Lenin, Rockefeller e la politica-struttura
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
La storia pluridecennale della nazione di regola considerata più liberista e antistatalista, e cioè gli Stati Uniti del periodo 1776-1918, serve a supportare concretamente le splendide e geniali tesi leniniste secondo le quali la politica costituisce “l’espressione concentrata dell’economia” (Lenin 1921, “Ancora sui sindacati”) e che quindi di conseguenza, oltre alle sovrastrutture politiche si riproduce costantemente anche una “politica-struttura”, una politica “rinvigorita” con dosi massicce di potenza economica e scelte economiche.
In altri termini l’esperienza concreta degli Stati Uniti dei lunghi decenni compresi tra il 1776 e il 1918, nell’epoca del presunto “liberismo economico” e dei miliardari “creatisi da soli”, quali ad esempio i celebri Vanderbilt e Rockefeller, rappresenta e si dimostra una sorta di pesantissimo stress-test e una verifica empirica particolarmente impegnativa per la sofisticata ma realistica teoria leninista, in questo settore attualmente quasi sconosciuta e quasi mai utilizzata dai marxisti, relativa all’importanza costituita per la sfera produttiva e sui rapporti sociali di produzione e distribuzione dalla politica, da intendersi come politica-struttura ed espressione concreta dell’economia.
Rispetto al preliminare processo di definizione teorico, si è già notato come all’interno della specifica categoria di politica-sovrastruttura, nelle società di classe oppure socialiste, rientrino le teorie, ideologiche e utopie politico-sociali, gli scontri per l’acquisizione o per il mantenimento del potere e del controllo degli apparati statali, l’aspetto strettamente diplomatico e/o militare dei rapporti internazionali tra stati, oltre alle lotte costituzionali e quelle aventi per oggetto la modifica/conservazione delle modalità di relazioni tra i diversi nuclei di potere e apparati statali.
Per quanto riguarda invece il processo di focalizzazione sulle coordinate della politica-struttura, tale settore della sfera politica, sia delle società classiste che di quelle socialiste, più o meno deformate, riguarda l’azione e la pressione esercitata dai governi e dagli apparati statali sui rapporti sociali di produzione e distribuzione, a partire dalla difesa o attacco alla proprietà privata e/o pubblica.
È già stato ricordato che, almeno per quanto riguarda le formazioni economico-sociali capitalistiche, molti degli anelli più importanti della politica-struttura e della politica-espressione concentrata dell’economia erano stati esposti da Marx, nel ventiquattresimo capitolo del primo volume del Capitale.
La politica-struttura venne intesa infatti da Marx come periodici interventi dei poteri pubblici, del governo e degli apparati statali sulla proprietà pubblica, con l’espropriazione dei produttori autonomi rurali e dei piccoli contadini inglesi dal 1500 al 1815.
Politica-struttura valutata dal geniale pensatore di Treviri anche come creazione e riproduzione del debito pubblico, strumento molto efficace fin dal Quattrocento per la borghesia, oppure come politica doganale e relazioni commerciali con l’estero di ciascun stato.
Politica-struttura intesa anche come tasse e fisco, “esazioni fiscali” secondo la terminologia marxiana utilizzato nel ventiquattresimo capitolo del Capitale, oltre che in qualità di politica monetaria, tassi d’interesse, ecc.: politica, certo, ma politica economica.
Politica-struttura intesa come il lato strettamente economico e finanziario delle dinamiche internazionali e delle relazioni tra stati, ivi comprese quelle “guerre commerciali” descritte da Marx anche nel suo ventiquattresimo capitolo del primo libro del Capitale, oltre che a “continente” teorico-pratico che si materializza e si concretizza anche nel macrosettore delle infrastrutture (porti, ferrovie, autostrade, sistemi satellitari, ecc.) e negli appalti pubblici indirizzati verso il settore civile e militare, nel secondo caso creando la principale base materiale per quel “complesso militar-industriale” descritto da Eisenhower nel gennaio del 1961.
A questo punto si può passare alla verifica e a un particolare stress-test empirico delle tesi in esame utilizzando un ottimo libro del 2002, scritto dal ricercatore statunitense Kevin Phillips e intitolato “Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano”: un testo ben documentato e simultaneamente insospettabile sul piano politico visto che, come ha sottolineato anche Michele Salvati nella sua breve introduzione all’eccellente saggio in oggetto, sicuramente “Phillips non è un radicale, non è un populista di sinistra che ce l’ha con i ricchi per partito preso”.[1]
Primo elemento di riscontro concreto per la teoria della politica-struttura: durante la guerra di indipendenza americana contro il colonialismo britannico, a partire dal 1776 gli approvvigionamenti e gli appalti statali di tipo civile e bellico crearono grandi fortune e ricchezze, assieme alla pirateria appoggiata e legittimata dal nascente governo statunitense e attuata con successo dai “predoni-corsari-capitalisti” della costa orientale degli Stati Uniti.
Phillips attesta che “ancora una volta, la finanza di guerra e le responsabilità degli approvvigionamenti diedero i frutti attesi. A Filadelfia, il beneficiario numero uno fu Robert Morris, inizialmente capo della commissione acquisti del Congresso e poi (dal 1781) sovraintendente alle finanze. Tra 1775 e 1777 quasi un quarto degli appalti concessi da Morris andò alla sua stessa ditta, la Willing and Morris; e il suo portafoglio venne ulteriormente gonfiato dalle predazioni, coordinate in gran parte dal suo socio William Bingham, nominato agente principale del Congresso nei Caraibi. Come vedremo, Morris aveva una partecipazione nella Bank of North America, un istituto di credito formalmente privato ma in realtà quasi pubblico. Tali erano le sue vanterie in campo finanziario che Morris si sarebbe potuto ritenere l'uomo più ricco d'America nel biennio 1782-83. Non è affatto da escludere che abbia messo assieme il primo milione prima dell'armatore Derby. Viene ricordato come «il finanziatore della Rivoluzione», ma uno storico afferma che la verità «è esattamente opposta: fu la Rivoluzione a finanziare Morris».
Un altro importante beneficiario della guerra fu William Duer, fornitore principale del commissariato militare di New York. Poi veniva Jeremiah Wadsworth, capo commissariato per il Connecticut, lo «stato degli approvvigionamenti di guerra» dal 1775 al 1779. Gli storici hanno collocato sia Duer sia Wadsworth in un vero e proprio «network degli acquisti», che operava in collusione con l'ufficio di Morris e che sarebbe tornato a collaborarvi nella gestione della finanza postbellica.
Benché le generazioni successive l'abbiano dipinta in modo assai più nobile, la Rivoluzione americana fu un altro grande intreccio di interesse pubblico e profitto privato; e come nelle guerre contro i francesi, la corsareria avrebbe costituito il business più redditizio in assoluto. I sette anni successivi l'autunno 1775 videro salpare, sotto le insegne degli Stati Uniti o di uno dei tredici stati coloniali, quasi duemila vascelli di tutti i tipi e di tutte le dimensioni, dal bialbero alla fregata [2].
Per quanto riguarda invece il secondo livello di controllo dell’“intreccio di interesse pubblico e profitto privato” derivante dalla storia dell’importante città di Boston nel 1783-1813, Phillips rilevò che “l’analisi dei primi registri tributari della città per gli anni 1771, 1780, 1784 e 1790, lo storico delle colonie John Tyler documentò, due secoli dopo, una sostanziale rivoluzione nella composizione della ricchezza bostoniana. Nel 1780 diversi uomini legati alla corsareria e al business delle forniture militari stavano entrando nell'alta società. Nel 1784 erano ormai proiettati verso i massimi livelli. I cinque maggiori contribuenti del 1790 erano, nell'ordine: Thomas Russell, mercante e capitano di nave corsara; John Hancock, mercante, contrabbandiere e capitano di nave corsara; Joseph Barrell, appaltatore di forniture per la flotta francese; Mungo Mackay, distillatore e capitano di nave corsara; e Joseph Russell, mercante e capitano di nave corsara.
Quello di Boston non è certo un caso isolato. Negli anni Novanta del Settecento, i patrimoni derivanti dalla corsareria e dall'amministrazione delle finanze governative rappresentavano la principale fonte di ricchezza degli Stati Uniti. Gustavus Myers, in History of the Great American Fortunes, accomunava le fortune derivanti dalla corsareria e le fortune derivanti dall'attività armatoriale perché era impossibile stabilire quanto si guadagnava dalla cattura di un mercantile britannico carico di zucchero nel 1781 e quanto si guadagnava dalla vendita di un carico di caffè, di cotone e di pepe giavanese vent'anni dopo.
Oltre a mostrare un «evidente» sovrapposizione tra la predazione del periodo bellico e la conseguente ricchezza, l'analisi dei primi registri tributari della città di Boston metteva in evidenza il secondo elemento: gli appalti governativi e le ricche forniture di guerra. Thomas Russell, l'uomo più ricco di Boston, era stato anche il fiduciario occulto di Robert Morris, il capo della commissione acquisti del Congresso e l'uomo più ricco di Filadelfia. Joseph Barrell riceveva una provvigione del 5% – in luigi d'oro (la moneta francese) – sulle forniture acquistate per conto della flotta francese. Altri due super ricchi, posizionati poco al di sotto dei cinque che abbiamo elencato prima, erano Caleb Davis, concessionario di stato per la vendita delle navi catturate e rappresentante su Boston del ministero continentale della Guerra, e John Bradford, concessionario delle prede per la marina continentale. Nathan Appleton, che sarebbe stato uno dei protagonisti dell'industria tessile del Massachusetts, nel 1813 «doveva gran parte della sua ascesa economica e sociale al ruolo di funzionario continentale dei prestiti per il Massachusetts». In sostanza, «gli appalti governativi offrivano un accesso ancora più sicuro alla ricchezza di quanto non facesse la corsareria»[3].
Quindi “appalti governativi” per e nei “liberisti” Stati Uniti del 1776-1815.
Terzo test: proprio la guerra di Secessione, che oppose dal 1861 al 1865 il “libero” nord capitalista al sud schiavista degli Stati Uniti, “oltre a costituire un significativo spartiacque economico “fu anche un grande incubatore di imprese e imprenditori. Un gran numero di finanzieri e di imprenditori saliti alla ribalta alla fine del XIX secolo (J.P. Morgan, John D. Rockefeller, Andrew Carnegie, Jay Gould, Marshall Field, Philip Armour, Collis Huntington, e molti altri notabili del business ferroviario) erano giovani benestanti del Nord che avevano evitato il servizio militare, quasi sempre pagando dei sostituti, e avevano utilizzato la guerra per muovere i principali passi sulla scala delle loro future ricchezze. Quasi tutte le fortune già consolidate ebbero ulteriore impulso. Quella di Vanderbilt, già stimata in 15 milioni di dollari nel 1861, aumentò di cinque volte durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo, soprattutto grazie ai profitti delle ferrovie; e nel 1877, quando l'audace commodoro morì, valeva l'incredibile somma di 105 milioni di dollari. Ma l'effetto incubazione era ancora più importante”[4].
Morga, Rockefeller, ecc. avevano dunque “utilizzato la guerra” per creare le basi fondamentali “delle loro future ricchezze”: ancora una volta, viva il “liberismo” statunitense.
Ma non solo: nel 1870, e quindi ancora prima dello scoppio della guerra civile americana, “si contavano a New York City un centinaio di milionari. Alla fine della guerra il loro numero era triplicato. Nel 1863 l'1% dei più ricchi abitanti di Manhattan (seicento famiglie), ingrassato dalla presenza dei nuovi ricchi, deteneva il 61% della ricchezza cittadina, contro il 40% del 1845. I componenti di quella «aristocrazia trasandata» erano particolarmente inclini a circondarsi di servitori in livrea e pasteggiare presso il lussuoso ristorante Delmonico's, dove il piatto più richiesto era l'anatra farcita ai tartufi. Uno storico ha calcolato che quasi metà del miliardo di dollari intascato dagli appaltatori privati tra 1861 e 1865 andò in profitti. Le espressioni di biasimo di Lincoln richiamavano da vicino le invettive contro i profittatori di guerra pronunciate da Washington ottant'anni prima”[5].
La quinta verifica empirica è sempre relativa agli Stati Uniti ma avendo per oggetto il periodo “pacifico” del 1865-1888 e il gigantesco processo di accumulazione di ricchezza da parte delle compagnie ferroviarie private (Vanderbilt, ecc.), supportate in ogni modo dagli apparati statali e dai diversi centri concentrici del potere politico americano per lunghi decenni sia attraverso finanziamenti pubblici che enormi concessioni di terre demaniali, come nel celebre caso del Pacific Railroad Act del 1862.
Infatti a partire dal 1860-64 “le compagnie ferroviarie divennero così i primi Golia del sistema economico americano, impossessandosi dei parlamenti e comprando i giudici con la stessa leggerezza con cui attraversavano i fiumi e by-passavano le città e le contee non disposte a «collaborare». La «guerra» scoppiata nel 1869 tra Cornelius Vanderbilt e Jay Gould per il controllo della Erie Railroad, nello stato di New York, si combatté senza esclusione di colpi: giudici corrotti, parlamenti comprati e decine di milioni di dollari in gioco, una posta straordinaria per un'epoca in cui la più grande azienda industriale aveva una capitalizzazione di 1-2 milioni di dollari. A inizio anni Settanta dell'Ottocento, il saccheggio della Union Pacific Railroad attraverso la holding Credit Mobilier fu ancora più redditizio: il gruppo di controllo, guidato dal parlamentare del Massachusetts Oakes Ames, avrebbe intascato 44 milioni di dollari. I profitti derivanti dalla speculazione sulle ferrovie dello stato di New York fecero di Vanderbilt il primo americano che oltrepassò la soglia dei 100 milioni di dollari di patrimonio: era la metà degli anni Settanta.
Fino ai gloriosi anni Sessanta, con le ricche opportunità offerte dalle ferrovie (il panorama andava dai finanziamenti ai profitti senza precedenti, derivanti dalle generose concessioni governative e dalle ripetute emissioni azionarie, ai noli da estorsione e alle astuzie del mercato azionario), i 20 milioni di dollari attribuiti ad Astor nel 1848 costituivano il record assoluto della ricchezza.
È difficile esagerare il peso e l'influenza delle ferrovie. Non più tardi del 1880, come abbiamo visto, 17 compagnie ferroviarie capitalizzavano almeno 15 milioni di dollari, mentre una sola azienda industriale (la Carnegie Steel) ne capitalizzava almeno 5”[6].
Passando infine allo stress-test della prima guerra mondiale, vista e vissuta (felicemente) dal punto di vista della politica borghese e del mondo degli affari degli Stati Uniti, per i diciotto mesi e quel sanguinoso biennio 1917-18 che vide l’intervento diretto di Washington nella Grande Guerra Phillips è stato costretto a evidenziare un clamoroso processo di accumulazione capitalista creato mediante soldi pubblici e statali, ammettendo che “l'indice dei titoli di nove aziende specializzate nelle forniture militari aumentò del 311% in diciotto mesi. Stuart Brandes, nella sua ricostruzione storica dei profitti di guerra degli Stati Uniti, parla di profitti volatili e «di giorni convulsi, a Wall Street e nelle borse merci regionali, in cui si fecero delle fortune e talvolta si persero delle fortune. Gli speculatori più abili e fortunati vennero chiamati, se uomini, "warhogs" (porci di guerra), e, se donne, "warsows" (scrofe di guerra)”.
I riformatori sostenevano che la guerra stesse per ristabilire le fortune dei capitalisti che l'era progressista aveva messo sulla difensiva, e gli studiosi che se ne occuparono successivamente catalogarono alcuni esempi clamorosi: più di un miliardo di dollari speso per un aereo da combattimento che non venne mai realizzato, e via dicendo. L'indignazione popolare si attenuò progressivamente insieme ai ricordi di guerra, ma riaffiorò quando il crac del 1929 riportò sotto i riflettori il comportamento delle banche e delle grandi aziende. Nel 1935 la popolare rivista «American Mercury» collocava la guerra al quarto posto tra le «ruberie della repubblica». L'espressione «mercanti di morte» entrò a far parte del lessico comune”[7].
Dato che gli esempi concreti contenuti nel periodo 1776-1918 potrebbero essere moltiplicati a piacere a partire dalla politica fiscale, per non parlare poi del secolo seguente caratterizzato da quella “privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite” made in Washington che ha visto finora l’apice nel 2007-2009 con i salvataggi per mano statale dell’intero sistema bancario statunitense, costati migliaia di miliardi di dollari ai contribuenti del paese, crediamo che lo stress-test di matrice americana sopraesposto dimostra anche nel caso limite dei presunti “liberisti-antistatalisti” USA del 1776-1918 la stretta simbiosi, il loro “tandem” (Salvati) e l’interconnessione dialettica tra politica e affari, tra apparati statali e processi di accumulazione accelerata del capitalismo USA, tra potenza economica e potere politico nella formazione statale americana, confermando dunque la teoria leninista riguardo a una sfera politica da intendersi sia come espressione dell’economia sia come politica-struttura, almeno in un segmento e in una parte molto consistente della sua espressione complessiva e della sua concreta e dinamica globale.
Di fronte alla limpida evidenza empirica persino un riformista moderato ma onesto come Michele Salvati ha riconosciuto, nella sua prefazione del 2005 al libro di Phillips, che “molto spesso i ricchi e i politici hanno lavorato in tandem per creare e perpetuare situazioni di privilegio, talora a scapito dell’interesse nazionale, quasi sempre a scapito dei ceti meno prosperi”.
Meno male che il marxismo e il leninismo, fase superiore di sviluppo creativo del primo, ormai erano “superati e invecchiati” …
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Le privatizzazioni, dalle enclosures fino a Hitler e alla Thatcher
I variegati e multiformi processi di privatizzazione di mezzi di produzione, beni e risorse pubbliche vanno considerati anche come una forma particolare di politica economica e di politica-struttura, tra l’altro molto usata all’interno del mondo occidentale durante gli ultimi decenni, anche se la primogenitura durante il Ventesimo secolo va attribuita al genocida regime nazista.
Un saggio dello storico Germà Bel intitolato “Contro le interpretazioni correnti: le privatizzazioni dei nazionalsocialisti nella Germania degli anni Trenta” risulta particolarmente interessante in questa materia, perché al suo interno si raffrontano i provvedimenti e le misure politiche hitleriane di privatizzazione “di aziende ed imprese, già nazionalizzate durante la Repubblica di Weimar o dai governi ancora precedenti, messe in atto dal Partito Nazionalsocialista tra il 1934 e il 1938 con le privatizzazioni operate nell’ambito della comunità europea tra il 1997 e il 2000.
Mentre gran parte degli studi successivi sembra aver sottolineato la centralizzazione economica messa in atto dallo stato tedesco tra l’ascesa di Hitler e la sua caduta, il saggio di Bel riporta significativamente alla luce il fatto che quasi tutti i settori dell’economia nazionale furono interessati da tali privatizzazioni. Ferrovie, industrie dell’acciaio, miniere, banche, cantieri navali, linee di navigazione, trasporti e servizi locali o correlati al lavoro e anche i servizi sociali furono tutti interessati dalle politiche di privatizzazione.
Le privatizzazioni se da un lato costituirono una fonte importante di entrate per il Tesoro tedesco e contemporaneamente una forma di alleggerimento fiscale per lo stesso, dall’altro furono indirizzate nello specifico a favorire industriali e gruppi finanziari che avevano sostenuto il partito nazionalsocialista già da prima della sua salita al potere. Tra questi Fritz Thyssen, che manteneva una posizione di leader nel trust delle Acciaierie Unite e la cui posizione all’interno del trust fu notevolmente rafforzata dalla loro riorganizzazione finanziaria che, immediatamente dopo la presa del potere da parte di Hitler, vide la quota di proprietà del governo scendere dal 52% al 25%, quota che, secondo la legislazione tedesca, non era più sufficiente a garantire al governo alcuna priorità sul controllo della società”.
Ma neanche Hitler risulta il patriarca dei privatizzatori occidentali delle risorse pubbliche, visto che fu in Inghilterra a partire dal 1480 che iniziò il famigerato processo delle enclosures, ossia la recinzione e l’espropriazione delle terre comuni dei villaggi contadini da parte dei grandi latifondisti appoggiati dal potere regio” (Marx) e dagli apparati statali: dinamica plurisecolare descritta e denunciata con forza proprio da Karl Marx, nello splendido ventiquattresimo capitolo del primo libro del Capitale. (K. Marx, “Il Capitale”, libro primo, cap. 24, par. 2).
MONETA E APPARATI STATALI
A differenza del denaro, la moneta intesa come valuta costituisce un mezzo di pagamento in ultima analisi emesso dallo stato, oltre che garantito dagli apparati pubblici come valido denaro circolante di fronte ai suoi effettivi possessori materiali: dunque essa rappresenta un plurimillenario e diffusissimo strumento di natura politica ed economica allo stesso tempo, vera e propria politica considerata come “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1921).
Moneta e politica: un binomio indissolubile visto che chi parla di moneta (metallica, oppure cartacea) discute simultaneamente anche di apparati statali e parastatali (le banche centrali), mentre una moneta senza stato e garanzie pubbliche alle sue spalle si trasforma per l’appunto nel primordiale e originario denaro, non collegato a un processo di emissione proprio da parte dell’amministrazione pubblica.
Le prime forme di coniazione statali della moneta nel mondo occidentale avvennero in Lidia e nelle città greche del Mar Egeo durante il sesto secolo a.C., ma “la pratica di coniare monete si diffuse rapidamente dalla Lidia nel Vicino Oriente e nelle città greche. Le monete coniate nell’impero persiano presentavano sempre lo stesso disegno che rappresentava il re come un arciere in corsa.
In Grecia l’iconografia era molto più varia: ogni città stato scelse un’immagine rappresentativa che caratterizzava la moneta come il prodotto dell’autorità della città. Le immagini adottate erano prevalentemente figure di animali.
Alcune città iscrivevano il proprio nome sulle monete.
Queste monete “arcaiche” venivano prodotte colpendo con un martello il metallo prezioso posto su uno stampo con una pressa. Fu un’innovazione greca quella di incidere la superficie della pressa con un secondo disegno che si imprimeva così sul retro (verso) della moneta. Nasceva così la moneta moderna: un disco rotondo con i due lati decorati.
Nelle prime monete a due facce il verso, colpito dalla pressa, è leggermente concavo come si può vedere dall’immagine che riporta il verso di una moneta dell’Ellade della metà del secolo IV a C. su cui è impressa l’aquila di Giove. Accanto, una testa della ninfa Aretusa fra i delfini, moneta siracusana dell’inizio del V sec. a C.
A Roma, durante il periodo dei sette re (750-510), il mezzo di scambio era il bestiame (pecus da cui deriva pecunia, “denaro”). Quando si passò dallo scambio di bestiame a un primo rozzo sistema monetario, fu ancora sulla base del bestiame che si fissò l’unità di misura della moneta: le leggi delle XII Tavole (ca 450 a. C.) stabilirono infatti il quantitativo di rame pesato corrispondente a una pecora e a un bue.
Da questo momento le transazioni commerciali ebbero luogo sulla base di metalli di peso e valore stabiliti, per i quali, prima di giungere alla vera moneta coniata, si passò attraverso due fasi. In un primo tempo il metallo usato fu il rame, grezzo e informe ma puro (aes rude, nella foto in alto).
Successivamente si passò al bronzo in mattonelle e in verghe.
Per le esigenze del mercato interno lo Stato romano si serviva della moneta di bronzo, l’aes librale, per il mercato esterno si coniò invece una moneta in argento. All’inizio del III sec. l’argento cominciò ad essere richiesto anche dal mercato esterno ed ebbe inizio allora in Roma un sistema bimetallico, in cui l’argento era destinato alla circolazione in città e il bronzo serviva alle esigenze della campagna.
Le prime monete d’oro apparvero a Roma durante la seconda guerra punica (218-201 a C.) per la necessità di pagare con metallo pregiato le forniture degli alleati”.
Sovranità monetaria con diritto di emettere moneta da parte dello stato, assieme alle ricadute di quest’ultima rispetto al processo produttivo: politica quindi, anche in questo caso, intesa come “espressione concentrata dell’economia”.
Si pensi solamente, per rimanere alla dinamica storica degli ultimi cinque decenni, a quella decisione politica presa il 15 agosto del 1971 dal presidente statunitense Richard Nixon, con la quale si pose fine alla convertibilità in oro dei dollari americani detenuti all’estero, oltre che al lungo processo di creazione dell’euro, avvenuto per via politica (sempre da intendersi come “espressione concentrata dell’economia”) dal 1978 al 2000: l’elenco può essere allungato a dismisura, fino ad arrivare ai nostri giorni.
La politica-struttura e il complesso militar-industriale del terzo millennio.
Il complesso militar-industriale costituisce e rappresenta un caso esemplare di politica-struttura, ossia di simbiosi tra la sfera politica e quella economica e di “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1921).
Coma ha evidenziato di recente in modo lucido e concreto lo studioso russo Ruslan Khubiev, in questa particolare materia “il bilancio della difesa degli Stati Uniti è pubblico solo in termini di cifre totali, mentre i dettagli delle spese sono un segreto di stato. Questa informazione è classificata non solo per il pubblico, ma anche per i membri del Congresso, perciò è quasi impossibile calcolare il grado di efficienza delle enormi cifre che il complesso militare-industriale americano e il suo settore commerciale spendono da decenni.
Nei primi 10 anni di egemonia americana (dal 1991 al 2001) un quarto dell’apparato burocratico di comando e di controllo dell’esercito si era trasformato in un mostro di corruzione. Il giorno prima degli attacchi dell’11 settembre, il segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld aveva dichiarato davanti al Congresso che i revisori dei conti militari non erano in grado di determinare dove fosse stato speso il 25% del bilancio americano della difesa. Solo la successiva isteria sulla necessità di “non badare a spese” per la “lotta al terrorismo” aveva fatto passare in secondo piano questo problema.
I secondi dieci anni di egemonia americana (dal 2001 al 2011) erano stati caratterizzati dalla politica delle invasioni americane e, in questa situazione, vi era stato un aumento ancora maggiore del livello di corruzione. Dal rapporto dell’ispettore speciale per la ricostruzione dell’Iraq, Stuart Boven, risulta che il Pentagono aveva acquistato da aziende americane dei normali interruttori elettrici (del valore di 7,5 dollari) al prezzo di 900 dollari cadauno, tubi per fognature a 57 volte il loro effettivo valore e, per un solo contratto di lavaggio uniformi, l’esercito aveva pagato 13 miliardi di dollari.
Tutto questo era stato presentato come spesa per “la ricostruzione dell’Iraq,” mentre, in pratica, il Pentagono aveva regalato assegni maggiorati alle succursali delle multinazionali statunitensi, riciclato fondi neri e legalizzato dollari appena stampati dalla Federal Reserve .
Attualmente, la situazione è ulteriormente peggiorata; la prima audizione esterna del Pentagono, avviata da Trump nel 2018, è miseramente fallita, ma la Commissione ha concluso che l’incapacità del dipartimento di riferire sulle proprie spese non dovrebbe influire sul suo finanziamento, perchè, testuali parole, “un’organizzazione che vale 2,7 trilioni di dollari ha un ruolo troppo importante nel sostegno dell’economia americana.”
Come, ad esempio, se da un sistema di distribuzione idrica che perde, dovendo comunque far uscire dell’acqua, si preferisse aumentare la pressione del sistema invece di rattoppare i buchi. Sotto Trump, il sistema corrotto del Pentagono è stato nuovamente inondato di denaro, con un aumento del budget ministeriale del 15% dal 2017 al 2019 e del 5% entro il 2020. Non è un caso che il volume delle vendite di armi e servizi per l’esercito da parte delle principali 42 aziende statunitensi sia aumentato nello stesso periodo, arrivando a 226,6 miliardi di dollari nel 2019 e che cinque delle più grandi multinazionali statunitensi abbiano beneficiato del continuo aumento della spesa.
Sapendo questo, non sorprende che il Pentagono spenda circa 20 miliardi di dollari l’anno solo per i condizionatori d’aria in Afghanistan e in Iraq, perché, a quanto pare, in un sistema di corruzione generalizzata, si tratta di pagamenti indebiti assolutamente trascurabili.
Il problema chiave del complesso militare-industriale americano, a differenza di quello russo, è lo squilibrio tra gli interessi delle società private e il sistema di distribuzione degli ordinativi. In Russia, i principali appaltatori dell’esercito sono gli uffici di progettazione statale e gli istituti di ricerca, mentre in America questo ruolo viene svolto dalle strutture commerciali.
Di conseguenza, l’obiettivo principale delle aziende nella costruzione dei velivoli F-35 o dei cacciatorpediniere di classe Zumwalt non è renderli conformi ai requisiti tecnici, ma aumentarne i costi e quindi i profitti. Cioè, non assolvere un compito specifico, ma imporre al cliente l’opzione più costosa.
In parole povere, i sistemi d’arma in Occidente sono progettati al contrario: prima si mettono insieme i sistemi tecnologicamente più recenti, più costosi e non verificati e, solo in un secondo tempo, si inventa per loro un compito da assolvere. Più costoso è il risultato e più tempo ci vuole per padroneggiare una certa tecnologia, meglio è per le aziende manifatturiere. L’unica limitazione sono le loro capacità pubblicitarie e lobbistiche.
Ad esempio la creazione di una nuova struttura della forza spaziale, iniziata nel 2019 negli Stati Uniti, è stata una decisione dovuta non a particolari necessità dell’esercito, ma al lobbismo su larga scala. Le multinazionali volevano semplicemente acquisire un nuovo cliente per “le armi del futuro”.
Affari.
Commesse statali più che lucrose per le multinazionali private.
Soldi e poteri politici statali interconnessi tra loro.
Politica-struttura, dunque.
Il bilancio militare complessivo degli USA risultava pari a 725,4 miliardi di dollari e a circa il 4 percento dell’intero prodotto interno lordo americano. Quindi la sfera politica statunitense controlla anche ai giorni nostri, e sempre a vantaggio delle aziende private e dei politici corrotti, una massa enorme di risorse materiali costituendo un potentissimo complesso militar-industriale (Eisenhower, gennaio 1961), di matrice allo stesso tempo politica ed economica; una forma ipermoderna di simbiosi e collusione, più o meno diretta, tra apparati statali e monopoli privati, un nucleo formidabile di politica-struttura e un’“espressione concentrata dell’economia”, per usare la categoria teorica elaborata dal geniale Lenin ancora nel gennaio del 1921.
La politica-struttura e il “keynesismo militare” dal 1947 al 1991.
La categoria teorica di politica-struttura indica che proprio la sfera politica risulta, almeno in parte, strettamente legata e ben connessa con l’economia e con la “struttura” intesa in senso marxiano, rappresentando quindi una forma superiore di “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1921).
A sostegno di tale tesi prendiamo in esame l’esperienza concreta degli Stati Uniti, “presunti liberisti” e “presunti antistatalisti”, dal 1945 fino al 1990 attraverso l’esame della genesi del moderno complesso militar-industriale e del cosiddetto “keynesismo militare”.
A tal proposito Giacomo Gabellini ha notato acutamente che “verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, divenne palese agli occhi degli strateghi Usa che le necessità connesse alla conduzione del conflitto avevano assorbito una quota ragguardevolissima della forza lavoro statunitense, e che all’interno di gran parte delle fabbriche operanti in settori civili la produzione era stata orientata a sostegno dello sforzo bellico. Era quindi chiaro che una riconversione dell’economia al tempo di pace avrebbe prodotto un impatto fortissimo sull’occupazione e sull’andamento dell’economia nazionale.
La dimostrazione empirica di ciò la si ebbe nell’immediato dopoguerra, quando la smobilitazione e la contestuale sospensione delle commesse militari fecero aumentare il tasso di disoccupazione del 130% nell’arco di un biennio, deprimendo allo stesso tempo l’indice di produzione dal picco dei 212 punti registrato in corrispondenza del culmine dello sforzo bellico ai 170 punti rilevati del 1948. Nel primo trimestre del 1950, i capitali d’investimento rappresentavano appena l’11% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre le esportazioni diminuirono del 25% tra il marzo del 1949 e il marzo del 1950. Di fronte al precipitare della situazione, l’amministrazione Truman decise di incaricare alcuni esperti del Dipartimento di Stato di elaborare un piano strategico in grado di rilanciare il Paese.
Le conclusioni a cui il gruppo, guidato dall’ex banchiere della Dillon, Read & Co. Paul H. Nitze, giunte dopo un anno di studio furono condensate nel National Security Council report 68 (Nsc-68), un documento che coniugava le necessità economiche alle aspirazioni egemoniche degli Stati Uniti, individuando in una sorta di “riarmo permanente” la chiave di volta per far ripartire l’economia.
Nell’ottica dei redattori del Nsc-68, la prosperità economica statunitense dipendeva dal mantenimento di quel “keynesismo militare” (espressione coniata dall’economista polacco Michał Kalecki) grazie al quale era stata superata la Grande Depressione: «gli Stati Uniti potrebbero realizzare un aumento sostanziale della produzione e incrementare in tal modo l’assegnazione di risorse allo scopo di accumulare forza economica e militare per sé e per i propri alleati senza subire un calo reale nello standard di vita […]. Con un alto livello di attività economica, gli Usa potrebbero presto ottenere un Pil di 300 miliardi di dollari […]. I progressi in questa direzione avrebbero lo scopo di permettere un accumulo di forza economica e militare degli Stati Uniti e del mondo libero […]. Inoltre, se viene raggiunta una espansione dinamica dell’economia, il necessario accumulo potrebbe essere realizzato senza una diminuzione degli standard di vita, perché le risorse necessarie potrebbero essere ottenute con una parte dell’incremento annuo del Pil».
Ma per convincere l’opinione pubblica a sostenere un simile sforzo occorreva estremizzare il processo di demonizzazione dell’Unione Sovietica, dipingendola come un nemico irriducibile che, «a differenza degli aspiranti all’egemonia del passato […], è animato da un fanatismo profondamente ostile nei nostri confronti […] e dall’ossessione di imporre la sua brutale autorità sul resto del mondo» . Si trattava, in altre parole, di porre fortemente l’accento sulla contrapposizione tra «l’idea di libertà garantita da un sistema di leggi e l’idea di schiavitù imposta dall’oligarchia del Cremlino» . Ciò in ragione del fatto che «la rapida costruzione di un potente apparato politico, economico e militare […] rappresenta l’unica strada coerente con il percorso intrapreso verso il raggiungimento del nostro obiettivo fondamentale. La disarticolazione del disegno del Cremlino richiede che il mondo libero sviluppi un sistema politico-economico efficiente e adotti una vigorosa strategia offensiva contro l’Unione Sovietica. Quest’ultima, di conseguenza, sarà costretta ad innalzare un adeguato scudo militare con cui difendersi».
Oltre a richiedere una risposta di tipo più militare che politico alla presunta minaccia comunista, il Nsc-68 offriva una raffigurazione ancora più irrealistica dell’Unione Sovietica rispetto a quella delineata da George Kennan nei suoi memorandum. L’Urss veniva infatti ritenuta in grado di «invadere l’Europa occidentale con le possibili eccezioni della Scandinavia e della penisola iberica, di dirigersi verso le aree petrolifere del Vicino e Medio Oriente e consolidare le posizioni comuniste in Estremo Oriente; di lanciare sortite aeree contro le isole britanniche e attacchi aeronavali contro le linee di comunicazione delle potenze occidentali nell’Atlantico e nel Pacifico; di attaccare con armi atomiche obiettivi sensibili situati anche in Alaska, Canada e nell’entroterra degli Stati Uniti. In alternativa, tale capacità, combinata ad altre azioni offensive, potrebbe precludere agli alleati la possibilità di impiegare la Gran Bretagna come base effettiva per le proprie operazioni. Allo stesso tempo, è possibile che l’Unione Sovietica si tuteli dalla possibilità che gli alleati perpetrino una operazione anfibia analoga allo sbarco in Normandia rivolta a sospingere l’Armata Rossa all’interno dell’Europa continentale».
Non tennero conto, i redattori del Nsc-68, delle devastazioni patite dall’Urss durante la guerra, né del processo di smobilitazione militare che Mosca stava portando avanti, né del fatto che Stalin avesse duramente represso le compagini trockijste intenzionate ad “esportare la rivoluzione”. L’assistente del Dipartimento del Tesoro Willard Thorp e il revisore del bilancio William Schaub misero infatti in radicale discussione il contenuto allarmistico del documento, sostenendo che il divario militare tra Usa ed Urss stesse allargandosi e non riducendosi e che Mosca stesse destinando una quota crescente degli investimenti alla ricostruzione. Altri misero in rilievo che la messa a punto della bomba atomica rappresentava, dal punto di vista del Cremlino, l’unica via percorribile per attuare quel ribilanciamento strategico necessario a sventare la minaccia di annientamento rappresentata dall’arsenale nucleare Usa e difendere allo stesso tempo le posizioni acquisite a Teheran e Jalta.
Ma nonostante i rilievi critici, l’amministrazione Truman decise, dietro il forte impulso di Acheson ed Harriman, di conformare immediatamente il proprio operato alle direttive esposte nel documento preparato dalla squadra di Nitze. Fu quindi organizzata una gigantesca campagna propagandistica di cui la crociata anti-comunista portata avanti dal senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy costituì punta di lancia. La “caccia alle streghe” condotta da McCarthy con il sostegno del potentissimo direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover andò rapidamente a consolidare, nell’immaginario collettivo Usa, la raffigurazione ingannevole dell’Unione Sovietica come nemico mortale degli Stati Uniti, al punto che ancora oggi, come rileva Sergio Romano, «esiste nella società politica americana un partito trasversale per cui la Russia è sempre un potenziale nemico. E […] questo partito è particolarmente forte nelle due istituzioni (il Dipartimento di Stato e il Pentagono) da cui dipende in ultima analisi la gestione quotidiana della politica estera degli Stati Uniti».
In tali condizioni, il governo non ebbe alcun problema a realizzare il potenziamento dell’apparato bellico raccomandato dal Nsc-68, che nella fattispecie si materializzò sotto forma di aumento delle spese militari dai 13 miliardi di dollari del 1949 ai 60 miliardi del 1953 (un incremento del 400%). Una simile crescita del bilancio della difesa non poteva essere finanziato soltanto tramite un forte aumento delle tasse a carico dei contribuenti. Il presidente John F. Kennedy lo rese noto con grande candore in un discorso del febbraio 1961, durante il quale riconobbe che il deficit della bilancia dei pagamenti Usa era cresciuto di 18,1 miliardi di dollari tra il gennaio del 1951 e la fine del 1960, ma le riserve auree, lungi dal diminuire correlativamente, erano calate da 22,8 a 17,5 miliardi di dollari. Una sproporzione di non poco conto, la cui origine fu puntualmente rilevata da Jacques Rueff, il celebre economista francese e principale consigliere economico del generale Charles De Gaulle: «nel periodo considerato, le banche di emissione dei Paesi creditori avevano creato, come contropartita dei dollari loro dovuti per i deficit statunitensi, le monete nazionali a pagare i titolari di crediti nei confronti degli Stati Uniti, mentre avevano ricollocato circa i due terzi di quegli stessi dollari sul mercato statunitense. In tal modo, tra l’inizio del 1951 e la fine del 1960, avevano aumentato di circa 13 miliardi l’importo delle loro attività estere in dollari. Perciò, a concorrenza di questo importo, il deficit della bilancia dei pagamenti Usa non aveva portato ad alcun regolamento all’estero. Tutto è passato, sul versante monetario, come se non fosse mai esistito».
Ecco spiegato, in parole povere, l‘inghippo che consentì a Truman di sostenere il colossale piano di riarmo necessario a rilanciare l’immagine degli Stati Uniti come “arsenale della democrazia” tratteggiata a suo tempo da Franklin D. Roosevelt senza dissestare le finanze pubbliche. A beneficiarne fu soprattutto una serie di grandi imprese operanti nel settore bellico (essenzialmente Raytheon, General Dynamics, Lockheed Co., Northrop Co., McDonnel-Douglas, United Aircraft, North American Aviation, Ling-Temco-Vought, Boeing e Grumman Aircraft), attorno a cui cominciò a svilupparsi rapidamente un vero e proprio tessuto produttivo composto da centinaia di società minori – attualmente, questo comparto annovera circa 100.000 aziende che impiegano quasi 4 milioni di lavoratori.
L’aspetto più incisivo della vicenda è tuttavia dato dal fatto che la produzione bellica non rappresenta un blocco omogeneo perfettamente distinguibile dal resto delle attività economiche, giacché settori come l’industria elettronica, chimica, automobilistica, informatica e delle telecomunicazioni presentano un carattere per così dire “misto”, sia civile che militare, che rende le varie Ibm, General Electric, AT&T e Monsanto assimilabili o quantomeno integrabili al complesso militar-industriale. Ciò ha concorso a modellare la natura del rapporto instauratosi tra il Pentagono e il complesso militar-industriale; un rapporto che, in nome della necessità di accentrare la direzione strategica dell’apparato tecnico-produttivo, si decise di disciplinare attraverso contratti negoziati anziché mediante offerte di tipo concorrenziale.
A ciò va sommato il fatto che «le maggiori ditte che producono beni militari sono quasi tutte imprese di proprietà privata. Ma il controllo deve essere distinto dalla proprietà. I dirigenti delle società industriali per azioni non possiedono le risorse delle loro ditte; ne hanno solo il controllo. Le ditte dell’industria militare, formalmente private, operano per conto di un cliente unico, senza che ci siano altri clienti potenziali in vista. Questa dipendenza per le vendite rafforza il sistema diretto di controllo della direzione centrale sulle ditte affiliate […]. L’idea del carattere privato delle ditte produttrici di beni militari è una finzione accuratamente intrattenuta che corrisponde ai diritti legali di proprietà, ma non alla realtà del controllo direzionale primario che si esercita a partire dal Pentagono, [tramite anche] la proprietà diretta delle attrezzature produttive essenziali adoperate da alcuni dei maggiori fornitori di prodotti militari» . Non a caso, gli autori del Nsc-68 erano convinti non solo che per conseguire una solida e duratura crescita economica occorresse perpetuare il keynesismo militare adottato in tempo di guerra, ma anche che il sostegno all’industria bellica, incline per sua natura a puntare sull’innovazione, avrebbe assicurato agli Stati Uniti uno sviluppo tecnologico che nessun altro Paese sarebbe stato in grado di eguagliare”.
Denaro e potere politico.
Appalti lucrosi e apparati statali.
Profitti giganteschi per le multinazionali USA e collusione tra grandi imprese, politici e alte gerarchie militari.
La politica-struttura, in altri termini; “l’espressione concentrata dell’economia”.
Il recentissimo e famigerato Meccanismo europeo di stabilità (Mes) costituisce un ottimo esempio, allo stesso tempo concreto e ipermoderno, di politica intesa come “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1921 “Ancora sui sindacati”) e rappresenta un’eccellente materializzazione della politica-struttura, ossia di quella sezione della sfera politica globale che si occupa, più o meno direttamente, del processo di riproduzione economica della società anche ai nostri giorni e all’inizio del terzo millennio.
A tal proposito Francesco Piccioni ha notato, con estrema lucidità e in modo incisivo, che “ci scuserete se torniamo ancora sulla “incredibile” vicenda del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, che sta per essere approvato tra pochi giorni da tutti i membri dell’Unione Europea. In fondo, riguarda “soltanto” il brutto futuro che attende tutti noi (meno qualcuno). Però vi tranquillizziamo: questa volta non parleremo di “tecnica economica”, ma di politica. Ad un livello speriamo superiore rispetto alle sciocchezze che ci propina quotidianamente l’informazione mainstream.
Che cosa contenga il Mes, infatti, lo abbiamo già analizzato più volte, ricevendo ogni giorno nuove conferme anziché smentite. In estrema sintesi, è un sistema di regole da applicare in modo pressoché automatico che “convince” – contando sulle normali dinamiche del mercato finanziario – i capitali a fuggire dall’Italia e altri paesi con un forte debito pubblico per indirizzarsi verso le banche tedesche, francesi, olandesi. Le quali hanno problemi assai gravi e rischiano di saltare nei prossimi mesi o al massimo pochi anni. Per funzionare davvero c’è bisogno che venga approvata anche l’implementazione dell’unione bancaria europea, secondo la proposta avanzata ancora una volta dalla Germania tramite il ministro delle finanze Olaf Scholz.
Una volta chiuso il cerchio, il ministero del Tesoro avrebbe difficoltà immense per piazzare i titoli di Stato sul mercato e contemporaneamente le banche avrebbero una tale necessità di capitali da chiudere i rubinetti dei prestiti a famiglie e imprese (oltre a vendere i titoli di Stato italiani, contribuendo così alla caduta del prezzo, all’aumento degli interessi da pagare e a un buco supplementare nei propri bilanci). Una gelata di lungo periodo sull’economia reale che arriverebbe (arriverà) dopo oltre un decennio di crisi-stagnazione.
Un cappio intorno al collo del sistema-Italia che perde quotidianamente pezzi importanti (Fiat-Fca, Ilva, Alitalia, ecc.). Poi basterà stringere… ed oplà!
Un governo serio e minimamente competente avrebbe stoppato questo “combinato disposto” già al suo primo delinearsi, con le prime bozze messe sui tavoli intergovernativi a Bruxelles e dintorni. Ma naturalmente non ce lo abbiamo mai avuto, un governo così…
Tanto meno poteva farlo il governo “gialloverde” – ricordate? Quello con Cinque Stelle e Lega… – che doveva guadagnarsi la “fiducia” delle istituzioni europee cercando continuamente l’equilibrio tra i “tre governi in uno” di cui era composto.
E quindi quel progetto di “riforma” è andato avanti nel sostanziale silenzio del governo Conte Primo. Come ha spiegato in questi giorni Pierre Moscovici, Commissario uscente all’economia, “Il testo di riforma del Mes è stato accettato a giugno dal governo precedente, anche se ora qualcuno che era al governo dice cose diverse”.
Il voltagabbana Salvini, insomma, c’era e sapeva tutto. E se pure si può giustamente dubitare delle sue competenze economiche, di sicuro c’erano validi “esperti” leghisti in grado di fargli il disegnino con la spiegazione (Bagnai, Garavaglia, Borghi, Giorgetti, ecc). In ogni caso, un vice-premier di “peso” si porta dietro la responsabilità politica di ogni decisione, anche di quelle che non capisce.
Si può ipotizzare che la “svolta del Papeete” sia stata una furbata salviniana per non trovarsi in queste settimane nella scomodissima posizione di Conte, Di Maio, Gualtieri e via cantando. Che, dunque, sia stato messo in conto che il “pacchetto” (Mes più unione bancaria farlocca) sarebbe stato approvato comunque ma conveniva stare all’opposizione per capitalizzare poi il malessere sociale al momento delle (prossime) elezioni anticipate.
Ma i furbi sono sempre dei cretini che pensano di saperla lunga… Qualsiasi maggioranza esca dalle prossime elezioni politiche, infatti, si troverà a muovere il collo dentro quel cappio, oltre a quelli già in essere (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, Trattato di Maastricht, ecc.). Assumere “i pieni poteri” in quel contesto, insomma, sarebbe addirittura un boomerang, perché bisognerebbe ammettere “di fronte agli itagliani” che non si dispone di alcun potere (tranne quello di chiudere i porti e manganellare le manifestazioni di protesta).
A meno di non dichiarare di voler uscire immediatamente dall’Unione Europea e dall’euro, imbarcandosi in una trattativa tempestosa che replicherebbe la Brexit senza avere alle spalle la potenza (finanziaria e militare, con l’atomica) britannica.
Stronzate leghiste a parte, la situazione è però davvero terribile. Di fatto questa “riforma” passerà anche se il governo o il Parlamento italiano dovessero votare contro. Giovedì sera, non a caso, nella cena offerta a tutti i suoi ministri, Giuseppe Conte ha spiegato che sarà difficile per l’esecutivo dire di no: alla fine la riforma sarà approvata e l’Italia non potrà tirarsi indietro.
Per non perdere completamente la faccia potrà al massimo contrattare qualche modifica marginale o un parziale rinvio, invocando la “logica di pacchetto” (la riforma del Mes va di pari passo col completamento dell’unione bancaria e la creazione di un budget dell’Eurozona). Nulla che modifichi minimamente il quadro futuro.
Vero è che il Parlamento potrebbe bocciare il trattato europeo in corso di chiusura. Ma per farlo dovrebbe crearsi una nuova maggioranza (è impensabile che il Pd non lo ratifichi), ovvero quella vecchia esplosa in agosto. E con l’assoluta contrarietà di Mattarella. Le conseguenze, politicamente, sarebbero a quel punto imprevedibili e molti “leader” si troverebbero a dover improvvisare una “narrazione” comunque poco credibile.
Più che la “classe politica” (un informe ammasso di quacquaraqua intenti a strillare per farsi notare, con la complicità dei media di regime), è utile tener d’occhio gli imprenditori, specie quelli pesantemente indebitati, che si stanno facendo i conti in tasca e “scoprono” che stanno per rimetterci la ghirba. Ovviamente non parlano in prima persona, ma fanno pubblicare “interventi di esperti” anche su giornali insospettabili di “sovranismo” nazionalista.
Per esempio Francesco Carraro, su Il Fatto, definisce “patologica” la logica del nuovo Mes, se vista dal lato degli interessi della popolazione e delle sue condizioni di vita.
“In pratica, stiamo parlando di un sistema in cui uno Stato precariamente sovrano presta denaro a un soggetto giuridico terzo, composto da membri privi di qualsivoglia legittimazione elettorale, dotati di una immunità e insindacabilità pressoché assolute da fare invidia alle baronie della nostra prima repubblica. Per prestare quel denaro, ovviamente, lo Stato deve indebitarsi con i mercati (unico modo consentito). Poi, quello stesso denaro lo stato potrà ottenerlo, ma solo in prestito, dal Mes e previo rispetto di una serie di “condizionalità” così brutali da mettere in ginocchio qualsiasi economia con qualche residua vocazione ‘sociale’”.
Sessanta milioni di persone (molte di più, calcolando anche Spagna, Grecia, Portogallo e altri paesi in condizioni simili) “governate” da poche centinaia di funzionari presuntamente “tecnici”, ma in realtà messi lì dai governi delle nazioni più forti (l’asse è franco-tedesco-olandese, di fatto), che decidono in che modo i capitali – e la possibilità di tenere in vita un’economia – dovranno defluire da determinati territori o istituzioni per viaggiare verso altri lidi.
Un rischio talmente grave da costringere Carraro a chiudere con una critica feroce erga omnes, “movimenti” sardineschi compresi:
“A questo punto, chiunque abbia a cuore la conservazione dell’assetto politico, economico e sociale della nostra convivenza civile, così come pensato dai Padri costituenti nel 1947, deve fare una scelta di campo precisa non solo rispetto al Mes, ma anche nei confronti di tutte le “riforme strutturali” consustanziali al trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea. Il che richiede uno studio assiduo e una consapevolezza vigilante di cui soprattutto le nuove generazioni, e le “nuove” forme di movimentismo, sembrano drammaticamente prive.”
Ma persino l’Huffington Post italiano – parte del gruppo Repubblica-L’Espresso, ossia Carlo Debenedetti, ex “tessera n. 1” del Pd! – ospita un articolo di Alfonso Gianni (ex Prc) in cui il Mes è condannato senza appello:
“In sostanza il Mes agirebbe come una sorta di Fondo monetario europeo, sostituendo il Fmi in una rinnovata Troika (anche se l’intervento di quest’ultimo è sempre ritenuto possibile) o agendo in un ‘duo’ con la Commissione. La vicenda greca si ripropone quindi sotto altre vesti. L’invasività del Mes nelle politiche di bilancio degli stati membri diventerebbe clamorosa, tale da porre seri aspetti di incostituzionalità alla luce della nostra Carta fondamentale. Sarebbe un’applicazione perversa, ma dal loro punto di vista logica, di quell’austerità espansiva di cui hanno straparlato le élite europee”.
Quale conclusione possiamo trarne? Che la discussione sull’Unione Europea, le sue politiche, trattati, meccanismi, ecc., non ha soltanto due possibili schieramenti (“sovranisti” versus “europeisti”). Perché in ballo c’è per un verso la sovranità (appartiene al popolo o a una ristretta oligarchia fatta di amministratori delegati e tecnoburocrati?), per un altro i sistemi-paese (una volta che hai perso le parti strategiche del sistema industriale e finanziario ti serviranno decenni o secoli per risollevarti), per un altro ancora le disuguaglianze sociali (da ogni “riforma” qualcuno ci guadagna e molti altri ci perdono).
E non c’è alcun dubbio che il neoliberismo, anche in versione “ordo”–teutonica, sia una forma assolutamente cruda del dominio di classe. Che la Ue sia una struttura che approfondisce gli squilibri strutturali a vantaggio delle aree “forti” e a scapito di quelle più deboli. E che la questione della sovranità (in soldoni: chi comanda?) sia al tempo stesso una questione di classe, nazionale e internazionale”.
Parole chiare, corrette e di limpida matrice marxista, quelle di Francesco Piccioni.
Tuttavia, pur con tutte le modificazioni di prospettiva e con gli aggiustamentin di analisi che la nuova situazione storica richiede, il Lenin di "Stato e rivoluzione" resta un essenziale punto di riferimento rispetto a due questioni cruciali: la «rottura» della macchina statale borghese, come prodotto della conquista del potere politico da parte delle masse proletarie (giacché le lezioni, opposte ma complementari, del Cile del 1973 e del Portogallo del 1975 non devono essere dimenticate), e la creazione di un apparato istituzionale o «semistato socialista», il cui «deperimento», in quanto apparato che esplica funzioni direttamente o indirettamente repressive (e anche la politica separata dalla società è funzione repressiva), sia garantito e portato innanzi da un sistema consiliare di democrazia proletaria, fondato sulla partecipazione, sul protagonismo e sull’autodeterminazione di classe del proletariato e degli altri strati sociali oppressi.
Non v’è dubbio che queste indicazioni, in cui si riassume una profonda consapevolezza e conoscenza delle basi materiali della sovrastruttura statuale, rimangano fondamentali per una forza comunista che, pur ponendosi sul terreno di una riflessione strategica post-leniniana, non intenda perdere di vista le ‘grandi ragioni’ della sua iniziativa politica e ideale. Il leninismo, pertanto, si configura come la massima esemplificazione storica del rapporto teoria-politica nel marxismo, rapporto che non è solo d’integrazione reciproca o di scorrimento biunivoco, ma anche d’interconnessione dialetticamente contraddittoria, sì che l’essenza del metodo leniniano è, da un lato, in virtù di tale interconnessione dialettica, «l’analisi concreta della situazione concreta», da cui sorgono soluzioni nuove ed originali dei problemi che la presente congiuntura pone a chi intende agire per trasformare il mondo in direzione del socialismo/comunismo; dall’altra, tale metodo non dimentica mai che il nuovo, per legge dialettica, nasce, si sviluppa e progredisce dal vecchio e che perciò l’analisi delle caratteristiche di un fenomeno non può mai prescindere dall’analisi della struttura fondamentale e del suo divenire storico (si pensi all’opera del 1899 che Lenin pose alla base della sua azione di dirigente del movimento operaio rivoluzionario, "Lo sviluppo del capitalismo in Russia"). Lenin compì nel suo tempo un’operazione esplicitamente continuista rispetto al marxismo, eppure sappiamo quanto egli abbia innovato ciò che si proponeva di restaurare. La bussola e il sestante di questa operazione ci sono offerti da due tesi, la prima delle quali afferma la necessità di assumere il leninismo in quanto unico punto di vista correttamente fondato da cui è possibile operare la sintesi rivoluzionaria di teoria e politica; la seconda, enunciata con grande chiarezza da Lukács e condivisibile da qualsiasi marxista intenzionato ad evitare gli opposti e complementari pericoli del settarismo e del revisionismo, afferma che, per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo. Far avanzare, con Lenin ed oltre Lenin, attraverso una ripresa della pratica marxista, un processo di ricomposizione teorica del marxismo funzionale alla costruzione del partito rivoluzionario del proletariato, è il compito immediato che sta di fronte ai comunisti, nel mezzo di un crinale decisivo della nostra epoca, in cui un insieme terribile di mediazioni contrappone e sovrappone l’una all’altra le alternative guerra-pace, sopravvivenza-sterminio, natura-società,
capitalismo-socialismo. Certo, a fronteggiare contraddizioni così immani non basta Lenin, ma non v’è dubbio che, se perdessimo di vista il suo metodo dialettico e la sostanza conoscitiva delle sue posizioni fondamentali in materia di analisi dell’imperialismo e dello Stato borghese, nonché di autonomia politica e ideale del proletariato nella sua lotta rivoluzionaria, ci priveremmo di strumenti essenziali per prevedere, orientare e dirigere l’azione del movimento di classe nella realtà drammatica e complessa del nostro tempo.
1) Dal tuo scritto non si riesce proprio a capire se tu condivida la geniale definizione leninista della politica come “espressione concentrata dell’economia”: a nostro avviso essa costituisce un grande (e veritiero) salto di qualità nel campo della teoria politica marxista, sei d’accordo con noi?
Oppure no?
2) Il principale “aggancio a una teoria dello stato capitalista” all’interno del Capitale di Marx si ritrova proprio nel capitolo 24 del primo libro, che dovresti rileggere con occhi nuovi: Marx citò infatti l’«espropriazione dei produttori diretti» da parte di apparati statali borghesi, le “esazioni fiscali” ecc. ecc., ossia molti degli anelli costitutivi della politica-struttura e della politica intesa come “espressione concentrata dell’economia” (Lenin).
3) Anche le concretissime e periodiche crisi globali di sovrapproduzione, oltre alla concretissima caduta tendenziale del saggio di profitto, a partire dal 1825 hanno influenzato e condizionato sempre più pesantemente il rapporto dialettico via via creatosi tra sfera politica dominante (di classe, borghese) e sfera economica all’interno delle formazioni economico-sociali capitalistiche.
In ogni caso le tue osservazioni in merito rappresentano un ottimo spunto, che potresti elaborare autonomamente per far maggior luce su un altro anello multiforme e importante della politica-struttura avente per oggetto anche warfare state e welfare state (da Bismarck in poi), Keynes o la politica economica dei nazisti (ivi comprese le privatizzazioni hitleriane del 1933-38), e così via fino ad arrivare nel 2019 al famigerato Mes, il Meccanismo europeo di stabilità.
4) Anche il Mes rientra nella politica-struttura e nella politica intesa come “espressione concentrata dell’economia”, siamo d’accordo? (A tal proposito si legga con attenzione l’articolo di Francesco Piccioni, “L’incubo del Mes sul …).
Saluti comunisti.
Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli