiana del denaro, come “capitale” in sé, anche se al suo massimo grado di astrazione, non come semplice intermediario degli scambi. Il denaro non sarebbe solo una rappresentazione di altri valori, che funge da intermediario nello scambio tra merci, ma valore in sé.
Da questo inferisce che la finanziarizzazione (che per Marx era una delle reazioni alla caduta del saggio di profitto nell’economia reale; fare denaro con altro denaro; cosa reale e illusoria nello stesso tempo) è sovraccumulazione di capitale finanziario, accanto alla sovraccumulazione di capitale produttivo. Il settore finanziario non sarebbe soltanto economia irreale di fronte all’economia reale della produzione.
Però, in un passo Freeman sostiene che “La cosa si risolve tipicamente in un crollo finanziario. Esso non è il prodotto dell'accumulazione finanziaria ma dell'assenza di sbocchi per gli investimenti produttivi. Non può quindi essere sanato da una cosiddetta “distruzione dei valori” che riguardi solo le attività finanziarie e non le merci sottostanti e, soprattutto, non riguardi il capitale produttivo”
Ebbene, mi sembra che così si ammetta che la natura “reale” di capitale del denaro, di valore in sé del capitale fittizio, di questa astrazione che nel sistema capitalistico è concreta e reale, cessi di essere tale dopo un certo limite, oltre il quale il denaro in sé, il capitale fittizio, perde la sua autonomia. Dopo un certo limite, fare denaro con altro denaro, come sosteneva Marx, si rivela un’illusione. Ritorna la concretezza del capitale produttivo, della produzione sociale, del lavoro umano.
Tanto è vero che per uscire dalla crisi il capitalismo ha necessità di distruggere capitale produttivo, essendo inutile distruggere soltanto capitale fittizio, denaro.
Mi sembra che ciò dimostri che Marx concepisse la duplicità di significato e di funzione del denaro: come intermediario e rappresentazione di altri valori al massimo grado di astrazione; come valore in sé, capitale fittizio.
Questa ambivalenza ed ambiguità, però, si risolve in ultima istanza a favore del primo significato, svelando il carattere feticistico del denaro nella realtà capitalistica.
Se non fosse così, sarebbe pienamente plausibile la denegata ipotesi del carattere esclusivamente finanziario della crisi in atto e la possibilità di soli rimedi finanziari per farvi fronte.
L’articolo è eccellente. Spero di non avervi aggiunto considerazioni troppo dilettantesche e poco pertinenti.
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