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Marx circuìto da Bellofiore

di Leo Essen

circooloPiù delle teorie della crisi, più dei temi della reificazione e dell’alienazione, dopo un secolo e mezzo di polemiche, di esegesi e confutazioni, l’argomento della discordia è ancora il Plusvalore. Il vero luogo della tempesta, dice Bellofiore (Marx rivisitato), è il Terzo libro del Capitale, con la sua trasformazione dei valori in prezzi. Se questo argomento è ancora al centro di un grande interesse, e se il capitale cerca con ogni mezzo di confutarlo è perché, dice, vuole nascondere la propria origine nel lavoro.

Il capitale non è un dato che può essere presupposto, ma è un risultato. Dunque, la sua origine deve essere spiegata. Il capitale non è un fattore della produzione, non è una cosa, non è un’entità intelligibile o una costante. Il capitale ha una storia, ha un inizio e avrà una fine. Ma, soprattutto, il capitale ha un inizio che si reitera ad ogni ciclo. Si tratta di un inizio che non è dato una volta per tutte in una certa epoca determinata, ma è un inizio che si impone e ritorna a ogni ciclo di valorizzazione del capitale. Il denaro non si trasforma in capitale una tantum, ma ha bisogno di alienarsi per l’acquisto di forza-lavoro, ad ogni ciclo, perché solo il capitale variabile ha la potenza di valorizzarlo. Di più, solo il capitale variabile lo vivifica, lo attualizza, lo mette in circolazione, lo fa essere qui o là, in questo o quest'altro investimento effettivo.

Questa sola circostanza – la reiterazione – dovrebbe mettere a tacere ogni pretesa che vorrebbe far ricadere sul genio, sul merito, sulla fortuna, sulla furbizia, eccetera, la causa dei piccoli e grandi patrimoni accumulati da alcuni.

Se Bill Gates è l’uomo più ricco del mondo è perché se lo merita. Se Steve Jobs è stato capace di trasformare una sua idea, nata in un garage, in un colosso con una capitalizzazione superiore al Pil della Svizzera è perché era un genio, e se non era un genio era un mago del marketing. Se Jeff Bezos è riuscito a creare un supermercato planetario è perché si è mosso in fretta, prima degli altri e in mondo efficace. Se Larry Page, Mark Zuckerberg, Warren Buffett; se Uma Thurman, Bono Vox, Dr. Dre, Julio Iglesias, Jay-Z; se Eva Spiegel, Hui Ka Yan, Li Ka-shing, Lee Shua Kee, Jacqueline Mars, Giovanni Ferrero, iPhone, Walkman, Jeep, Moncler, Nike, Clarks, Half Moon Bay, Nutella, Prozac, Zoloft, Monna Lisa, Leo Messi, Maja desnuda, Stephen King, Gucci, eccetera, macinano soldi senza sosta, il motivo è… Il motivo non lo sappiamo più, e ci accontentiamo di ripetere che sono bravi, che sono buoni, che se lo meritano, che sono dei geni, che sono migliori, che hanno talento, che hanno studiato, che hanno fortuna, eccetera. Ma il motivo della sproporzione tra il genio e le fortune accumulate non lo sappiamo più spiegare, se non facendolo derivare dalla circolazione, dalla domanda e dall’offerta, o dalle circostanze. Eppure, oggi, davanti a tanta ricchezza sbattuta in faccia come fosse la cosa più normale del mondo, nemmeno riconoscere il «valore di situazione» come valore pubblico appare soddisfacente. Solo la teoria di Lavoro incorporato e Plusvalore porterebbe tutti con i piedi per terra. Se questi paperoni fossero dei lavoratori – e non lo sono – per essi dovrebbe valere la regola elementare che il valore prodotto è pari alla somma del lavoro necessario a riprodurre un loro esemplare + il lavoro eccedente, e che questa somma, nel migliore dei casi, può essere massimo 24 volte più grande della paga minima. Se qualcuno storce il naso quando sente «esemplare», la fa a ragion veduta, considerato che ogni esistenza, anche la più infima e coatta, si pasce della sua idiomaticità. È da questa singolarità irripetibile che ogni empirismo mette in orbita il suo sistema di equivalenze.

Nel sistema neoclassico, dice Augusto Graziani (La teoria monetaria della produzione), il mercato di concorrenza perfetta è un meccanismo assolutamente democratico ed egualitario. Le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze che in esso si possono riscontrare non vanno in alcun modo ricondotte all’operare del mercato in sé, in quanto il mercato di concorrenza ammette tutti gli operatori alla contrattazione, senza alcuna distinzione e senza alcuna disparità, quale che sia la natura o la qualità della merce domandata e offerta. Se vi sono delle diseguaglianze, dice, esse non vanno certo imputate al mercato e alla concorrenza, ma, quando si tratta di diseguaglianze nei redditi da lavoro, vanno ricondotte al genio, alle capacità innate dei singoli, oppure alla formazione, alla cultura, al sapere, al culo, alla furbizia, eccetera, ma sempre a quell’ingrediente oscuro e magico che fa di un misero ammasso di carne, muscoli e cervello il centro di infinite transazioni economiche. Se, invece, le diseguaglianze sono dovute ai redditi da capitale, ovvero alla diversa distribuzione della proprietà e della ricchezza, esse vanno attribuite alla diversa propensione al risparmio. In definitiva, dice Graziani, nel sistema neoclassico, il reddito di cui un individuo dispone, viene ricondotto al lavoro e al risparmio, e siccome il risparmio deriva da lavoro pregresso, la ricchezza dei paperoni viene per intero ricondotta al lavoro.

In un’economia monetaria, dice Graziani, le cose vanno diversamente. L’accesso al mercato e la costituzione del gruzzolo non dipendono dal possesso di capacità e risorse produttive (innate, acquisite o ereditate), ma dal possesso di mezzi di pagamento. Solo chi ha accesso al credito – sia esso un genio o un deficiente – è in grado di determinare il livello di produzione, il consumo reale dei lavoratori, il tasso di accumulazione e di acquisire la proprietà di nuovi mezzi di produzione.

Della teoria dei circuito Bellofiore ha ereditato una parte consistente, investita totalmente in un’impresa disperata, risolvere il problema della trasformazione dei valori in prezzi.

Il capitale vuole nascondere la sua origine. La sua origine è il lavoro, lo sfruttamento, la rapina. Attraverso il prolungamento oltre il lavoro necessario, dice Bellofiore, si produce valore e plusvalore. Il lavoro, che dà origine al capitale, deve precedere il capitale. Per rispettare questa successione, i prezzi dovranno in un primo tempo essere uguali ai valori. Sulla base dei valori si determina poi il saggio del plusvalore, e a un tempo il saggio del profitto medio così come è ricavato da Marx nel Terzo libro del Capitale. Solo una volta che i profitti originari sono venuti alla luce, e il capitale anticipato è stato valorizzato, il capitale ormai costituito potrà riferirsi a se stesso, così come avviene negli schemi alla Sraffa o alla von Neumann.

Il merito di Bellofiore è di riportare al centro il tema del Plusvalore e dello sfruttamento del lavoratore. Nella sua semplicità ed eleganza l’argomento del Plusvalore è pari all’argomento dell’Utilità soggettiva. Esso spiega da chi viene prodotta la ricchezza e come vive ripartita tra le diverse classi sociali. La ricchezza complessiva è prodotta dal lavoro. Dal Plusvalore derivano profitto, rendita e interesse. Il Plusvalore è il prodotto di un pluslavoro. Il totale del lavoro erogato dal lavoratore si divide in due parti, una parte che serve a produrre i beni di consumo necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione del lavoratore stesso, e una parte eccedente questo lavoro necessario, che è appunto il pluslavoro. Dunque, una classe produce per tutti. I redditi di cui vivono le altre classi sono detratti dal valore aggiunto dal lavoro. Il lavoro produce il capitale costante, il capitale variabile e il plusvalore, i quali, insieme, costituiscono il valore della merce. Il saggio del Plusvalore è costituito dal rapporto tra Plusvalore e Capitale variabile. Mentre il saggio di profitto è il rapporto tra Plusvalore e capitale totale (Capitale variabile + Capitale costante), e dipende dunque dalla composizione organica del capitale (rapporto tra capitale variabile e capitale costante). A parità di capitale totale e saggio del plusavalore, più grande è il capitale costante, relativamente al capitale variabile, più basso è il saggio di profitto. L’eleganza e l’eloquenza dell’argomento del Plusvalore dilegua quando si tratta di passare dai valori ai prezzi. Se i prezzi di produzione potessero essere intesi come una trasformazione dei valori, e se di conseguenza la distribuzione del reddito tra le classi potesse essere interpretata come una redistribuzione di quantità di lavoro, lavoro inteso come sostanza della ricchezza, allora, dice Bellofiore, il circolo sarebbe chiuso. Ma, invece, non è così. Lo stesso Marx aveva riconosciuto che i prezzi non possono essere proporzionali ai rapporti tra le quantità di lavoro incorporate, perché i prezzi di produzione sono ottenuti a partire da un saggio medio di profitto, e quest’ultimo è calcolato come rapporto tra il plusvalore totale estratto nell’intera economia e la somma di capitale costante e capitale variabile impiegata nei diversi settori, computata anch’essa in ore di lavoro. Questa circostanza, da sola, ha portato al rigetto del tema del Plusvalore e alla sua sostituzione con il tema dell’Utilità soggettiva.

Una volta rimosso il Plusvalore tutto l’impianto marxista si sgretola. Bellofiore si impegna a produrre una dimostrazione alternativa dell’argomento del Plusvalore, tale da permettere di incollare i cocci del marxismo e portare al centro della discussione il tema dello sfruttamento e della lotta di classe. Senza Plusvalore, bisogna dirlo chiaramente, non c’è nulla che giustifichi la lotta di classe, né conflitti geopolitici, né amici e nemici (alla Schmitt), né forze e controforze (alla Nietzsche), né avanguardie, né totalità infranta da ripristinare, alla Adorno. Non c’è più nulla a cui aggrapparsi, e si finisce lisci lisci nelle braccia del neoclassicismo. Anche quando si è convinti di essere difensori senza macchia delle ragioni del proletariato.

Bellofiore scompone il ciclo completo di valorizzazione in 4 momenti (Marx rivisitato).

Nel 1° momento, dice, si ragiona sulla base della finzione che i lavoratori stiano producendo merce ma non ancora capitale; che si riproduca il sistema, ma che non vi siano profitti lordi; che siano garantiti la riproduzione della forza-lavoro e il rimpiazzò del capitale fisso e circolante; che il tempo di lavoro vivo sia pari al lavoro necessario, senza che vi sia margine per il pluslavoro; che le aspettative di vendita delle imprese siano realizzate, e che il salario reale dei lavoratori corrisponda sempre alla sussistenza storicamente determinata, alla quale si adeguano le attese dei lavoratori all’inizio del circuito monetario. In questo scenario del tutto fittizio, il profitto è assente, e i prezzi coincidono con i valori.

Proprio grazie alla finzione di un impossibile capitalismo privo di sovrappiù, dice Bellofiore, Marx è in grado di isolare il momento della produzione e considerarlo centrale nello studio dell’origine del plusvalore. La scissione del momento della produzione da quello della circolazione è compiuta da Marx in modo consapevole. Marx, dice, sa bene che non è possibile scindere l’analisi della produzione da quella della circolazione delle merci; sa bene che la produzione è produzione per il mercato, e che il prodotto deve attualizzare nello scambio effettivo la propria potenzialità di merce; il lavoro che vi è contenuto deve avere la verificare effettiva della propria pretesa di essere lavoro in potenza nell’attualizzazione del processo di scambio. Senza il passaggio attraverso lo scambio, non sarebbe possibile in alcun modo rendere omogenee le quantità di lavoro diretto prestate nei vari processi produttivi, le cui determinazioni concrete sono diverse e legate alle caratteristiche dei valori d’uso prodotti. Il flusso circolare tra prezzi e valori, ribadisce Bellofiore, si basa su una finzione che però mette in luce il processo di sfruttamento. Marx allestisce questo scenario fittizio, e considera identico quello che identico non è.

Per quale ragione, dice Bellofiore, Marx considera identici salario reale e salario nominale, aspettative di vendita e vendita effettiva, eccetera? Se il valore si crea nello scambio, se è dunque nello scambio che il valore in potenza diventa valore attuale; se non è possibile considerare note le grandezze di valore prima della conclusione del circuito capitalistico, allora il momento della produzione deve essere tralasciato, e tralasciato proprio in quanto non ha nulla da dire sul valore effettivo, e concentrarsi soltanto sul momento della circolazione. Ma concentrarsi sul momento della circolazione significa rinunciare al tema del Plusvalore. Per evitare una conclusione così distruttiva, dice Bellofiore, conviene allora supporre che le aspettative di vendita siano corrette, che cioè tutto il valore potenziale divenga valore attuale, per poi rimuovere questa assunzione.

Nel 2° momento si considera il prolungamento oltre il lavoro necessario, e si studia come il capitale viene alla luce – si impiegano ancora i valori. Il capitale costante e il capitale variabile sono valutati a prezzi conformi ai lavori incorporati. Così Marx, nel primo libro del Capitale, è in grado di far emergere un sovrappiù capitalistico, senza però considerare la redistribuzione del sovrappiù tra i settori. Marx, dice Bellofiore, nel Primo libro, è ben consapevole dei mutamenti nelle ragioni di scambio. Tuttavia, dice, immagina che i prezzi relativi continuino a essere proporzionali ai valori, benché sia perfettamente cosciente che l’emergere di un plusvalore, e quindi di un profitto, determini prezzi diversi dai lavori incorporati, e ciò in virtù di un unico saggio del profitto tra i diversi rami della produzione. Ma nonostante questa consapevolezza (il Terzo libro è stato scritto prima del Primo libro), continua a immaginare o a fingere che i prezzi relativi siano uguali ai valori.

A partire dal terzo momento ci si chiede come si determinano i prezzi relativi. Si tiene conto anche della distribuzione, nella quale, un eguale saggio del profitto nei diversi rami di produzione, fa divergere i prezzi dai valori.

Nel 3° momento il saggio del profitto medio e il prezzo del prodotto si determinano ancora a partire dai valori. Si applica perciò un diverso cartellino alla medesima merce, a seconda che 1) compaia dal lato degli input o 2) compaia dal lato degli output.

Nel 4° momento il capitale è ormai costituito, agli input si dovranno applicare gli stessi prezzi che si applicano all’output: i prezzi relativi e il saggio eguale del profitto verranno ora determinati circolarmente e simultaneamente.

Nel 3° momento si fissano a) il saggio del profitto alla Marx e b) i prezzi dell’output. Il 3° momento è il ponte tra i primi due momenti (i quali svelano il pluslavoro dietro il sovrappiù capitalistico) e il quarto momento, dove la determinazione dei prezzi si estende anche al lato degli input.

Nel 3° momento la doppia valenza applicata alla medesima merce, a seconda che appaia dal lato degli input o da quello degli output, serve a isolare l’origine del capitale (la sua genesi nella Produzione) dalle dinamiche redistributive. Serve anche a non separare la questione della produzione della nuova ricchezza da quella della sua distribuzione.

La doppia valenza spiega anche la divergenza tra il saggio di plusvalore e il rapporto profitti (lordi)/salari.

Dopo un secolo di dibattiti sul Terzo libro, dice Bellofiore, la scoperta che il 4° momento occulta il 3° ha questo significato: il processo di determinazione dei prezzi di produzione è, da parte del capitale, il luogo della dissimulazione della propria origine nel lavoro.

Marx immagina che i prezzi relativi, dice Bellofiore, continuino a essere proporzionali ai valori, benché sia perfettamente cosciente del fatto che l’emergere di un plusvalore, e quindi di un profitto, determini prezzi diversi dai lavori incorporati.

Nel Primo libro, quando elabora il tema del Plusvalore, Marx, dice Bellofiore, considera 1) realizzate le aspettative delle imprese, e 2) dato per acquisito il salario di sussistenza percepito dai lavoratori. Tuttavia, dice, prima della conclusione del circuito capitalistico non è possibile dare per note le grandezze di valore. Prima che le merci prodotte siano vendute e sia incassato il corrispettivo non è possibile conoscere il valore effettivo incassato. Il valore si crea nello scambio, all’incrocio tra produzione e riproduzione. Se le cose stanno così, e non c’è motivo di dubitarne, si deve rinunciare a ogni analisi che prenda le mossa dalla produzione. A meno che, dice, non si considerino corrette le aspettative di vendita e interamente realizzato il valore atteso. Salvo, poi, correggere, a cose fatte, queste aspettative. Ma tutto ciò, dice Bellofiore, vale solo per le aspettative delle imprese. Per il salario di sussistenza bisogna fare un discorso diverso. Il salario contrattato è anticipato in denaro, mentre il salario reale è sempre posticipato, e dipende dai prezzi delle merci fissati alla fine di ogni circuito. Questi prezzi si fissano all’incrocio tra offerta reale delle imprese produttrici dei beni-salario e domanda monetaria proveniente dai lavoratori. Il salario contrattato è dunque uguale al salario reale. Se non si assumesse questa uguaglianza, anche in questo caso si dovrebbe presumere come dato, salvo poi correggerlo, il valore reale del salario di sussistenza. Va da sé che se non si può fissare il valore del salario di sussistenza non si può neanche calcolare il valore che eccede il livello di sussistenza. E non vale usare altre unità di misura – ore, bene tipo o paniere di beni. Perché, soprattutto in questi casi, come d’altronde anche nella teoria neoclassica, si darebbe per scontata – in verità si occulterebbe - la differenza tra Quanto e Quantità (esser-Quanto). Proprio quella differenze che qui, con estrema sottigliezza, Bellofiore prova a far emergere.

Data per scontata l’uguaglianza tra salario contrattato e salario reale, si può procedere al calcolo del Plusvalore. La sua causa, dice Bellofiore, sta nella costrizione a un lavoro che eccede il lavoro necessario. Assunto come dato - ante-produzione - il valore della forza-lavoro, il Plusvalore deriva dalla differenza tra il valore della forza lavoro e il valore atteso come incasso dalla vendita delle merci da parte dell’impresa. Se la differenza che emerge è positiva, l’impresa inizia a produrre capitale. Ciò si verifica perché il valore-uso, per così dire, può valere di più del suo valore. Questo di più, che non emerge automaticamente dalla produzione, ma che è frutto di una disciplina e di un inquadramento, costituisce il Plusvalore. L’adozione di prezzi uguali ai valori, dice Bellofiore, consente a Marx di sottrarre da tutto il lavoro effettivamente estorto l’ammontare minore di lavoro effettivamente erogato per produrre le merci ottenute grazie alla spesa del salario. La tesi di Marx è, dice Bellofiore, che il capitale può essere prodotto e riprodotto in quanto sussiste una separazione reale interna al lavoro salariato. Esso è capacità lavorativa acquistata dal capitale variabile e lavoro vivo che dà luogo all’intero neo-valore prodotto.

Il lavoro si presenta una volta come forza-lavoro e un’altra volta come lavoro vivo. La forza-lavoro è acquistata sul mercato mediante la cessione del salario contrattato. Si tratta, dice Bellofiore (Teoria del valore), di lavoro in potenza, per questo è mobile. La merce forza-lavoro, acquistata grazie alla scommessa di finanziatori e imprenditori, è lavoro in potenza, lavoro disponibile a diventare reale (effettivo), a prendere forma e fissarsi, e che effettivamente si fissa quando il suo portatore – il lavoro-vivo – incontra il lavoro morto. Vivificato dal lavoro vivo, il lavoro morto (capitale costante) diventa valore-uso. Il valore-uso è merce in potenza. La merce è valore disponibile a diventare reale (effettivo), a prendere forma e fissarsi, e che effettivamente si fissa quando il suo portatore – il valore-uso – nella circolazione incontra il denaro (non la moneta).

Tutte queste spigolature aristoteliche di Bellofiore servono a produrre una dimostrazione alternativa della teoria del circuito (insaporita da una spruzzatina di post-strutturalismo).

Ricapitolando. Il valore in potenza, dice Bellofiore (Per una teoria monetaria), si trasforma in valore attuale nello scambio con il denaro, oppure, dice, il valore (assoluto) diviene valore (relativo) verificandosi come potere d’acquisto.

Bisogna subito chiarire che il valore si presenta qui sia come Quanto, sia come Quantità. Il valore in potenza (valore assoluto), di cui parla Bellofiore, si riferisce alla Quantità, mentre il valore attuale (valore relativo) si riferisce al Quanto. Il vero tema che Bellofiore cerca di mettere in luce è la differenza tra la Quantità e il Quanto. Ciò che cerca di ribadire senza sosta, in tutti i suoi scritti (anche se questa differenza non è riconosciuta ed enunciata in modo esplicito), ciò che cerca di spiegare è che non si risolve il problema della trasformazione riducendo la Quantità al Quanto (per esempio considerando il lavoro effettivo come lavoro omologato), oppure riducendo il Quanto alla Quantità (come avviene nei neo-ricardiani).

Cosa hanno in comune le varie prestazioni di lavoro effettivo?

Non certo il fatto di essere state piallate dalla fabbrica moderna.

Se il lavoro effettivo fosse unico, se si potesse, insomma, trovare la Quantità nel Quanto, se il Quanto fosse un continuum, proprio per ciò stesso non si potrebbe misurare, visto e considerato che la misurazione presuppone la molteplicità, dunque la differenza tra le prestazioni e nella stessa prestazione. Se l’ente significasse solo l’ente per essenza (se il lavoro-vivo fosse unico, se fosse mero dispendio di muscoli e cervello genericamente umani), esso non potrebbe nemmeno avere grandezza, perché in tal caso dovrebbe avere parti, e ciascuna delle parti dovrebbe essere diversa dalle altre quanto all’essere (Berti, Aristotele).

La distinzione applicata al valore deve essere applicata anche al lavoro. La forza-lavoro è lavoro vivo in potenza, mentre il lavoro-vivo effettivo è forza-lavoro in atto. È in virtù di questa distinzione, dice Bellofiore (Per una teoria monetaria), che già nella produzione si può misurare il valore in termini di lavoro. Il lavoro salariato è lavoro in potenza (prima dello scambio) – è Quantità. Questa Quantità, dice, permette di considerare l’aspetto quantitativo del valore. Permette, già nella produzione, di misurare in termini di unità di lavoro.

Da cosa è misurata questa Quantità?

È misura dalle ore - certamente.

Il Quanto di lavoro speso nella produzione è misurato con l’orologio. Ma più propriamente, il Quanto è misurano con i soldi. Anche qui, tuttavia, bisogna stare attenti alla distinzione aristotelica tra potenza e atto. Ed evitare di ridurre la Moneta al Denaro, o il Denaro alla Moneta. Infatti, Bellofiore distingue (sempre in questo quadro aristotelico) i soldi in Potenza (Moneta) dai soldi in atto (Denaro). La misura della quantità non può essere la Moneta. Perché la Moneta, dice Bellofiore (e qui reintroduce Graziani), non ha valore – o, più precisamente, non è quantificabile, essendo ciò (la quantità) in cui il Quanto si esprime. Considerare la Quantità come un Quanto, oppure considerare la Moneta come Denaro, sarebbe come voler mettere su un piatto della bilancia una pietra e sull’altro la gravità. La gravità – la pesantezza – non pesa. Se avesse un peso, sarebbe un Quanto di qualcos’altro, e quest’altro sarebbe un Quanto di qualcos'altro ancora, in una serie infinita, in cui Cosa misurerebbe Cosa, in cui Cosa si scambierebbe con Cosa. Un po’ come nel sistema neoclassico, che Graziani, a ragione, bolla come un sistema di baratto. Se la moneta fosse un che di determinato – un bene, una mercanzia – avrebbe un’utilità e un prezzo per conoscere i quali, occorrerebbe avere già misurato il valore della moneta stessa, in un regresso infinito.

Per i teorici del circuito, dice Graziani (La teoria monetaria), la Moneta vivrebbe la sua vita autentica nell’istante in cui un bene viene scambiato contro moneta e la moneta vien trasmessa da un soggetto all’altro. Quando la moneta viene accantonata come scorta liquida, essa non sarebbe più moneta, ma ricchezza (Denaro) in una forma particolare. La moneta è un puro strumento che rende possibile il passaggio da una ricchezza all’altra, da una determinazione all’altra, da un oggetto particolare all’altro. È l’entità fuori serie che permette di trasformare la linearità infinita (cattivo infinito) della serie in un circolo in cui ciò che era all’inizio sarà anche alla fine. La moneta è puro mezzo. Non è dotata di potere d’acquisto. Non ha determinazione. Non è effettiva. È puro numerario. I teorici del circuito, dice Graziani, pongono al centro la concatenazione dei pagamenti, dalla creazione iniziale dei mezzi liquidi, alle utilizzazioni successive della moneta nei mercati, e fino alla distruzione finale della moneta. Il termine di teoria del circuito monetario, dice, trae origine proprio dal fatto che la teoria analizza il ciclo completo della moneta dalla sua emissione a opera delle banche fino al suo ritorno alle banche e conseguente distruzione. Il pagamento vero e proprio non potrebbe considerarsi avvenuto se non quando il bilancio di ogni soggetto è stato portato in pareggio, ovvero quando alla fine del circuito si ritrova esattamente ciò che era stato posto all’inizio del ciclo.

La moneta vivrebbe per un istante, l’istante necessario a rendere vero (attuale) lo scambio, per poi essere distrutta, non prima di aver portato in pareggio il bilancio. Per un accesso di zelo razionalista, questa teoria manca l’appuntamento – ma gli elementi ci sono tutti (padre, figlio e spirito santo) – con Hegel e la sua cristologia. Anche se Graziani si affretta a dire che in un mondo perfettamente razionale, dove tutto fila liscio, e non ci sono attriti, la moneta emessa dalla banca, concessa in credito alle imprese, le quali la cedono ai lavoratori sotto forma di salari, i quali la restituiscono alle imprese che la restituiscono alle banche; in un mondo razionale, dice, questi passi si succedono l’uno dopo l’altro, senza alcun intervallo di tempo; il che significa che nel medesimo istante, la moneta viene creata, trasmessa e distrutta. Ma così, dice, la moneta risulta una grandezza non osservabile (Dio ebraico), e ci troviamo nella situazione paradossale di avere definito come economia monetaria un’economia nella quale la moneta, pur essendo per definizione indispensabile allo svolgimento degli scambi, sfugge a ogni osservazione e a ogni misura. Insomma, in un mondo razionale, la moneta non si manifesta. Affinché la moneta abbia natura di grandezza, è necessario che essa, per un periodo di tempo che, per quanto breve, deve avere lunghezza finita, sosti presso i singoli individui e assuma la natura di scorta liquida. La Moneta, per funzionare come Moneta, deve diventare Denaro. Ma, conclude, la Moneta viene domandata come scorta liquida (cioè come Denaro) soltanto in quanto protezione contro l’incertezza; il che significa che, affinché la moneta risulti una grandezza osservabile, è necessario che il mercato si muova in condizioni di incertezza. Se ci muoviamo in un mondo ipotetico privo di incertezza, le scorte liquide scomparirebbero e con esse la possibilità di osservare e misurare la quantità di moneta esistente.

Poiché il mondo non si muove in modo razionale, e le cose sono incerte, allora, dice Graziani, la Moneta deve trasformarsi in Denaro. Se il Mondo andasse razionalmente per i suoi colli, se non ci fosse caduta, peccato e colpa, dunque bisogno di redenzione, se la legge regnasse come in cielo, il Denaro potrebbe anche non presentarsi – e la Moneta essere pura attualità – actus purus.

Ma se fosse proprio il Denaro a disordinare il mondo? se fosse il Denaro, e non la Moneta, a fornire una chance al mondo, a fornirgli una possibilità, un credito?

In effetti, qualche pagina dopo, Graziani mette alla prova la Moneta come pura attualità e dimostra che non è sufficiente che essa sia, affinché funzioni come Denaro, bisogna che essa si dia, si manifesti, si avveri. Questo suo venire all’esistenza coincide con il suo porsi come potenza. Un soggetto chiede ad una banca una somma liquida per un’evenienza futura. La somma non spesa viene depositata sul conto della banca, la quale risulta in pareggio. Poiché le due situazioni si elidono, dice Graziani, non si può ancora dire che vi sia stata creazione di Moneta. Non è quindi concepibile una creazione di Moneta senza esecuzione di un pagamento. Come dire che non è concepibile Moneta senza Denaro. È il Denaro (realtà effettiva) che fornisce la possibilità alla Possibilità, ovvero alla Moneta (Potenza-possibilità) di manifestarsi.

Insomma, non si dà moneta senza denaro. La Quantità appare sempre e solo in un Quanto. Che il Quanto sia il portatore della Quantità, e che la Quantità non si annulli nel Quanto (e viceversa), è perfettamente compreso da Bellofiore. Quando dice, per esempio, che sia la forza-lavoro, sia il lavoro come attività, ovvero la prestazione lavorativa, son entrambi effettivi, dati di fatto distinti, entrambi positivi, esistenti e reali fuori dal pensiero, cerca di riconoscere proprio il nesso tra Quanto e Quantità. Quando aggiunge che la capacità lavorativa (potenza) e la prestazione effettiva di lavoro (atto) non possono essere disgiunti dal loro legame con la figura del lavoratore in carne e ossa, riconosce che, in ogni fase del ciclo, potenza e atto si trovano a convivere o a dividere lo stesso corpo. Poiché la Quantità è sempre attaccata ad un Quanto, non si avrà mai – nemmeno all’inizio del ciclo – una Moneta-segno pura, ovvero una Moneta che non abbia anche un valore, una moneta che non si dia come Denaro – come giustamente riconosce Graziani. Se il lavoro non può essere una misura perfetta, e se alla fine, tranne che in una sola possibilità su infinite, restituisce sempre un resto, un resto che corrisponde alla differenza tra prezzo e valore, è perché il lavoro, inteso come fonte del valore, non può essere disgiunto dal suo legame con la figura del lavoratore in carne e ossa. Pertanto, ciò con cui si misura all’inizio del ciclo è identico a ciò con cui si misura alla fine del ciclo. Non è assolutamente sostenibile che all’inizio del ciclo si misuri in Valore e alla fine si misuri in Prezzo; che all’inizio del ciclo si misuri, per così dire, alla Ricardo, e alla fine del ciclo si misuri alla Walras. Salvo poi fare un conguaglio.

Bellofiore sa bene che non è possibile pareggiare i conti, e che non è possibile resuscitare alcuna speranza di soluzione del problema della trasformazione dei valori in prezzi (Per una teoria Monetaria), e che lo sfruttamento si realizza nei modi tradizionali solo nel caso in cui aspettative (valore atteso) di imprese e lavoratori siano confermate dai prezzi. In tutti gli altri casi – la totalità meno 1 – lo sfruttamento si realizza anche in luoghi diversi dalla produzione. Dunque, la lotta deve essere ingaggiata in questi luoghi. Infine, poiché lo sfruttamento non è la conseguenza della proprietà dei mezzi di produzione, ma dell’accesso al credito, essendo la Banca l’entità che con un Fiat - ma ciò, come si è visto, è smentito sia da Graziani, sia dallo stesso Bellofiore – dà avvio allo sfruttamento, dovrà essere la Banca, dice Bellofiore, il vero obiettivo dell’azione politica rivoluzionaria.


Bibliografia
Riccardo Bellofiore, Marx rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento, in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi, “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86.
Riccardo Bellofiore, Per una teoria monetaria del valore-lavoro, in Valore e prezzi, a cura di Giorgio Lunghini, Utet 1993.
Riccardo Bellofiore, Teoria del valore e processo capitalistico, Vis-à-vis 1998.
Riccardo Bellofiore, Le avventure della socializzazione, Mimesis 2018.
Augusto Graziani, La teoria monetaria della produzione, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, 1994.
Enrico Berti, Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Bompiani 2004.

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carlo rao
Monday, 25 November 2019 02:24
Marx pone alla base del suo ragionamento il seguente principio: il valore di scambio di una merce origina dalla quantità di lavoro necessaria a produrla.
Dato che nel sistema capitalistico la forza-lavoro è la merce offerta dall'operaio, il capitalista la compra in cambio di un salario il cui valore corrisponde a quanto occorre per “produrla”, cioè corrispondente al valore dei beni necessari al sostentamento del lavoratore (beni-salario), definito quindi come “salario di sussistenza”. Le ore lavorate eccedenti quelle il cui valore consente al salariato di comprare i beni necessari alla sua sussistenza non gli vengono pagate. Da ciò si origina il plusvalore, che è quella parte del valore prodotto dal lavoro salariato (pluslavoro) di cui il capitalista si appropria. Ed è proprio il plusvalore che rende possibile l’accumulazione capitalistica, in sintesi basata sul ciclo temporale D → M → D' , dove ovviamente il denaro D' è in quantità maggiore del denaro D all'inizio del ciclo, e la merce M comprende anche la merce forza-lavoro. Marx distingue poi tra capitale variabile, il capitale investito nei salari, e capitale costante, quello investito nei macchinari e in tutto ciò che serve per far funzionare la fabbrica; la somma dei due rappresenta l'insieme dei mezzi di produzione. Poiché il plusvalore si determina solo in relazione ai salari, ossia al capitale variabile, il saggio del plusvalore indica in percentuale il rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile. Il saggio del profitto è dato dal rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile più quello costante. Il plusvalore, il sovrappiù di cui si appropria il capitalista, si determina al momento della produzione come valore, mentre il saggio di profitto si determina al momento della vendita del prodotto come prezzo di mercato, in altri termini rappresenta la realizzazione in forma di denaro del valore-lavoro contenuto nella merce offerta sul mercato. Definiamo c il capitale costante, v quello variabile, ossia i salari, ed s il sovrappiù, o plusvalore. Il rapporto tra c e v indica la composizione organica del capitale. Distinguiamo, in un modello semplificato di produzione capitalistica, due sole industrie, quella che produce i mezzi di produzione e quella che produce i beni di consumo; di conseguenza, la prima sarà composta da c1 , v1 e s1 , e la seconda da c2 , v2 e s2 . L'accumulazione, o “riproduzione allargata” la possiamo esprimere con la formula seguente: v1 + s1 > c2 dove il prodotto nell'industria dei mezzi di produzione è superiore all'ammortamento nei due settori industriali presi insieme, mentre nel caso seguente: v1 + s1 = c2 abbiamo qui una situazione stazionaria che possiamo definire come “riproduzione semplice”. Dato che lo scopo dei macchinari, il capitale costante c, è primariamente l'aumento della produttività per unità di tempo di lavoro al fine di aumentare le merci vendibili e dunque la massa del profitto, col crescere progressivo dell'accumulazione tenderà ad aumentare la proporzione di c, cioè del capitale costante impiegato, rispetto a v, il capitale variabile, per cui avremo un aumento della composizione organica del capitale. Assumendo per semplicità che l'intero stock del capitale costante c venga consumato nel processo produttivo, il saggio del profitto, che chiamiamo p, sarà uguale a p = s / (c + v) ovvero p = s / v( 1 − c / (c + v))
la formula mostra che, se col crescere dell'accumulazione la relazione c / (c + v) aumenta mentre la relazione s /v rimane costante, cioè se avremo un aumento della composizione organica del capitale, allora vi sarà di conseguenza una diminuzione del saggio di profitto p, in altri termini si avrà quella che Marx definì la caduta tendenziale del saggio di profitto. Certamente se l'aumento del capitale costante determina una maggiore produttività del lavoro, anche s /v tenderà ad aumentare; tuttavia il minor numero di salariati necessario per unità di prodotto, dovuto all'aumento della produttività, finirà per prevalere sul fatto che per ogni salariato ancora necessario alla produzione aumenta il saggio di plusvalore; infatti a diminuire non è la massa dei profitti, bensì il saggio medio di profitto per unità di prodotto. In sintesi si può dire che quando aumenta la composizione organica del capitale le misure del saggio di plusvalore e del saggio di profitto tendono a porsi in relazione inversa tra di loro, in ragione della loro diversa natura: il plusvalore si confronta con il solo capitale variabile mentre il saggio di profitto si confronta con quello variabile più quello costante. Naturalmente tutto ciò vale nella misura in cui riteniamo che sia valido il principio posto da Marx come base dell'intera teoria, cioè che l'unità di misura del valore di scambio delle merci sia il lavoro medio socialmente necessario incorporato in esse, come base per la determinazione del loro prezzo di mercato. Se il principio è valido, si dovrebbe poter dimostrare che è possibile risalire dai prezzi delle merci sino al valore-lavoro in esse incorporato, ma ove si tenti questa dimostrazione insorgono notevoli difficoltà. Marx era ben consapevole del fatto che i prezzi di mercato delle merci solitamente non corrispondono alla misura del valore-lavoro che è occorso per produrle, dal momento che se così fosse i profitti ottenuti realizzandole sul mercato sarebbero troppo diversi tra loro, in ragione della diversa composizione organica dei settori produttivi da cui le merci provengono. Egli riteneva tuttavia che proprio la concorrenza sul mercato avesse lo scopo di livellare i profitti tra i vari rami produttivi attraverso la determinazione di un saggio medio del profitto, il quale a sua volta sottintendeva a monte la determinazione di un saggio medio del plusvalore; dunque ogni singolo ramo produttivo poteva realizzare un plusvalore e un profitto al di sotto o al di sopra della media, ma per l'insieme di tutti i rami produttivi la somma totale del plusvalore era uguale alla somma totale del profitto. Quindi per trasformare il valore-lavoro in prezzi occorre determinare a monte il saggio medio del plusvalore, e ciò lo si ottiene solo se conosciamo il valore- lavoro incorporato nelle merci che costituiscono i “beni salario”, tolte le quali abbiamo il sovrappiù di cui si appropria il capitalista. Purtroppo anche il valore di queste merci ovviamente si presenta sul mercato come prezzo, sicché la dimostrazione incorre in una circolarità che ne mina il rigore logico: per dimostrare come passare dai valori ai prezzi si debbono premettere come dati acquisiti i prezzi dei beni salario, laddove i prezzi, come espressione fenomenica dei valori, è proprio ciò che vogliamo trovare con la dimostrazione! I vari tentativi di risolvere questa circolarità non hanno sortito il risultato sperato, pur avendo avuto il merito, in alcuni casi, di contribuire a definire una migliore modellistica per descrivere il rapporto fra capitale e lavoro. Propongo un cambio di paradigma nell'approccio alla questione: è ipotizzabile che la teoria economica classica (Smith, Ricardo, Marx) così come quella cosiddetta “keynesiana”, non vadano utilizzate in ambito logico astratto, ma in un quadro empirico di riferimento storico concreto. Queste teorie diverranno allora una descrizione approssimativa ma sostanzialmente efficace della situazione reale del modo di produzione capitalistico al tempo in cui esse venivano elaborate. Cosa possiamo dire della teoria marxiana del valore-lavoro secondo questo paradigma? Se i prezzi dei “beni salario” sottostanno compiutamente al processo capitalistico di estrazione del plusvalore come sovrappiù non usciamo dalla contraddizione logica. Tuttavia, se trattiamo questi prezzi come determinati in modo esogeno al modo di produzione capitalistico possiamo ignorare il problema: se i “beni salario” non rientrano nel meccanismo di valorizzazione tipico del sistema, cade il difetto di circolarità cui ci siamo imbattuti. Ora, se consideriamo che nella situazione concreta dei salariati nel XVIII e in gran parte del XIX secolo i “beni salario” erano in massima parte costituiti dalla produzione agricola, essendo a quei tempi il salario stesso definibile realmente come di pura sussistenza, vediamo come sino alla fine del XIX secolo il settore agricolo non era ancora compiutamente integrato nel modo di produzione capitalistico. Ancora nel 1860 vigeva la schiavitù in America proprio negli stati del sud dove predominava la produzione agricola, ne molto diversa era di fatto la situazione nelle campagne della Russia zarista. Nei due paesi già allora fondamentali per l'esportazione del grano la produzione non era basata sui salariati definibili come “capitale variabile”; anche nella produzione agricola europea la forza-lavoro era in gran parte organizzata secondo forme precapitalistiche, e così per altri versi in India. Ciò non significa che i prezzi del grano fossero arbitrari, piuttosto scaturivano dai rapporti di forza tra l'aristocrazia terriera, ancora in gran parte detentrice della proprietà dei terreni, e i capitalisti della manifattura industriale, la forza emergente nel XIX secolo. Empiricamente era naturale “leggere” la fase di accumulazione del capitale come fondata essenzialmente sulla determinazione di un salario di mera sussistenza “fisiologica” dell'operaio, in un contesto dove il prezzo di questo salario, cioè il prezzo del paniere di beni che allora lo componeva, non era fissato nell'ambito di una qualche teoria del valore-lavoro, quindi poteva ignorare quella circolarità di cui sopra. Possiamo dire che in tale contesto la teoria del valore-lavoro, se era piuttosto approssimativa in ambito quantitativo, era tuttavia plausibile in termini qualitativi.
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