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«Il popolo è una costruzione»

Intervista a Jacques Rancière

Questa intervista, rilasciata prima delle recenti elezioni presidenziali francesi, è stata pubblicata sul numero 3 della rivista Ballast, che ringraziamo per avere concesso l’autorizzazione a tradurre.

Con la consueta radicalità, Il filosofo francese affronta qui i temi del popolo e della democrazia già discussi in libri come La Haine de la démocratie o il più recente En quel temps vivons-nous. Rancière sostiene qui che “il popolo non è la massa della popolazione”, ma “una costruzione”. Il popolo “non esiste, è costruito da discorsi e atti. Occupy, le Primavere arabe, gli Indignati, piazza Syntagma a Atene, i movimenti dei sans-papiers – continua l’autore de La Mésentente -, tutto ciò fabbrica un certo popolo di anonimi. E questo popolo è quello della democrazia: un popolo che manifesta il potere di non importa chi”. (Traduzione di Alessandro Simoncini).

pexels photo 266046 3 608x400La nozione di democrazia è onnipresente nel suo lavoro. Blanqui pensava tuttavia che democrazia fosse una parola “di gomma”, estremamente vaga e recuperabile. Perché lei tiene tanto a questo termine?

Perché esista politica, bisogna che ci sia un soggetto specifico della politica. Questa è la mia idea fondamentale. Non bastano persone che governano e altre che obbediscono. È la grande separazione iniziale tra l’arte dell’allevamento e la politica: quest’ultima presuppone che la stessa persona che governa sia governata. È questo che mi è sembrato importante per definire il rapporto tra democrazia e politica. Perché ci sia politica bisogna che ci sia qualcosa che si chiama popolo: il popolo deve essere l’oggetto su cui verte l’attività politica e, al contempo, il soggetto di questa stessa attività. In tutti i modelli ordinari dell’“arte di governare” si presuppone una certa asimmetria: c’è una massa da gestire e coloro i quali hanno la capacità di gestirla – la legittimazione del potere funziona così. All’origine, “Democrazia” non è il nome di un regime politico ma un insulto: è il governo delle nullità, della canaglia. “Democrazia” è il governo di persone la cui sola proprietà è di non avere nessuna proprietà che le autorizzi a governare, nessuna proprietà che distingua chi è buono per governare da chi è buono per essere governato. Per questo mi è sembrato opportuno conservare questo termine: ci parla dell’assenza di fondamento della legittimità del potere; ci dice che ogni potere è contingente, il potere delle autorità oligarchiche che ben conosciamo come quello dell’avanguardia che si richiama alla rivoluzione.

Nella democrazia, l’idea importante è che il governante sia “non importa chi” – cioè nessuno. È l’uguaglianza radicale, che si colloca al di qua di ogni forma particolare, costituzionale o rappresentativa. C’è dunque una chiara contrapposizione tra l’idea repubblicana e l’idea democratica: la prima è una specie di governo, un modo di gestione della società, una costituzione e un corpo collettivo – la si vede tornare fortemente oggi con il tema del repubblicanesimo (che presuppone una cultura comune o un’identità collettiva). Per contro, l’idea di democrazia indica un’assenza radicale di corporeità comune e di autorità legittima. Ho voluto pensare al di fuori degli schemi classici, anche marxisti (l’opposizione tra democrazia formale e democrazia reale). E ho ricordato l’aporia insita nella nozione stessa di democrazia. Come osservo in La Haine de la démocratie, la democrazia come idea egualitaria viene oggi attaccata da persone che appartengono ai cosiddetti regimi “democratici”. Le stesse persone sempre pronte a sostenere le campagne militari americane per esportare la democrazia, e che esaltano la democrazia contro “il totalitarismo” o “l’integralismo religioso”, si sono messe ad attaccare in modo estremamente forte il significante democratico e a opporgli quello di “République”. Le parole hanno una storia a cui io tengo a riferirmi.

 

Procediamo in questo lavoro sulle parole. Lei ha spesso scritto sul rifiuto della necessità storica e delle sue presunte determinazioni: termini come “conservatore”, “progressista” e “reazionario” hanno ancora un senso quindi?

Queste tre parole si definiranno sempre all’interno di una sequenza storica, ma non hanno in realtà valore globale. Se c’è un conflitto reale che merita di essere nominato è quello tra uguaglianza e diseguaglianza, tra un pensiero disegualitario della strutturazione dell’essere-insieme e un pensiero egualitario. Ciò che mi ha interrogato nell’idea di emancipazione intellettuale, attraverso la figura di Joseph Jacotot nel XIX secolo e la sua critica del progressismo, è precisamente questo: il progresso ha certamente potuto significare progresso dell’uguaglianza e speranza di un mondo più giusto, ma al contempo è ricalcato su un modello disegualitario. Si tratta del modello del maestro che guida l’allievo affinché un giorno quest’ultimo diventi uguale al primo, grazie al sapere che il maestro gli ha trasmesso. Il fondamento della critica al modello progressista (e al modello pedagogico in generale) è che lo stesso percorso inteso a generare l’uguaglianza futura, a partire dalla diseguaglianza presente, riproduce indefinitamente una situazione di diseguaglianza: il maestro deve sempre essere un passo avanti all’allievo per guidarlo sulla via dell’uguaglianza – che, certo, non sarà mai raggiunta … Bisogna gestire due cose alla volta: in una congiuntura ben precisa, si può sempre stabilire una prospettiva di conservazione dell’ordine gerarchico (che si potrebbe chiamare “conservatrice” o “reazionaria”) insieme a un percorso egualitario (che si potrebbe chiamare “progressista”). Resta il fatto che, fondamentalmente, il progresso è diventato un’idea conservatrice nella misura in cui genera l’idea di un movimento regolato: la potenza che dispone la marcia in avanti è, parallelamente, la potenza capace di far sì che questa marcia produca sempre lo stesso risultato – ossia la stessa gerarchia tra chi permette di avanzare e chi segue.

 

A parte qualche autore critico come Bensaïd o Löwy, come spiega il fatto che i movimenti di sinistra, più o meno radicali, si presentino ancora molto spesso come movimenti “progressisti”?

Tuttavia questo termine ha ormai ben poco significato. C’è stata un’epoca in cui ne aveva uno (si era d’accordo su un certo senso della Storia, si presupponeva che quest’ultima progredisse verso l’emancipazione, la liberazione e un futuro di uguaglianza). Ma il XIX e il XX secolo ci hanno dato una lezione: la Storia non progredisce perché la Storia non esiste. Non c’è alcun movimento storico globale che porterebbe con sé trasformazioni egualitarie. Quindi ribadisco: l’opposizione netta resta quella tra l’uguaglianza e la diseguaglianza. Lo sapete meglio di me: ormai la destra ama dire che la sinistra è reazionaria, passatista, arcaica e conservatrice perché non vuole dei “cambiamenti necessari”. Da trenta o quarant’anni si assiste a una specie di inversione del discorso progressista del marxismo: è la destra che ha recuperato il senso della Storia, è la destra a spiegare i sacrifici che conviene fare in nome del futuro, a spiegare che bisogna abbandonare i vecchi arcaismi incarnati dalle leggi sociali, dalla protezione sociale, dai servizi pubblici, e così via. Queste linee di demarcazione, che definiscono riflessi e abitudini, sono oggi molto confuse. Basta pensare al modo in cui una serie di temi di sinistra sono stati rovesciati, da almeno tre decenni, per capire che bisogna chiarire l’uso dei termini “temporali” quando si tratta di valutare le condotte e le pratiche politiche.

 

Ne La Mésentente lei scrive che la politica è sempre “locale e occasionale”. Tuttavia ha più volte sottolineato di non essere un pensatore dell’Evento. Quali sono le sfumature presenti nel suo discorso?

Se esiste la politica, non è solo perché ci sono popoli, sovrani e leggi, ma perché c’è una strutturazione specifica dell’essere-in-comune. La politica non esiste sempre, ma quando è preservata un’eccedenza propria alla politica – cioè quando il popolo politico è sempre di più della popolazione intesa come censimento, di più dell’insieme dei gruppi sociali, di più del popolo elettorale che supporta il governo, di più del popolo dei sondaggi. Esiste politica in quanto c’è manifestazione di questo surplus: quando, ad esempio, c’è un popolo in strada che si oppone al popolo amministrato dal governo, dal parlamento e dalle principali istituzioni; quando delle persone si riuniscono alla Puerta del Sol, a Madrid, per dire agli altri che non li rappresentano; quando un popolo, che è di più del popolo incorporato nello Stato (come soggetto di amministrazione), si trova in tensione con quest’ultimo. Questo è un primo punto. Il secondo è che la politica si dà sempre in funzione dei momenti evenemenziali. Se si guarda alla storia di Francia: 1789, 1830, 1848, la Comune, 1936, la Liberazione e 1968. Se ci sono partiti e strategie di lungo termine è perché esistono momenti che segnano una rottura: momenti di delegittimazione dei poteri costituiti, della distribuzione dei poteri, della suddivisione tra governanti e governati, della suddivisione tra i luoghi politici e quelli che non lo sono. Sono alcuni momenti rivoluzionari o sovversivi a fare sì che ci sia politica. Si può chiamare tutto ciò “evento”, ma quello che mi interessa è il modo in cui questi eventi riconfigurano la distribuzione stessa degli spazi, dei tempi e delle identità sociali. Inoltre, ho una certa diffidenza nei confronti dell’Evento pensato come trascendenza, come un insorgere che apre il corso della Storia – è questo l’oggetto del contraddittorio con Alain Badiou. È attraverso l’evenemenziale che c’è politica, ma l’evenemenziale non può essere chiarito da qualche scienza o discorso specifico al fine di farne, in seguito, il principio di un’avanguardia. Sono contro la concezione trascendentale del capo politico inteso come colui che interpreta l’evento.

 

Ha menzionato Badiou. Durante un dibattito filmato da Mediapart lui vi ha rimproverato, appunto, di lasciare incerto il vostro lettore rispetto all’“uso” che si può fare del suo pensiero. Anche nella preparazione di questa intervista ci è stato rivolta questa osservazione. È un’obiezione ricorrente, quindi senza dubbio fastidiosa: come mai vi si chiede sempre “che fare?”

In un certo senso è meglio non sapere che fare. Sappiamo infatti quello che è accaduto grazie al sapere di quelli che sapevano che fare. Questo sapere non ha mai ottenuto i fini attesi e la maggior parte di quelli che lo proclamavano sono diventati adoratori dell’ordine esistente. Un pensiero sospensivo è quindi opportuno. Consiste nel riconoscere che non c’è una teoria capace di condurci alla liberazione, all’emancipazione finale. Se ce ne fosse stata una, e se fosse stata buona, non vedo perché non avrebbe dovuto funzionare. Non si sa che fare con ciò che dico? Da una parte questo non riguarda solo me: chi sa che cosa fare oggi? Il Comité invisible per esempio, oscilla tra una teoria avanguardista dell’azione esemplare, la sola in grado di agitare le masse e di farle uscire dal loro torpore, e – al contrario – una teoria del ritiro presa a prestito da Giorgio Agamben. C’è stato un tempo in cui Badiou mi attaccava dicendo che non si fa politica che dentro le organizzazioni politiche, in quanto militanti; oggi Badiou non è più membro di alcuna organizzazione e tuttavia continua costantemente a scrivere sulla politica senza che ciò determini alcuna azione specifica. La mia differenza consiste nel dichiarare lo scarto irriducibile tra le analisi delle situazioni e le conseguenze che se ne possono trarre. Consiste nell’aver messo in discussione il modello semplicistico della teoria che si applica e di aver posto ai miei interlocutori la questione di sapere che cosa volessero. Che cosa si vuole? Ecco la vera questione. La maggior parte dei discorsi radicali fanno come se la sola questione fosse quella dei buoni mezzi per attingere un fine che si ipotizza essere sempre lo stesso, mentre non si sa più bene quale sia questo fine – vale anche per il mio editore e amico Éric Hazan, quando descrive le “prime misure rivoluzionarie” …

 

… Molti suoi scritti recenti sono in effetti dei programmi precisi, quasi delle istruzioni per l’uso della società futura.

È il passaggio dal prima al dopo che, in lui, è piuttosto mal programmato. Il suo ultimo libro, La Dynamique de la  révolte, spiega che l’unica rivoluzione riuscita (prendendo un periodo di riferimento relativamente corto, del resto) è quella di Ottobre, in Russia – e, precisa, per un caso della sorte! Tutte le logiche programmatiche hanno fallito o sono raffazzonate e informi. E se c’è stato un momento in cui si è avuta l’impressione che i mezzi si innestassero logicamente sui fini, oggi quel momento è finito. La questione da porre è la seguente: dove si può individuare qualcosa di nuovo? È quello che ho cercato di dire relativamente ai movimenti recenti come gli Indignati, Occupy, ecc. Il problema non è sapere come trasformare questi movimenti in una nuova organizzazione rivoluzionaria, ma comprendere che cosa essi hanno voluto. Che cosa vogliono le persone che si riuniscono un una piazza per un mese? Vivere un mese diverso? Costituire piccoli isolotti fuori dal mondo dominante? Una trasformazione radicale della società? Ma, in questo caso, come operarla, come pensarla in modo tale che sia realizzabile? Ecco quelle che ho potuto individuare come tensioni interne alla storia della volontà egualitaria, della volontà rivoluzionaria. Ai miei occhi, la questione essenziale è quella di definirsi in rapporto a queste tensioni.

 

Assistiamo a un’evoluzione nel discorso di certi movimenti di massa. Mélenchon abbandona il referente “sinistra” per sostituirgli quello di “popolo” e Podemos, in Spagna, ha abbandonato il clivage destra/sinistra per la divisione popolo/caste. Come osservatore, che cosa ne pensa?

È così profondo? Non so. La situazione spagnola è essenzialmente fondata sul movimento 15-M (un passo a lato rispetto alla politica istituzionale e alla sinistra istituzionale o trotzkista): gli Indignati segnano una rottura. Sono pratiche popolari nuove che tentano di definire un’azione democratica attraverso la creazione di spazi specifici o azioni di grande respiro, come la lotta contro le espulsioni. A fronte di ciò, c’è la logica della “sinistra della sinistra”: il fronte di sinistra e Mélenchon in Francia e Syriza in Grecia. Questi tentano di recuperare la dinamica dei nuovi movimenti popolari. Podemos è una specie di compromesso tra queste due dinamiche. Gli Indigati o Occupy intendevano costruire una potenza al di fuori del gioco statale ed elettorale; la sinistra della sinistra vuole far leva su questi movimenti per creare una nuova sinistra. Per questo vogliono recuperare la nozione di popolo e rivalorizzarla concettualmente – soprattutto a partire dalle teorie di Laclau sul populismo. Un’idea particolarmente ambigua. Si fonda, da una parte, su una logica di autonomia (l’autonomia di un popolo che si manifesta contro la logica dominante e elettorale) e, d’altra parte, sulla rivalutazione del popolo nel senso dell’uso elettorale del significante popolare. Si rimpiange di avere abbandonato quel significante, di averlo lasciato al Front National e ai movimenti di estrema destra. Quindi tutti si muovono su questa ambiguità: da una parte si afferma l’autonomia di un popolo di anonimi, di gente che non conta (incomptés), che non è definita da alcuna particolare capacità di governo; d’altra parte, si sentono discorsi schierati con il popolo degli abbandonati e dei dimenticati ma, al contempo, anche con il “vero” popolo, della “gente di casa”, che appartiene alla terra, al sangue, alla tradizione e alla Storia. Si gioca così su due tavoli: da una parte si cerca di stare in ascolto degli Indignati e, dall’altra, di ripescare tutti quelli che sono passati all’estrema destra.

 

Talvolta ci sono dibattiti il cui scopo è di sapere se esiste un “popolo di destra” e un “popolo di sinistra”, o solamente “il popolo”: lei come la vede?

Il popolo non è la massa della popolazione; il popolo è una costruzione. Non esiste, è costruito da discorsi e atti. Occupy, le Primavere arabe, gli Indignati, piazza Syntagma a Atene, i movimenti dei sans-papiers, tutto ciò fabbrica un certo popolo di anonimi. E questo popolo è quello della democrazia: un popolo che manifesta il potere di non importa chi. Ma chi dice “costruzione” dice anche che possono esserci molti modi di costruire il popolo: il popolo non è soltanto quello dell’uguaglianza e della democrazia che ho appena descritto. Può anche essere quello che il governo e i sondaggi amministrano; quello prodotto dai discorsi di estrema destra (la maggioranza silenziosa, il popolo degli abissi, il popolo delle banlieue abbandonate, il popolo degli operai senza lavoro, il popolo francese di cui gli immigrati avrebbero preso il posto, il popolo che ha una tradizione storica e religiosa che sarebbe spazzata via dall’arrivo dei barbari). Popolo di destra, popolo di sinistra: certo, in alcuni momenti ci sono delle parti di popolazione che si costituiscono a partire da determinati modelli di popolo.

 

Ne La Haine de la démocratie lei dice che il populismo, diventato l’ingiuria suprema, è un “nome comodo”. Tuttavia questa parola è esistita come un marker positivo all’interno dei movimenti di emancipazione: i populisti russi, certo, ma anche i movimenti contadini e operai americani del XIX secolo, che lottavano contro le èlite, le banche, i proprietari terrieri e le compagnie ferroviarie, o ancora il movimento letterario francese e il Premio del romanzo populista. Come spiegare questa evoluzione?

Esistono molti strati storici. Nel movimento rivoluzionario russo populismo divenne rapidamente un insulto. Ricordiamoci della polemica con Lenin. Molto presto “populismo” ha assunto il significato di un’adesione sentimentale un po’ idiota, una storia di buona volontà, un modo di andare al popolo e di indirizzarsi verso di lui senza sapere che cosa esso sia davvero, senza tener conto delle condizioni che lo dividono. Nella tradizione marxista, che è stata dominante nella sinistra francese, “populista” divenne molto velocemente un significante negativo. Di nuovo c’è forse il modo in cui questo significante negativo è venuto modificandosi per una ragione particolara: creare un amalgama. La destra si è impadronita della condanna marxista relativa al fatto di investire su un passato superato e l’ha applicata alle conquiste del movimento operaio. È questo il cuore della nuova ideologia, ormai largamente condivisa sulla sinistra fin dagli anni ’80. Questa ideologia consiste nell’affermare che c’è una strada storica ragionevole (quella intrapresa dai nostri governanti e dalle istituzioni europee) e c’è un sogno passatista, reazionario e populista, attribuito a caso al Front national o alle formazioni di estrema sinistra. Ogni movimento che voglia dare una certa consistenza all’idea di popolo, oggi può essere considerato populista. Questo amalgama serve a tutti: ai vecchi marxisti che continuano a richiamarsi al proletariato organizzato, alla destra al soldo dei potentati finanziari e alla sinistra che si pone al servizio dell’oligarchia. Il termine populismo permette di racchiudere nello stesso campo tutti quelli che, anche se in modo molto diverso, tengono testa a queste forze. A fronte di ciò c’è la volontà positiva, in una parte della sinistra radicale, di rivalutare il populismo sulla base delle teorie di Laclau …

 

Lei è scettico nei confronti di questi tentativi, vero?

Nella pratica tutto ciò ha condotto a mettere i movimenti autonomi al servizio di una logica parlamentare rinnovata, se non  della tradizione del leader che incarna il popolo: Vargas in Brasile, Perón in Argentina, Chávez in Venezuela … Questa rivalutazione della rappresentanza intende sposare la logica parlamentare con quella del dirigente amato dal popolo.

 

Nel mese di aprile Samuel Joshua, vecchio dirigente della Ligue Communiste Révolutionaire, ha scritto un articolo sulla sua riflessione. In particolare spiegava che la sua visione del mondo, troppo “ottimista”, non accetta il fatto che il popolo possa portare in seno il dominio e l’oppressione.

È falso. Non c’è “santo popolo” nel mio pensiero. In effetti alcuni credono che io sia per la “bontà originaria del popolo” e che sia incapace di comprendere che possono esserci operai reazionari ed elettori del Fn all’interno della classe operaia. Tuttavia, l’ho sempre detto e ridetto: perché siete così arrabbiati contro gli operai che votano a destra, con la scusa che, non si sa per quale necessità sociologica, dovrebbero votare a sinistra? L’operaio in quanto militante politico, non è l’operaio in quanto appartenente alla classe sociologica degli operai. Io non ho mai sviluppato una mistica del corpo collettivo che mi impedirebbe di capire perché potrebbero esserci movimenti di estrema destra, razzisti e xenofobi, con una base e un ancoraggio popolari. Anzi, questo è un fatto che mi ha posto molti problemi in meno rispetto a tutti quelli che mi muovono questo rimprovero!

 

Allora come spiega il fatto che si continuino a distorcere in questo modo le sue intenzioni?

È sempre più facile pretendere che io sia per “il popolo buono”… Tuttavia, quando ho parlato dei senza-parte, degli anonimi, di quelli che non contano (incomptés), non si trattava di nominare così i miserabili e gli abbandonati: quando ho lavorato a La Nuit des prolétaires, non ho lavorato sulla gente delle famose cantine di Lilles, no, ho lavorato su persone che, pur dicendosi operai, operavano una rottura con la propria identità.

 

Nel 2010, quando si è espresso sul razzismo con il testo Racisme, une passion d’en haut”, lei ne ha parlato come di una creazione intellettuale, una xenofobia istituzionale e non una “passione popolare”. Allora l’hanno ancora rimproverata di aver sdoganato il popolo!

In quello che chiamo il “popolo sociologico” si può sempre trovare gente pronta a dirvi che non ama gli stranieri, gli Arabi e i Neri. Questo è sempre esistito. Gli operai comunisti della “grande époque” erano per l’internazionalismo proletario, ma non per forza amavano gli operai immigrati. Il problema non è quello dei comportamenti individuali, ma quello delle forme della costruzione simbolica collettiva. Dagli anni ’90 si è prodotta una forma di razzismo dall’alto, promossa da azioni di Stato e da campagne ideologiche provenienti dalla classe intellettuale (che si presume essere di sinistra). Penso in particolare alle deviazioni dell’ideologia laica. Attraverso questa intensa agitazione – dalle lois Pasqua a quelle sul velo e il burqa —, abbiamo assistito alla costruzione di un conflitto di civiltà. Tutto ciò non è emerso dagli abissi popolari, ma dallo Stato e dagli intellettuali. Non si sono visti recentemente grandi movimenti popolari di caccia agli immigrati. Ci sono azioni isolate, ma non più che in altre epoche della storia recente. La novità non è l’esistenza di milizie di estrema destra formate per picchiare il Nero o il Magrebino, è la costituzione ufficiale dell’immagine di una popolazione che non sarebbe integrabile. Non la si smette di ripetere che se il potere promuove simili campagne è per arginare il razzismo di base, per evitare che il popolo degli abissi e delle passioni terribili faccia irruzione. Ma quello del “popolo degli abissi” è un argomento manipolato da coloro i quali costruiscono il nuovo razzismo!

 

Didier Eribon, in Retour à Reims, evoca il razzismo presente nel suo ambiente familiare, cioè popolare. Parla del sorteggio  delle cariche, tema a voi caro, e ci fa sapere che non vorrebbe che la sua famiglia accedesse al potere, perché non ha le competenze per governare. Che cosa ne pensa?

Non vedo in che modo si possa giustificare il fatto che quelli che non hanno le competenze per partecipare al governo delle cose comuni, ne avrebbero abbastanza per scegliere i buoni gestori delle cose comuni. Mi sembra questa la contraddizione fondamentale. Nell’ipotesi del sorteggio delle cariche risuona quest’idea molto forte che risale a Platone (che non era certo un uomo di sinistra!): il peggiore governo è il governo di quelli che vogliono governare. La mia idea fondamentale è che non si vede perché una rappresentanza tirata a sorte sarebbe peggiore di una rappresentanza eletta nelle condizioni attuali. Intanto, la rappresentanza sorteggiata elimina quelli che vogliono governare. In secondo luogo, elimina il clientelismo. Poi, elimina lo sviluppo dell’influenzabilità dei sentimenti legata al rapporto elettorale stesso. Evidentemente si può sempre dire: “non vedo la mia famiglia, il mio portiere o il mio idraulico dirigere lo Stato ”. Si può. Ma perché, a svolgere questo compito, si trovano particolarmente indicati i membri di una scuola di Amministrazione o degli avvocati d’affari? Lo Stato deve essere diretto da chi rappresenta ben precisi interessi particolari? Da malati del potere? Perché è questa la combinazione che abbiamo attualmente: lo Stato è governato da drogati del potere e da rappresentanti degli interessi finanziari. L’argomento è sempre: “sanno a che porta bussare, sanno come ottenere il denaro, sanno cavarsela con i compagni a Bruxelles”. D’accordo, ma se si vuole un’altra cosa occorre, molto semplicemente, immaginare un’altra cosa. Non c’è ragione di pensare che una Camera parlamentare uscita da un sorteggio, con una logica di mandati brevi e non rinnovabili, sarebbe peggiore di una Camera che rappresenta i drogati del potere, i notabili locali, e le rappresentanze degli interessi finanziari. La questione delle istituzioni è stata completamente trascurata dalla cosiddetta sinistra radicale. In nome del vecchio principio marxista secondo cui le apparenze della democrazia formale occultano la realtà profonda del dominio economico, questa sinistra ha abbandonato ogni proposta sulle trasformazioni della vita pubblica. D’altro canto, è chiaro che quelli che presentano il sorteggio come soluzione che risolverebbe da sola la questione del potere del popolo dimenticano che questo potere è innanzitutto un contro-potere prodotto dalla dinamica effettiva della lotta. Bisogna che questo contro-potere esista perché delle nuove forme prendano senso e forza.

 

Nella suo libro Moments politiques lei torna sulla nozione di “comunismo” e su ciò che sarebbe possibile e pensabile farne. Nel corso della sua  opera ha lavorato sulla tradizione anarchica, ma con questi scritti sembrerebbe far propria questa voce comunista.

Il testo a cui fa riferimento è stato pronunciato durante un convegno dedicato al comunismo. Se qualcuno mi invitasse a un convegno sull’anarchismo, lo sarei – ma è più difficile trovare i fondi e la logistica necessaria a un grande convegno sull’anarchismo che a uno sul comunismo (ride). Ho proposto una definizione del significante democratico che è anarchica, in senso forte: non esiste alcuna potenza autorizzata e legittimata a esercitare il potere. In fondo, la democrazia non è altro che il richiamo del significante anarchico. D’altra parte, ho lavorato molto sulla tradizione anarchica e sul sindacalismo rivoluzionario: l’idea comunista ha un senso se è quella del potere di non importa chi – ed è anarchica. Esiste una gran forza storica del movimento libertario e ci sono molte sue eredità importanti. Ma si deve comunque dire che troppo spesso l’anarchismo ha storicamente significato la costituzione di una piccola setta dottrinaria: si sono dati dottrinarismo e compromissione politica sia nell’anarchismo che nel comunismo. Nelle mie ricerche ho potuto constatare che un certo numero di sindacalisti libertari si sono messi al servizio di Vichy, prendendo così il posto dei comunisti, cancellati dalla mappa. Io distinguo l’anarchismo come principio e dall’anarchismo come ideologia, spesso ostacolati dalle proprie pesantezze. Ho una sensibilità profondamente anarchica, ma la separo dai piccoli gruppi anarchici. E tengo a dissociare questo principio dalla confusione che si fa oggi: oggi si chiamano “anarchici” quelli che, con o senza bandiera nera, spaccano i bancomat alla fine delle manifestazioni … L’anarchismo è innanzitutto l’autonomia. Si dà nelle cooperative di produzione e di consumo, nelle forme di trasmissione del sapere e di informazione autonome dalle logiche dominanti. L’anarchismo è l’indipendenza rispetto alla sfera governamentale.

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