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ospite ingrato

Gramsci e l’idea di critica

di Marco Gatto

antonio gramsci 770x430Nella Italia più culta, e in alcune città della Francia ho cercato ansiosamente il bel mondo ch’io sentiva magnificare con tanta enfasi: ma dappertutto ho trovato volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle, e tutti sciocchi, bassi, maligni; tutti. Mi sono intanto sfuggiti que’ pochi che vivendo negletti fra il popolo o meditando nella solitudine serbano rilevati i caratteri della loro indole non ancora strofinata.
Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802)

La lezione di Gramsci in materia di critica letteraria e di critica della cultura risiede nel proporre un’alternativa teorica e politica all’idea, non solo romantica e non solo crociana, di un’autonomia dell’arte e della sfera estetica. E la rilevanza – per non dire l’attualità – di questa lezione sta nell’allestimento di una produttiva dialettica tra il riconoscimento della specificità dei problemi letterari e artistici, e dunque della necessità di un terreno di comprensione disciplinare, e il loro inserimento nel quadro di una proposta politica complessiva, che contribuisce a ridefinirne i contorni, se non a potenziarne i presupposti. Lontano dalla logica schematica dei “distinti” di Croce, anche e soprattutto nel processo critico, Gramsci stabilisce una compenetrazione (ovviamente, non pacificata, ma costantemente dinamica) tra una dimensione, per così dire, settoriale dell’agire intellettuale e una dimensione appunto pubblica, dunque ideologica e politica, dell’intrapresa culturale. Cosicché, nei termini restituiti dai Quaderni, il giudizio su un testo, su una categoria estetica o su un problema culturale si muta, al netto di una sua analisi condotta attraverso lo strumentario della disciplina di riferimento (la filologia, ad esempio), nell’occasione politica di una trasformazione: da una nuova idea dell’arte promana un’idea nuova di civiltà, e dunque un nuovo modo di intendere i rapporti sociali.

Il giudizio estetico, in tal senso, è una tappa importante per la costruzione dell’egemonia politica, che, come sappiamo, si fonda sull’edificazione di nuove forze intellettuali, capaci di sfuggire alle logiche suadenti dell’addomesticamento culturale e del servilismo settario che, a parere di Gramsci – qui erede di una lunga tradizione polemica che rimonta a Leopardi –, da sempre designano il carattere del dotto e del sapiente (italiano e non). E tale approccio si lega alla convinzione che non possa darsi, se non in forme ideologicamente controllate e programmaticamente alienanti, un’arte autonoma, ossia un’arte che pensi se stessa come mitica autopoiesi, come scissa dall’interezza della materialità sociale.

Pertanto, l’idea di critica che Gramsci, pensatore dialettico e totalizzante, ha in mente negli appunti programmatici di studio e analisi di precise questioni culturali sembra sostanziarsi nel doppio movimento di una critica dell’autonomia e di un riconoscimento della specificità. Sicché in Gramsci lo specialismo autoreferenziale – da cui proviene, secondo il lessico del pensatore sardo, il carattere di casta degli intellettuali italiani – è disinnescato nello stesso istante in cui sorge come necessità disciplinare, dal momento che la sua ragione d’essere non è esclusiva, ma influenzata direttamente dalla lotta per una nuova idea di democrazia culturale. Siamo cioè di fronte a una perenne autoverifica dei presupposti critici, che autorizza a riconoscere Gramsci come modello dialettico anche per il presente: il suo storicismo assoluto fa dell’occasione critica uno strumento di conoscenza delle condizioni materiali entro cui l’atto di giudicare, interpretare e trasformare si colloca. È la lezione dello hegelo-marxismo, al quale Gramsci guarda con assoluta originalità, offrendo un contributo essenziale all’idea di una gnoseologia sempre processuale, secondo cui, per dirla con Nicola Badaloni, «il conoscere è il perenne modificarsi della teoria in relazione al perenne modificarsi della pratica».1 Nello stesso tempo, il controllo teorico al quale l’atto critico è sottoposto rimanda a un orizzonte filosofico sì di assoluta storicizzazione delle categorie ermeneutiche, ma anzitutto di riflessione autocosciente sul carattere sia orizzontale (immanente, specifico) sia verticale (appunto, storico, materiale), in entrambi i casi transeunte, degli oggetti culturali. Pertanto, in Gramsci è sempre viva la consapevolezza problematica del necessario utilizzo di prestabilite categorie idealistiche, con tutti i rischi di formalismo e provvidenzialismo a esse legati. Ma proprio tale consapevolezza, per dirla con le parole di un lettore attento delle pagine gramsciane come Renato Solmi, esprime l’idea che «ciascuna delle nostre categorie contiene in sé, abbreviata e come in sintesi, la propria storia, […] un mutamento reale»,2 che espunge da loro l’idea di fissità e assolutezza. Insomma, l’originalità di Gramsci consiste proprio nell’aver concepito, stringendo il nesso tra critica degli esiti culturali e costruzione di un’egemonia politica perennemente in autoverifica, e convertendo i risultati del crocianesimo in una filosofia sociale unitaria,3 un modo nuovo di intendere lo storicismo e la lotta per una nuova idea di sapere, privo, certo, di compromessi disciplinari e di fiacchi trascendentalismi, e tuttavia immune da facili tentazioni immanentistiche. Ne consegue che Gramsci mai rinunci al giudizio estetico (e anzi riconosca la grandezza di opere letterarie pur lontane, almeno in apparenza, da una vocazione esteriormente politica) e alle competenze tecniche, bensì scelga di incorporare le due istanze in una critica della cultura in movimento, nel nome di un umanesimo reale e storico in grado di porre sotto accusa, con costanza e acribia, l’idea di una separatezza dell’arte dai destini sociali, e dunque il suo sconfinamento romantico e idealistico nell’irrazionale.

Non a caso, si parte sempre dall’identificazione materialistica di un nesso problematico d’ordine storico e concettuale. Di fronte all’insoddisfazione generata da un modo di intendere l’arte eccessivamente individualistico – frutto di un’attitudine libresca e intellettualistica, ed esito di un carattere di «casta» più simile al «sacerdozio»4 che a un percorso di conoscenza critica –, Gramsci reagisce con l’intento di ricostruire la prospettiva nella quale un determinato problema culturale si colloca, spesso dimostrandone la sua origine di classe. Pertanto, un certo modo di comprendere l’arte e la cultura è proprio del carattere aristocratico degli intellettuali italiani, più interessati alle sottigliezze artificiose di un qualche remoto poema che alla vita morale dei reietti. Alla domanda «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia?» (Q. 23, 1, 2108) – una domanda di lunga durata, che da Foscolo e Leopardi giunge in questi termini a Ruggiero Bonghi5 – si risponde storicizzando adeguatamente i presupposti della sua emersione, senza ricadere nell’unilateralità di una chiosa elitistica o solo culturale. Quando i nessi di ragionamento, dice Gramsci, risultano «mal posti per l’influsso di concetti estetici di origine crociana» o idealistica – quali il significato morale dell’arte, la sua forma o il suo contenuto espressivo, concepiti quali essenze distinte –, ne consegue la difficoltà di «intendere concretamente che l’arte è legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura si giunge a modificare il “contenuto” dell’arte». Ed è un lavoro politico che non si realizza «dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall’intimo, perché si modifica tutto l’uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è espressione necessaria» (Q. 21, 1, 2109). È un luogo nevralgico della riflessione gramsciana: all’inadeguatezza di una cultura immobilistica che non sa penetrare nelle classi sociali meno abbienti, che non sa cioè farsi garante di «un moderno “umanesimo” capace di diffondersi agli strati più rozzi e incolti» (Q. 21, 5, 2119), si oppone non un’arte esortativa e limitatamente didascalica – una versione estetica del meccanicismo volgare –, bensì un’arte e una cultura diffuse, in grado di porsi il problema della costruzione pedagogica di un senso comune nuovo, di un affinamento delle potenzialità di comprensione dell’arte da parte delle classi sociali più povere, di un consolidamento dell’idea di emancipazione.

Siamo pertanto su un territorio inesplorato (anche in seno alla riflessione marxista). La nota nozione di “nazionale-popolare” – del tutto fraintesa da chi ha voluto essere, con sommo successo nel nostro Paese, un censore del populismo letterario – non ha nulla a che vedere con un presunto abbassamento dei valori estetici. Piuttosto è tesa a ribadire un’idea di totalità sociale in cui il fattore-arte, lungi dal pensarsi autonomo (giacché legato al dominio di una classe sulle altre), lavora politicamente all’edificazione di un’umanità nuova, senza rinunciare alle sue specificità, senza annullare l’attribuzione valoriale accertata dalle scienze umane di settore, senza barattare Shakespeare con la letteratura supposta popolare. Che sia un umanesimo democratico, allargato e inclusivo – per usare le parole di un lettore accorto di Gramsci che risponde al nome di Edward W. Said6 – l’obiettivo, lo conferma il richiamo costante del prigioniero sardo al tema dell’interezza umana e del legame profondo che l’arte intrattiene con la profondità dei problemi esistenziali. L’educazione letteraria, rivolta ovviamente ai più deboli, nulla ha a che vedere col consumo massivo di titoli facili e ammiccanti – in fondo è questo il punto d’arrivo delle riflessioni gramsciane sulla diffusione presso il grande pubblico dei romanzi di appendice o di testi lontani dalla condizione sociale italiana –, ma, al contrario, prevede un lavoro collettivo per agevolare gli strati più bassi nell’acquisizione di una cultura universalmente condivisa, che sappia dare risposte più profonde alle loro esigenze, aggirando il rischio della distrazione amministrata.

Per questo motivo, l’affermazione contenuta in una lettera a Iulca del 5 settembre 1932, nella quale Gramsci sostiene di poter «ammirare esteticamente Guerra e pace di Tolstoi e non condividere la sostanza ideologica del libro»,7 va intesa nella direzione appena descritta di un umanesimo critico che, non rinunciando alla grandezza estetica dei capolavori, giudichi le opere e le trasmetta nell’ottica di uno storicismo assoluto e nella cornice di una lotta per l’emancipazione, entro la quale certi significati possono ovviamente darsi come inservibili. Vale a dire che Gramsci qui enuclea un problema teorico di cui si farà poi carico György Lukács: l’idea che la letteratura si candidi a essere strumento di conoscenza della realtà proprio per la sua capacità di riflettere la complessità del consorzio sociale, a volte persino allontanandosi dai principi ideologici dell’autore. Cosicché il legittimista Balzac si dimostra autore più utile alla causa del socialismo di qualsivoglia propagandista di esibite credenze rivoluzionarie, dal momento che la sua capacità rappresentativa rispecchia il movimento complesso dei gruppi sociali, la dinamicità della lotta fra le classi e, dunque, la totalità dei processi materiali, fornendo gli strumenti adatti a una comprensione non distinta, non particolare, non settoriale dei problemi in campo.

Bisogna tuttavia avvertire, al di là delle possibili implicazioni teoriche, che il faro politico di Gramsci resta la lotta per l’egemonia. Che si traduce, potremmo dire, in una pedagogia dal basso in grado di diffondere se non proprio la pratica umanistica, almeno il suo sentimento, lungo tutto l’arco della società. Il giudizio estetico sulle opere, pur riconosciuto come indispensabile, è pertanto parziale: deve integrarsi col momento politico. Ma anche quest’ultimo, per Gramsci, non è di facile indirizzo e non può essere ancorato a facili automatismi. Va, insomma, verificato. Si comprende allora per quale motivo sia impossibile scindere l’attività intellettuale da quella politica. Nel difficile percorso di costruzione di una nuova egemonia, che prevede la formazione di nuovi intellettuali, questa volta non emersi dalla casta dei “letterati”, ma da quel che Gramsci può ancora chiamare “popolo”, il lavoro del socialista prevede il perenne e cosciente scardinamento di quelle falsificazioni identitarie, individuali e di gruppo, che qualsivoglia attività incontra nel suo dispiegarsi, tanto più in un momento – quello di una modernità non ancora avanzata – in cui la logica del professionismo e del settorialismo regolato sembra risultare vincente.

È in un passo ancora una volta dedicato al rapporto tra arte e costruzione di una nuova società, peraltro noto per la sua ferocia sarcastica, che Gramsci chiarisce la sua posizione. «Il rapporto artistico mostra – egli afferma – […] la fatua ingenuità dei pappagalli che credono di possedere in poche formulette stereotipate la chiave per aprire tutte le porte. […] Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello». Il motivo è presto detto: «Esaurire la quistione limitandosi a descrivere ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo, più o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure il problema artistico» (Q. 23, 3, 2187). Dal momento che quest’ultimo, aggiungiamo, non può accontentarsi di un così facile e meccanico riflesso. Il punto è che la lotta culturale deve tenere avvinte sia la critica artistica che la critica politica, in un modo così dialetticamente avvertito da scongiurare lo svuotamento dell’una o dell’altra. Quando il contenutismo si sostituisce alla critica estetica, annullando le prerogative specifiche di quest’ultima, si realizza, per Gramsci, un arretramento delle conoscenze scientifiche. Così, allo stesso modo, quando il formalismo si compiace di se stesso, prefigurando orizzonti di autonomia, decade l’obiettivo di una trasformazione attiva della società. Se invece si realizza quel nesso dialettico sopra evocato – se cioè, nel rispetto delle specificità, gli apparati critici si incontrano, in qualche modo negando la propria indipendenza disciplinare –, allora si dà vita a un lavoro critico-politico in cui lo studio delle grandi opere è funzionale alla crescita culturale delle masse, l’analisi della diffusione presso il popolo di certe forme d’arte è relativa a una consapevolezza maggiore delle condizioni generali e la comprensione dell’interezza culturale di un dato momento storico ha il merito di ricostruire l’immagine della totalità sociale.

Ecco perché, anche e soprattutto sulla scorta dell’esempio di De Sanctis, Gramsci parla di un lavoro culturale attraverso il quale realizzare i presupposti per un nuovo modo di intendere i rapporti umani. «Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una “nuova cultura” e non per una “nuova arte” – egli scrive – […] pare evidente». Si deve cioè «parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà», poi legato alle possibili e future emersioni artistiche (Q. 23, 6, 2192). Pertanto, la lotta per una nuova arte, che discende dall’allestimento di una nuova piattaforma culturale e che rappresenta l’obiettivo della critica estetica ancorata alla “filosofia della praxis”, pone un ordine nuovo di problemi: il tentativo di conquistare un’egemonia morale e politica capace di infondere una libertà artistica forse più genuina, nel novero della quale sarà impossibile scindere il contenuto dalla forma – una libertà espressiva forse più rispettosa dell’artisticità in sé di quanto lo possa essere una nozione solo puristica o contemplativa d’essa. È insomma l’irruzione dell’elemento politico-morale in un quadro di problemi già crociano a scardinare la logica dell’autonomia estetica, proprio perché risemantizza quest’ultima. Ha ragione Bartolo Anglani nello scrivere che «La socialità dell’arte e dell’artista, per Gramsci, non discende perciò da fattori contenutistici e/o ideologici, ma è connessa alla capacità universale di portare nel mondo “civiltà” e “bellezza”»,8 che a, loro volta, aggiungo, sono fattori politici nel quadro di una lotta per l’egemonia.

Il riconoscimento del nesso tra critica dell’autonomia e garanzia della specificità artistica non ha trovato accoglimento nella critica letteraria e nella critica della cultura italiane del Novecento, se non in sparute individualità. Una di queste – mi piace ricordarlo, proprio perché dimenticata – risponde al nome di Arcangelo Leone de Castris.9 Si è preferito vedere in Gramsci il campione di un’estensione indiscriminata del campo culturale, quando non il teorico supremo della sovrastruttura, o addirittura l’ispiratore di manovre populistiche. Queste visioni non solo rischiano di leggere in modo assai passivo gli appunti consegnati dai Quaderni, ma sposano perfettamente il momento postmoderno, caratterizzato da una costitutiva manomissione di quei nessi dialettici e materialistici che, al contrario, Gramsci pone in essere, direi addirittura logicamente, nel dinamismo concettuale del suo pensiero. Al contrario, proprio oggi, nella fase in cui la cultura si dimostra articolazione propulsiva del sistema economico dominante, la problematica gramsciana risulta attuale. All’estensione del simbolico a tutti i campi della vita corrisponde un ritorno feticistico della nozione di “autonomia” che costringe la critica a forme (persino compiaciute, in taluni casi) di isolamento. Recuperare quel nesso di problemi, rileggendo con pazienza i moti del pensiero gramsciano, sarebbe forse un primo passo per arginare il rischio – del resto, già realizzato – di un sapere troppo spesso addomesticato, chiuso nella prigione dorata del “culturale”, che, al prezzo di un inganno ormai consumato, pensa se stesso come articolazione passiva di un sistema che lo rifiuta o addirittura si accredita come reale opposizione corrosiva (ovviamente regolamentata e quindi svuotata di senso).

Forse è tempo che l’armamentario gramsciano sia rimesso in gioco per dar vita a una multiforme critica dell’intellettualità dominante, che nell’attuale congiuntura mi sembra, anzitutto nei più giovani, forse eccessivamente sedotti da troppo suasive icone del pensiero, del tutto aderente allo spirito dei tempi. Tempi che, incontrando il nichilismo morbido di un capitalismo tecnologico e immateriale, promuovono la costituzione di intellettuali compiaciuti della propria marginalità, delle proprie pose estetizzanti, che spesso prolungano miti dannunziani di elitarismo, di sopravvivenza placida di un mondo borghese ormai tramontato, comunque concepito quale unico e solo depositario del vero sapere. Tempi, tuttavia, che vedono anche a sinistra l’egemonizzarsi di posizioni irrazionalistiche, le quali, proprio su una manutenzione tutta esteriorizzata dei conflitti10 e sulla riproposizione a dir poco romantica del concetto di “autonomia”, ricamano narrazioni di senso più simili a transitorie e accomodanti poetiche che a strutturate politiche di lungo respiro. Credo sia da intendersi in tal senso una buona parte di pensiero supposto critico che, miscelando un assai ambiguo materialismo filosofico con il pensiero francese di ascendenza strutturalistica e decostruzionista, propone oggi la valorizzazione predeterminata di porzioni di soggettività eccentriche e differenziali, capaci di liberarsi, quasi per statuto ontologico, dal giogo del sistema capitalistico, che al contrario va dimostrandosi sempre più in grado di formare soggetti e di neutralizzare apparenti quote di contraddizione collocandole in appositi mercati del risentimento e della negazione. Per dire, cioè, che la cancellazione di un’ottica totalizzante e critica, quale Gramsci mi pare svolgerla con l’assoluta originalità che è propria del più grande marxista del secolo scorso, favorisce nel momento attuale – anche in chi, attraverso richiami forzosi alle pagine gramsciane, vorrebbe incarnare l’alternativa – un processo di esteriorizzazione della negazione. Che consiste, a parere di chi scrive, in un’inversione storica: vale a dire nella mutazione, regolamentata e amministrata dal capitale, della cosiddetta cultura d’opposizione in senso comune, in quella che potremmo definire come una gestione capitalistica e culturale delle istanze di sovversione, la quale proprio Gramsci insegnerebbe a contrassegnare materialisticamente e storicamente come il nuovo abito indossato da porzioni sociali autoreferenziali. Perché, come apprendiamo dai Quaderni, il costituirsi di un’identità culturale implica un suo costante rafforzamento, un suo perenne definirsi per differenza e sottrazione, per distinzione, direbbe Bourdieu, cosicché un compiaciuto corporativismo culturale e sociale si fonda anzitutto su logiche di auto-fraintendimento, incapaci cioè di porsi la questione di una continua verifica del proprio costituirsi ideologico. Per dire, ancora, che è proprio attraverso la lezione di Gramsci che pare possibile oggettivare l’integrazione della cultura critica nel capitale. A patto si riconosca nel fondatore del Partito comunista italiano un pensatore totalizzante, vale a dire intento a proporre un pensiero sistematico di conoscenza integrale della realtà, entro la cui particolarità speculativa riposa una concezione della storia come susseguirsi di rapporti di dominazione e subalternità che mai nega il nesso dialettico tra l’economico e il simbolico, per quanto le sue analisi possano apparire sbilanciate su un piano oggi considerato come genericamente culturale. Considerare invece Gramsci come una delle tante tessere da riattualizzare nel mosaico della postmodernità significherebbe negarne il principio regolativo del suo agire, tutto teso alla costruzione permanente e sempre sotto verifica di una visione totale della realtà sociale e politica, colta appunto nella sua interezza e unità. Significherebbe, per concludere, azzerarne il potenziale critico, dal momento che, come i Quaderni insegnano, è la capacità di selezionare, discernere, stabilire contrasti e connessioni a salvare la conoscenza da ogni possibile sprofondamento nei funesti incantesimi del particolarismo, o, se si preferisce, del cattivo universalismo.


Note
1 N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Torino, Einaudi, 1975, pp. 137-138.
2 R. Solmi, Ernesto de Martino e il problema delle categorie [1952], in Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 55.
3 Cfr. su questo punto R. Finelli, Sull’identità di storia, politica e filosofia, in «Rivista di studi italiani», anno XVI, I, giugno 1998, pp. 9-21, e R. Musolino, Marxismo ed estetica in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1971, in part. pp. 33 e sgg.
4 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, Q. 12, 67, p. 1505. D’ora in poi i riferimenti a quest’opera verranno indicati direttamente nel testo: all’indicazione del Quaderno (Q.) segue quella del paragrafo e del numero di pagina.
5 R. Bonghi, Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia [1855], Milano, Sugarco, 1993.
6 E.W. Said, Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni [2004], trad. it. di M. Fiorini, Milano, il Saggiatore, 2007.
7 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Torino, Einaudi, 1968, p. 670.
8 B. Anglani, Egemonia e poesia. Gramsci: l’arte e la letteratura, Lecce, Manni, 1999, p. 124.
9 Mi si permetta di rinviare al mio Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento, Macerata, Quodlibet, 2016.
10 Cfr., su questo punto, il recente G. Cesarale, A sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, Roma-Bari, Laterza, 2019.

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