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voxpopuli

Intervista all’economista professor Prabhat Patnaik

di Bollettino Culturale

indian farmerjpgPrabhat Patnaik, nato a Jatani il 19 settembre del 1945, è uno dei principali economisti marxisti dell’India. Tramite una borsa di studio ha la possibilità di studiare al Daly College di Indore ed in seguito si laurea in economia al St. Stephen’s College di Nuova Delhi. Ad Oxford consegue il proprio dottorato per poi tornare in patria nel 1974 per insegnare, fino al pensionamento avvenuto nel 2010, presso il Centre for Economic Studies and Planning (CESP) della Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi. Specializzato in macroeconomia ed economia politica, è uno dei più attenti osservatori e critici della politica economica del governo indiano. Feroce critico delle politiche economiche neoliberiste e del nazionalismo hindu, ha pubblicato numerosi articoli e libri in diverse lingue.

Tra i più importanti vorrei ricordare: A Theory of Imperialism, scritto con sua moglie Utsa Patnaik, altra importante economista marxista indiana, The Value of Money, Re-Envisioning Socialism, e Demonetisation Decoded – A Critique of India’s Currency Experiment.

* * * *

1. Professor Patnaik, lei è un marxista in un paese che scivola sempre di più a destra. Il fondamentalismo indù di Modi ha molto in comune con lo sciovinismo di Abe in Giappone, Trump, Orbán e Salvini. Come si materializza questo fondamentalismo indù in economia e che rapporto ha con la gestione dell’ordine neoliberista?

L’attuale partito al governo del paese è stato istituito dalla RSS [Rashtriya Swayamsevak Sangh, Organizzazione Nazionale Patriottica] come suo braccio politico. La RSS è un’organizzazione fascista istituita nel 1925 che aveva inviato un emissario a Mussolini e aveva grande ammirazione per il fascismo tedesco e italiano.

La sua recente ascesa improvvisa ha molto a che fare col sostegno ricevuto dall’oligarchia corporativo-finanziaria del paese, a sua volta legata alla crisi dell’ordine neoliberista che a mio parere si è arenato. In precedenza, l’ordine neoliberista aveva autonomamente ottenuto supporto promettendo un’alta crescita, prosperità e occupazione. Siccome queste promesse hanno iniziato a suonare come parole vuote durante il periodo di crisi, il neoliberismo ora ha bisogno di un nuovo pilone per sostenere la sua egemonia; e il supremazismo indù funge proprio da nuovo puntello.

L’attuale governo fascista non solo persegue con vigore l’agenda neoliberista, ma è più vicino di qualsiasi altro governo precedente all’oligarchia corporativo-finanziaria. Il suo deliberato smantellamento del settore pubblico, la sua decisione di imporre un’unica imposta sui beni e sui servizi come richiesto da questa oligarchia, il suo attacco ai sindacati e i suoi piani di modifica delle leggi sul lavoro a scapito dei lavoratori, il suo calpestare i diritti degli stati e indebolimento del federalismo, il suo dilagante clientelismo, e gli enormi tagli fiscali alle imprese elargiti (apparentemente per stimolare l’economia), sono tutti sintomi della sua estrema vicinanza al capitale multinazionale.

Il suo problema, tuttavia, è che, a differenza degli anni Trenta, quando maggiori spese militari, finanziate dal debito pubblico, avevano portato i paesi fascisti fuori dalla Grande Depressione, il fascismo contemporaneo è incapace di aumentare l’occupazione o di alleviare la crisi economica. Questo perché l’unico modo in cui il governo può stimolare fiscalmente l’economia è spendendo di più e finanziarla sia attraverso un deficit fiscale che attraverso le tasse sui capitalisti (maggiori spese pubbliche finanziate dalle tasse sui lavoratori non aggiungono molto alla domanda aggregata, in quanto i lavoratori spendono comunque la maggior parte dei loro redditi); ma il capitale finanziario non gradisce tali modalità di finanziamento delle spese statali. E oggi, quando il capitale finanziario è internazionale, mentre lo Stato rimane uno Stato-nazione, le obiezioni della finanza giocano un ruolo decisivo (altrimenti ci sarà un deflusso finanziario e quindi una crisi finanziaria). Questo fatto impedisce qualsiasi attivismo fiscale. E la politica monetaria è abbastanza irrilevante per stimolarne l’attività.

 

2. A suo avviso, quali sono stati i punti di forza e di debolezza della pianificazione economica dell’epoca di Nehru, che ebbe la consulenza di un grande economista marxista come Charles Bettelheim?

Sebbene l’India non fosse un’economia socialista, la pianificazione di Nehru prese come modello la pianificazione sovietica. Aveva due grandi punti di forza: uno era quello di costruire il settore pubblico come baluardo contro le multinazionali; il secondo era quello di rendere il paese il più possibile autosufficiente, in modo da non essere suscettibile a pressioni imperialiste. L’India ha sviluppato le proprie capacità tecnologiche in tutta una serie di industrie e potrebbe così affermare la propria indipendenza nei confronti delle multinazionali straniere. Ciò, tra l’altro, è tornato utile per il paese anche dopo l’introduzione del neoliberismo, quando la forte base di istruzione tecnica del paese (gli istituti di tecnologia finanziati con fondi pubblici) ha permesso il rapido sviluppo di un’industria nazionale di software per computer.

Il primo punto debole della pianificazione di Nehru è stata l’incapacità di effettuare una completa ridistribuzione delle terre. Lo sviluppo dell’agricoltura, che si è affermato come requisito necessario per l’industrializzazione, ha avuto luogo sulla base di una miscela di capitalismo latifondiario e capitalismo “kulako”, in modo che i benefici dello sviluppo dell’agricoltura non sono stati equamente ripartiti nella popolazione rurale. Ciò ha significato un aumento della disuguaglianza di reddito (anche se non è diventato così ingente come nel periodo neoliberista), che ha mantenuto limitato il mercato interno per l’industria. Inoltre ha conservato nelle campagne la vecchia struttura sociale di potere, con la sua ideologia di disuguaglianza per caste.

Il secondo punto debole del modello nehruviano è che non c’era una grande devoluzione delle risorse e del processo decisionale agli organi eletti localmente nei villaggi, il che impedì la fioritura dell’iniziativa locale. In breve, un sistema di pianificazione pesantissimo fu imposto a una struttura sociale che non era sufficientemente convertita, cosa che contribuì alla crisi finale del modello nehruviano, e facilitò il suo superamento. (Anche se, naturalmente, dato il potere che il capitale finanziario internazionale aveva acquisito, e dato inoltre il crollo dell’Unione Sovietica, è dubbio se l’India avrebbe potuto resistere alla pressione per l’introduzione di politiche neoliberiste in assenza di una mobilitazione di massa che però all’epoca non era fattibile).

Ma siccome in questo periodo c’è molta diffamazione dell’era di Nehru, devo sottolineare un fatto significativo. La disponibilità di cibo pro capite nell’«India Britannica» all’inizio del XX secolo era di circa 200 kg; era scesa precipitosamente a meno di 150 kg all’epoca dell’indipendenza nel 1947; dopo l’indipendenza è salito a circa 180 kg fino alla fine degli anni ’80, quando il paese ha intrapreso la svolta neoliberista; sotto neoliberismo c’è stato di nuovo un calo della disponibilità di cibo pro capite a circa 170 kg.

 

3. Che analisi può darci dell’insurrezione maoista dei Naxaliti e che rapporto ha con la natura periferica del capitalismo indiano?

Il problema con i maoisti indiani è che la loro analisi rimane bloccata negli anni Trenta e Quaranta. I maoisti senza dubbio articolano le sofferenze delle tribù, dei dalit e di altri gruppi estremamente oppressi, ma non si può fare una rivoluzione con il sostegno di solo il 20% della popolazione. Alla questione difficile di come unire tutti i lavoratori, gli operai, gli operai agricoli, gli artigiani, i contadini che sono stati tutti vittime del neoliberismo (più di trecentomila contadini si sono suicidati negli ultimi venticinque anni) si deve rispondere nel contesto specifico dell’India contemporanea, che è diverso dalla Cina degli anni Trenta e Quaranta.

Permettetemi di fare un esempio. Le elezioni basate sul suffragio universale degli adulti avvennero in Francia, il paese della rivoluzione borghese classica, per la prima volta nel 1945. (L’Inghilterra si era avvicinata al suffragio universale nel 1928 quando le donne avevano ottenuto il diritto di voto). In India il suffragio universale degli adulti è stato incorporato nella Costituzione ed è stato introdotto per la prima volta nelle elezioni del 1952. Fu un enorme avanzamento, un grande guadagno per gli oppressi, in una società che era stata caratterizzata da millenni di disuguaglianza istituzionalizzata sotto forma del sistema delle caste.

Per essere sicuri che i risultati elettorali siano determinati dal potere monetario, le classi dominanti hanno tutto l’interesse a ridurli a farsa, proprio perché la sinistra deve lottare per renderli significativi, per rendere reale la democrazia. Ma boicottare le elezioni perché i marxisti classici, tutti precedenti all’introduzione del suffragio universale, erano scettici al riguardo, significa vivere nel passato. E affermare che una dittatura monopartitica, anche da parte di un partito comunista, può rappresentare una forma di governo superiore a quella di un governo eletto a suffragio universale degli adulti, significa chiudere gli occhi sulla realtà.

C’è troppa mancanza di coerenza nell’analisi della situazione indiana da parte dei maoisti.

 

4. Ritiene il vicino modello cinese una possibile alternativa da proporre per una forza comunista indiana al paese?

Non sono sicuro che cosa intendi dire come “modello cinese”. Il modello di Mao certamente è diverso da Deng Xiaoping. Non voglio certo che l’India emuli l’attuale modello cinese, nonostante il suo grande successo nel raggiungere tassi di crescita impressionanti, né voglio che anche l’India segua il modello di Mao, benché ci siano molti aspetti che gradisco.

Non mi piace l’attuale modello cinese perché non sono a favore di dittature monopartitiche che finiscono immancabilmente per spoliticizzare gli operai e i contadini; a mio parere non è questo il socialismo. Inoltre, l’attuale modello economico cinese ha prodotto enormi disuguaglianze in termini di reddito e distribuzione della ricchezza, ha prodotto un consumo dilagante, e un senso di concorrenza tra le persone invece di un senso di solidarietà, e nessuna di queste è la mia idea di una società che si muove verso il socialismo.

Il mio problema con il modello maoista riguarda più la sua politica, e non tanto la sua economia. Una dittatura monopartitica, come ho già detto, non è la mia idea di socialismo. Tuttavia, nell’ambito economico, l’enfasi di Mao sulla regolazione del cambiamento tecnico per raggiungere la piena occupazione, sull’evitare il consumismo, sull’accettazione volontaria di un modello di consumo nella società tale per cui tutti rimangano occupati, e soprattutto sulla costruzione di solidarietà tra le persone invece che di competitività che le esclude reciprocamente, è qualcosa che accetto.

Tra i marxisti c’è la tendenza a sottolineare esclusivamente lo sviluppo delle «forze produttive» come conditio sine qua non del socialismo. Mao ha respinto questa concezione del marxismo e io accetto la sua posizione al riguardo.

Ma nel complesso vorrei che la via indiana verso il socialismo fosse sui generis; a livello economico deve comportare non la decimazione della piccola produzione, che è quello che fa il capitalismo, ma la sua protezione e promozione e la graduale trasformazione in forme collettive di proprietà e pure la sua riqualificazione tecnologica. A livello politico deve implicare un approfondimento della democrazia così come esiste, piuttosto che una sostituzione della democrazia con una dittatura monopartitica.

 

5. Difende, con la sua risposta a David Harvey, A Theory of Imperialism, la validità della Teoria della Dipendenza. Fondamentalmente lei ribadisce che una forma periferica di capitalismo non è segno del sottosviluppo ma come questo modo di produzione si materializza in quel luogo specifico e in un rapporto di dipendenza con il centro del sistema-mondo capitalista. Secondo lei come può una nazione dipendente rompere questo legame? Ad esempio, Samir Amin propose la disconnessione [delinking], lei cosa ne pensa?

In assenza di una «disconnessione», è impossibile per un paese periferico essere autonomo nel perseguire politiche di sua scelta e quindi uscire dalla morsa dell’imperialismo. Anche quando il paese periferico ha buoni risultati in termini di crescita del PIL, come ha fatto l’India fino a poco tempo fa, non può migliorare le condizioni dei lavoratori. Anche una crescita accelerata del PIL in un regime globalizzato sarebbe accompagnata da una crescente povertà e malnutrizione. Ciò è dovuto al fatto che, come abbiamo sostenuto nel nostro libro sull’imperialismo, in assenza di misure di «aumento della terra disponibile» [land-augmentation] alla periferia, la crescente domanda di beni primari da parte della metropoli è soddisfatta solo attraverso una stretta sull’assorbimento locale di tali merci, o di altre merci che utilizzano la stessa terra. E misure di «aumento della terra disponibile» richiedono un’attività indipendente dello Stato che non è possibile finché lo Stato deve agire secondo i capricci del capitale finanziario internazionale. In caso contrario, in un regime globalizzato ci sarà una massiccia fuga di capitali che causerà una crisi finanziaria.

Di conseguenza, sono indispensabili i controlli sui capitali, che impediscono tali fughe e, una volta instaurati i controlli sui capitali, i disavanzi della bilancia dei pagamenti dovranno essere rispettati, non attraverso gli afflussi finanziari attuali, ma attraverso controlli commerciali. Tali controlli commerciali diventeranno ancora più necessari se l’imperialismo imporrà sanzioni commerciali in risposta ai controlli sui capitali. È quindi assolutamente necessario «disconnettersi» dal regime di relativo libero scambio e dei flussi di capitali.

Ma che cosa si fa insieme alla «disconnessione»? Un paese periferico deve perseguire una strategia di sviluppo che protegga l’agricoltura contadina; effettua la ridistribuzione della terra; intraprende misure di «aumento della terra disponibile»; aumenta la produzione pro capite e la disponibilità di cereali; industrializza non rimuovendo dalla terra la popolazione dipendente dall’agricoltura, cioè non effettuando l’«accumulazione primitiva di capitale», ma organizzando questa popolazione in cooperative e collettivi volontari e lasciando che tali collettivi (a parte il settore pubblico) diventino essi stessi proprietari dell’industria; e fornisce l’istruzione universale gratuita e l’assistenza sanitaria attraverso le istituzioni pubbliche.

Tutto ciò naturalmente richiede un cambiamento nella natura di classe dello Stato. In realtà solo uno Stato di lavoratori e contadini avrà la volontà e la predisposizione a «disconnettersi» dalla globalizzazione per fare tutto ciò.

 

6. Lei spesso ha parlato delle vecchie economie del socialismo reale come prive di crisi di sovrapproduzione e di disoccupazione. Non è l’opinione di alcuni economisti marxisti come Charles Bettelheim che ha dimostrato la presenza in quei sistemi di crisi cicliche e dell’uso delle categorie del mercato nei piani quinquennali elaborati dalla classe dirigente comunista. In fondo questa era una delle critiche principali di Mao all’URSS ed uno dei motivi che hanno scatenato la Rivoluzione Culturale. Lei ritiene fondate queste critiche, e se sì, come possono influire sullo sviluppo di una pratica economica tendente al socialismo?

I vecchi paesi socialisti avevano cicli di investimento, ma non di reddito. I cicli di investimento non hanno portato a cicli di reddito perché il rapporto moltiplicatore è stato tagliato: se a causa di un basso investimento in un certo anno, le merci sembravano essere in eccesso di offerta, poi i prezzi sono stati abbassati assieme ai salari in denaro determinati, in modo che i salari reali, e quindi la domanda di consumo, aumentassero per compensare la riduzione della domanda dovuta alla riduzione degli investimenti. In un’economia capitalistica gli investimenti ridotti riducono anche i consumi e quindi il reddito complessivo, siccome i prezzi sono legati ai salari in denaro e non possono essere abbassati rispetto ai salari in denaro. Le economie socialiste tagliano questo stretto legame tra salari monetari e prezzi. Questi ultimi potrebbero scendere rispetto ai salari in denaro in periodi in cui vi sembrava essere domanda altrimenti insufficiente. (Per inciso, ciò non porterebbe mai a perdite da parte di tutte le imprese considerate nel loro insieme. Alcune imprese possono subire perdite mentre altre no, ma non ha importanza poiché tutte le imprese sono di proprietà dello Stato).

A loro volta, i cicli di investimento potrebbero aumentare a causa degli «effetti eco»: se gli investimenti fossero stati effettuati in modo frammentato in un certo periodo iniziale, allora tutti questi strumenti sarebbero stati più o meno demoliti circa nello stesso periodo, e quindi causa un altro ciclo di raggruppamento di investimenti. Le fluttuazioni degli investimenti sono avvenute anche a causa dei cicli dell’agricoltura: in anni di cattivo raccolto, ad esempio, gli investimenti sono stati tagliati. Questi cicli di investimento non hanno quindi nulla a che vedere con l’uso di “categorie di mercato”. Al contrario, le economie socialiste hanno evitato la crisi di sovrapproduzione a causa del meccanismo che ho appena descritto.

L’esistenza del mercato in un’economia non la rende orientata di per sé al mercato. Per esempio, si può avere un sistema in cui l’aggregato dei beni di consumo prodotti è distribuito attraverso il mercato, ma che non rende l’economia retta dal mercato, in quanto in un’economia guidata dal mercato, le decisioni di produzione e di investimento sono prese interamente sulla base dei segnali da parte del mercato. Questa è la causa delle crisi.

La disoccupazione nasce non solo a causa delle crisi, ma anche perché un’economia di mercato non può fare a meno di un esercito di manodopera di riserva, poiché non ci sarebbe alcun limite superiore ai prezzi e salari se ci fosse la piena occupazione, cioè in assenza di un esercito di manodopera di riserva. Quindi, riferendosi alle economie socialiste precedenti, che non avevano alcuna disoccupazione «retta dal mercato», sarebbe a mio parere del tutto sbagliato.

In realtà, credo che il problema della pianificazione nell’Unione Sovietica sia altrove, cioè nell’eccessiva centralizzazione del processo decisionale. Ciò dovrebbe essere evitato in un’economia del terzo mondo che sta tentando di costruire il socialismo con sostanzialmente un settore di piccola produzione, compreso l’agricoltura contadina. Tale economia deve dare a tutti un salario, indipendentemente dal fatto che la persona sia occupata o meno, e dovrebbe istituire una serie di controlli centrali. Poiché un’economia di questo tipo con un notevole decentramento deve disporre in misura significativa di mediazioni di mercato, disporre di controlli centrali è essenziale per mantenerla vicina alla piena occupazione e ad una distribuzione egualitaria del reddito.

A mio parere, questioni quali l’esistenza o meno del mercato e la quota di proprietà sociale dei mezzi di produzione non sono di per sé importanti. Il capitalismo credo sia un sistema “spontaneo” o semovente, soggetto alle proprie tendenze immanenti; e non ci può essere libertà a meno che questo sistema sia rovesciato. Gli accordi economici del socialismo devono essere tali da superare questa spontaneità.

 

7. Molti paesi dell’Asia sono stati in grado di uscire dalla trappola del sottosviluppo non rispettando i dogmi imposti dal FMI, penso al capitalismo assistito di Singapore o della Corea del Sud. Lei come si confronta con quello che Žižek, riprendendo Lee Kuan Yew, chiama “capitalismo dai valori asiatici”?

Non credo che esista il «capitalismo dai valori asiatici», tranne forse come un fenomeno di passaggio o di transizione. Il capitalismo, essendo un sistema spontaneo, imprime abbastanza spontaneamente i suoi valori in ogni società che penetra. Esso mercifica tutto, introduce la concorrenza al posto della cooperazione, e diffonde il consumismo e l’egocentrismo ovunque (eccetto qualora si sviluppi tra i lavoratori una controcultura contro il capitalismo). Così i cosiddetti «valori asiatici» non possono durare a lungo di fronte al capitalismo; non ci può essere alcun fenomeno duraturo definito «capitalismo dai valori asiatici».

La spontaneità non significa assenza di assistenza statale. Infatti lo Stato può favorire le tendenze spontanee del capitalismo, al fine di accelerarne il funzionamento. La domanda da porsi è, quindi, in quale misura Singapore e Corea del Sud confutino la tesi secondo cui lo sviluppo del terzo mondo è impossibile sotto il capitalismo. A mio parere sostenere che lo facciano è ingannevole.

È perfettamente possibile che il centro si estenda ad alcune sacche del terzo mondo, anzi, lo fa sempre. Ma la tendenza di base a generare povertà, come abbiamo spiegato nel nostro libro Una teoria dell’imperialismo, non scompare. Se Mumbai, per esempio, fosse un paese separato che si aprisse a diventare una base per il capitale del centro, e che imponesse un divieto a tutta l’immigrazione dal suo entroterra, allora potrebbe benissimo diventare un «paese» prospero. In realtà, l’imperialismo sta sempre sostenendo tali esempi di «successo» per camuffare la sua tendenza di base a impoverire le masse del Terzo mondo. Ma la mia preoccupazione è sull’«entroterra».

Ciò pone l’importante questione su ciò che dovrebbe costituire l’unità di analisi. L’unità di analisi non può essere un «paese» giuridicamente definito. Poiché l’imperialismo è un fenomeno globale, dobbiamo guardare la totalità di ciò che esso fa ai popoli del terzo mondo.

Consentitemi di fare solo un esempio. Tra i primi anni Ottanta e oggi, la produzione pro capite e la disponibilità complessiva nel mondo di cereali sono diminuite in termini assoluti; e questo vale per l’intero Terzo mondo, il che significa che oggi la fame è maggiore rispetto ai primi anni Ottanta. (Il consumo ridotto nei paesi avanzati a causa di un maggiore «salutismo» è troppo marginale per spiegare questo calo). Poiché è positiva l’elasticità della domanda di cereali al reddito disponibile, almeno nella fascia di reddito di cui fa parte il Terzo mondo, ciò deve comportare un peggioramento delle condizioni della popolazione. Pertanto, i tassi di crescita del PIL non parlano molto delle condizioni della popolazione. Si suppone che l’India abbia avuto un alto tasso di crescita del PIL a causa del neoliberismo, ma la sua povertà assoluta, nel senso della percentuale di persone che scendono al di sotto di una norma nutrizionale assoluta, nello stesso periodo è aumentata.

Quindi l’idea che la diffusione del capitalismo nei paesi del terzo mondo eliminerà la povertà introducendo tassi di crescita del PIL più elevati è completamente sbagliata.

 

8. Nei suoi scritti è chiara linfluenza di due grandi economisti marxisti come Paul Sweezy e Paul Baran. Quanto deve a questi due economisti e che rapporta ha con Keynes, di cui Il capitale monopolistico raccoglie la sfida lanciata al marxismo?

Sia Baran che Sweezy sono stati influenzati da un altro grande economista marxista, Michał Kalecki, che è arrivato indipendentemente alle stesse conclusioni di Keynes nella sua Teoria Generale ma utilizzando categorie marxiste. Era un ingegnere di formazione la cui unica introduzione all’economia fu il Capitale di Marx e l’Accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg. Ciò mi porta a un problema di base con l’economia marxiana.

Marx aveva confutato la Legge di Say e aveva riconosciuto che il capitalismo è vulnerabile al problema di una carenza di domanda aggregata, quasi tre quarti di secolo prima di Keynes. Ma questa parte della sua scoperta scientifica è stata in secondo piano nella convinzione che la carenza di domanda aggregata era solo un problema ciclico automaticamente superato attraverso la rottamazione delle attrezzature. L’economia marxista continuò quindi come se questo problema non avesse alcuna importanza, se si considera il quadro medio per cicli.

Si tratta tuttavia di un errore; non vi è alcuna ragione logica per cui la rottamazione delle attrezzature dovrebbe superare una crisi di carenza di domanda aggregata. Ancora oggi pochissimi economisti marxisti riconoscono la carenza della domanda aggregata come la causa più potente della crisi del capitalismo.

Ora, Kalecki, Baran e Sweezy sono andati in netta controtendenza all’interno del marxismo, motivo per cui prendo molto seriamente il loro lavoro. Fra l’altro, Baran fu tra i primi marxisti a considerare il ruolo dell’imperialismo non solo nel senso leninista, ma anche nel colonialismo, nello sviluppo del capitalismo. Siccome ritengo che il capitalismo non possa essere visto come un sistema autonomo, che purtroppo è il modo in cui Marx lo aveva analizzato nel Volume I de il Capitale, mi trovo nella tradizione di Kalecki, Baran, e Sweezy. È questa tradizione del marxismo che è di grande rilevanza per i marxisti del Terzo mondo.

 

9. Mentre in Occidente l’onda lunga del 68, penso al mio paese, l’Italia, metteva in discussione il capitalismo fordista, iniziarono le prime delocalizzazioni in quello che veniva definito il Terzo Mondo, accompagnato dalla rivoluzione verde in agricoltura, la forzata apertura dei mercati di queste nazioni e dalle riforme cinesi del 1978. Di fatto avvenne una massiccia espulsione dei contadini dalla campagne che crearono gli slum nelle metropoli. A mio avviso, venne sabotata la forza rivoluzionarie delle masse contadine, le stesse che avevano condotto alla vittoria i comunisti in Cina, in Vietnam, nel Laos, in Corea e in Cambogia e che stavano combattendo in altre zone dell’Asia, come le Filippine, l’India, la Thailandia e la Birmania. Lei pensa che questa ristrutturazione complessiva del capitalismo abbia influito sulla possibilità di una larga vittoria delle forze comuniste almeno nei paesi del Terzo Mondo?

Non credo che l’espulsione dei contadini dalle campagne spieghi il riflusso rivoluzionario. In India, per esempio, ancora oggi quasi la metà della forza lavoro è impegnata nell’agricoltura come operai o contadini. Penso che in questo contesto vi siano altri due fattori di maggiore importanza.

Il primo è l’enfasi data nel marxismo allo «sviluppo delle forze produttive». Il socialismo è considerato come sinonimo di sviluppo di forze produttive, che poi si suppone significare un alto tasso di crescita. Io chiamo questa tendenza nel marxismo come «produzionismo» [productivism ndT]. Il produzionismo ha vinto in Cina dopo una lotta lunga e accanita in cui Mao è stato impegnato senza successo. La vittoria del produzionismo è avvenuta in parte perché sembra conforme all’asserzione di base secondo cui il socialismo è sinonimo di sviluppo di forze produttive (e non di libertà umana) e in parte perché ha un grande fascino nel Terzo mondo, che ha visto così poco sviluppo in questa direzione. Inoltre, il fatto stesso che la delocalizzazione delle attività avvenisse sotto il capitalismo neoliberista ha dato alla tendenza «produzionista» nel marxismo nel Terzo mondo una credibilità di cui non aveva mai goduto prima.

Il secondo fattore è il peso sociale e le aspirazioni della gioventù della classe media, che vuole emulare lo stile vita occidentale. La globalizzazione neoliberista lo fa capire chiaramente: pur avendo giovato alla classe media e avendo goduto di un notevole sostegno all’interno di questa classe, ha al tempo stesso portato grandi difficoltà ai contadini. Infatti il conflitto tra la gioventù (soprattutto urbana) borghese e i contadini (e gli operai che soffrono anche a causa della miseria dei contadini che gonfia l’esercito di riserva di lavoro), è il nuovo fenomeno più visibile nel Terzo mondo di oggi. Ma ritengo anche che questa situazione stia cambiando. Il neoliberismo ha raggiunto un vicolo cieco. Il fatto stesso che Donald Trump stia introducendo il protezionismo negli Stati Uniti è sintomatico di questo vicolo cieco. Grazie alla prolungata crisi in cui questo vicolo cieco del neoliberismo ha spinto l’umanità, una crisi in cui ci troviamo oggi, i giovani della classe media che fino ad ora avevano sostenuto con entusiasmo la globalizzazione, saranno presto disillusi; e nuove possibilità rivoluzionarie si apriranno per portare avanti le società del terzo mondo nella direzione del socialismo.

 

10. Unultima domanda. Lei ritiene fondamentale cambiare la natura di classe dello Stato per opporsi sia al neoliberismo che per ottenere dei successi per le masse come un solido stato sociale. Altri pensatori marxisti, come Robert Kurz o Gianfranco La Grassa, ritengono inservibile lo Stato nella costruzione del socialismo. Va superato con tutte le categorie del capitalismo come il lavoro salariato, la merce e il denaro. Questo è il motivo che portò alla nascita, ad esempio, dei soviet. Lei ritiene possibile costruire la premessa del socialismo per mezzo di un capitalismo fortemente dirigista?

Il ruolo dello Stato è estremamente importante. È importante per «disconnettere» l’economia dalla globalizzazione attraverso controlli dei capitali e commerciali; per investire nel settore pubblico, dal momento che i capitalisti andranno in uno «sciopero degli investimenti»; per realizzare la ridistribuzione della terra; e per difendere l’avanzamento verso il socialismo contro i tentativi imperialisti di sabotaggio. Ma non vorrei un modello di sviluppo centralizzato e pesantissimo. Vorrei che lo sviluppo fosse decentralizzato e inquadrato in un obiettivo di approfondimento della democrazia.

La vera sfida della costruzione del socialismo sta però altrove, cioè nel trovare una fonte alternativa di motivazione e di disciplina del lavoro senza le quali nessuna società può esistere. Sotto il feudalesimo, la gente lavora a causa dell’uso e della tradizione, che sta alla base della coercizione, per esempio la frusta del monsignore; sotto il capitalismo la disciplina del lavoro è inculcata attraverso la coercizione implicita dell’esercito di riserva di lavoro, che significa che se il «capo» non è soddisfatto del vostro lavoro allora siete licenziati; sotto il socialismo la motivazione del lavoro e la disciplina del lavoro devono venire dalla pura volontà dei lavoratori di lavorare.

Il socialismo, come è esistito realmente, ha usato la coercizione per introdurre la disciplina di lavoro; ma questo non può essere l’immagine di una società socialista. Come ho detto prima, il socialismo deve avere la «piena occupazione» nel senso che tutti ottengono un salario. Se la motivazione del lavoro e la disciplina del lavoro devono essere volontarie in una situazione del genere, mi sembra necessaria una decentralizzazione del processo decisionale. In un contesto collettivo, ad esempio, l’emulazione, la pressione tra pari e la discussione possono svolgere il ruolo di rendere effettiva la disciplina del lavoro.

Questo pone in risalto un’altra questione fondamentale: in un’organizzazione così decentralizzata, come si possa costruire una grande solidarietà, andando oltre il villaggio, o la comune, o la contea, o la provincia. È qui che la politica dovrà entrare in scena. La politicizzazione permanente dei lavoratori è essenziale; e per questo credo che il socialismo debba essere associato ad un approfondimento delle strutture democratiche che promuovano la partecipazione, piuttosto che ad una dittatura monopartitica.

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Eros Barone
Monday, 24 February 2020 22:07
Prabhat Patnaik afferma nell’intervista: “A mio parere, questioni quali l’esistenza o meno del mercato e la quota di proprietà sociale dei mezzi di produzione non sono di per sé importanti”. Nella chiusa dell’intervista afferma inoltre: “Mi sembra necessaria una decentralizzazione del processo decisionale...Questo pone in risalto un’altra questione fondamentale: in un’organizzazione così decentralizzata, come si possa costruire una grande solidarietà, andando oltre il villaggio, o la comune, o la contea, o la provincia. È qui che la politica dovrà entrare in scena. La politicizzazione permanente dei lavoratori è essenziale; e per questo credo che il socialismo debba essere associato ad un approfondimento delle strutture democratiche che promuovano la partecipazione, piuttosto che ad una dittatura monopartitica”. Si tratta, con ogni evidenza, dei capisaldi del revisionismo antimarxista e antileninista. Eppure Marx nella fondamentale “Critica del programma di Gotha” ha sottolineato la necessità del massimo sviluppo quali-quantitativo delle forze produttive in quanto ‘conditio sine qua non’ del passaggio al comunismo. Sennonché chi ritiene che al comunismo si giunga per altre vie nutre la convinzione, più o meno tacita, che solo il capitalismo possa sviluppare le forze produttive, laddove Marx ha chiarito sul piano scientifico, e Lenin e Stalin concretizzato sul piano pratico, l’importanza fondamentale del processo di accumulazione nella prima fase della società comunista (caratterizzata dal principio: “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo lavoro”, e di regola denominata socialismo), al fine di realizzare il salto di qualità nella seconda fase del comunismo caratterizzata dal principio: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. In realtà, la pianificazione centralizzata è una caratteristica imprescindibile del socialismo ed è coessenziale alla (e costitutiva della) instaurazione della dittatura del proletariato (le fasi storiche della transizione dal capitalismo al comunismo sono infatti tre: dittatura del proletariato, prima fase del comunismo o socialismo, seconda fase del comunismo o comunismo propriamente detto). La posizione di Patnaik risulta invece più vicina ad una concezione (se non antistatalista ed anarchicheggiante) democraticista e ruralista di stampo menscevico-buchariniano, che fa leva sostanzialmente sull’idea secondo cui la proprietà statale non sarebbe l’espressione più avanzata di rapporti di produzione socialisti e collettivistici, ma, al contrario, una nuova forma di sfruttamento, in genere definita con lo pseudoconcetto di “capitalismo di Stato” (ircocervo, questo, ben distinto dalla categoria leniniana indicata con lo stesso sintagma nel periodo della Nep). Così, la concezione apertamente anticentralista (e larvatamente antistatalista) di Patnaik oblitera il fatto che Lenin, ben prima del 1928 e dell’avvio del primo piano quinquennale, fece approvare la statalizzazione della terra, dei boschi e delle acque nell’area controllata dal potere sovietico; che fin dal dicembre del 1917 il potere bolscevico aveva proceduto alla statalizzazione delle banche; che ancora Lenin, fin dal 1918, aveva statalizzato gran parte dell’industria e delle miniere russe. Ma non basta, poiché la concezione antistatalista è teoricamente inerme rispetto al problema dei soggetti concreti (lavoratori del particolare settore produttivo o dei servizi, comunità territoriali o collettività nazionale) a cui affidare la proprietà, il controllo e l’usufrutto reale, oltre che giuridico, di “beni comuni” di primaria importanza quali la terra e le risorse naturali (ad esempio, le risorse idriche), le banche, le ferrovie, le autostrade, le compagnie aeree, i porti, la scuola, la sanità ecc. Ma vi è di più: come risolvere in un regime socialista, senza una scelta chiara e decisa a favore del centralismo e della pianificazione, la contraddizione tra interessi generali della collettività nazionale e interessi corporativi di singole frazioni dei lavoratori? Infine, è necessario ribadire che la concezione apertamente anticentralista (e larvatamente antistatalista), più o meno imbellettata dalla retorica di un democraticismo, in ultima analisi e a seconda dei casi, borghese o piccolo-borghese, disconosce il fatto che l’ostilità ideologica verso la proprietà statale rappresenta l’orientamento politico-sociale teoricamente adottato e sistematicamente applicato dalla borghesia negli ultimi decenni al fine di ridurre il peso delle imposte pubbliche sui patrimoni e sui profitti e di scatenare la concorrenza più rovinosa tra le diverse frazioni dei lavoratori salariati (privati e pubblici, autoctoni e immigrati, meridionali e settentrionali, stabili e precari, pensionati e attivi ecc.). Riassumendo, la statalizzazione delle forze produttive è il primo passo per giungere alla socializzazione delle forze produttive e risolvere, seguendo un processo storico-dialettico, una delle contraddizioni fondamentali - e, nella fase di transizione, quella principale - del modo di produzione capitalistico: la contraddizione tra la pianificazione nella fabbrica e l’anarchia nel mercato (contraddizione che si risolve estendendone il lato dialetticamente progressivo, cioè la pianificazione, a tutta la società). Così, la "regolamentazione socialmente pianificata della produzione" di engelsiana memoria (cfr. l'"Anti-Duhring"), cioè la pianificazione socialista, pur non determinando da sola il passaggio alla fase socialista/comunista, ne è la condizione di base essenziale. La pianificazione socialista si configura, in altri termini, come la spina dorsale di una società nuova: espressione di una libertà conquistata e mezzo per consolidarla ed estenderla senza posa. Una società, per dirla con Gramsci, in cui tutti dirigono o controllano chi dirige. In conclusione, il massimo della centralizzazione statale (laddove questa è indispensabile per mettere fine allo “sviluppo ineguale” proprio del sistema capitalistico), insieme con il massimo del controllo popolare (laddove questo è altrettanto indispensabile per coinvolgere tutti i lavoratori nella pianificazione ed elevare la loro coscienza in quanto individui che sono “esseri sociali”). La pianificazione diviene perciò, in una società socialista in marcia verso il comunismo, il principio vitale di ogni scelta di vita e l’espressione della massima libertà compatibile con l’allargamento della frontiera del ricambio organico tra natura e società umana.
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Luciano Pietropaolo
Monday, 24 February 2020 16:12
È molto interessante e apprezzabile l'intervista a Prabhat Patnaik e faccio un paio di considerazioni in estrema sintesi. Concordo che lo "sviluppo delle forze produttive" rischia di essere una formula un pò astratta e generica che andrebbe sempre affiancata ad una specifica analisi spaziotemporale e che comunque non sia il fine ultimo di una rivoluzione sociale. Però è certamente una condizione necessaria(ma non sufficiente!) perché la rivoluzione abbia successo, sempre tenendo conto delle condizioni speciali del paese in cui avviene e soprattutto della sua STORIA (che è sempre unica).
Quello che non apprezzo è l'affermazione astorica ricorrente "Questo non è Socialismo" che mi sembra ormai del genere "questo non è vero caffé!" .
Certamente la dittatura del proletariato è un'idea da aggiornare e ridefinire dopo un secolo di vittorie e sconfitte, ma parlare di "dittatura monopartitica" contrapposta alle "libere elezioni" è per lo meno ingenuo o mistificatorio. Non so come finirà in Venezuela, ma fra un esito Maduro-Stalin e uno tipo Guaidò-Pinochet io non ho dubbi su cosa auspicare.
Per quanto riguarda la "dittatura monopartitica" che spoliticizza le masse, è bene distinguere: ai tempi di Stalin le masse in Russia non erano affatto spoliticizzate, lo divennero dopo (è un dato di fatto) e lo stesso vale per la Cina di Mao (sulla Cina di oggi non mi pronuncio, è troppo complessa) . Analogamente per Cuba o la Corea democratica. Ripeto: mai fuoruscire dai percorsi storici reali!
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Paolo Selmi
Sunday, 23 February 2020 15:00
Sai Mario, sono allergico a dare soddisfazione alle bollature e a quelli che parlano da soli...
Ma tu vai avanti a sparare giudizi e stammi bene, te la lascio l'ultima parola, non ti preoccupare.
ciao
paolo
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Mario Galati
Sunday, 23 February 2020 13:47
Ho commentato l'articolo, non i vostri commenti. O ritieni che l'oggetto dell'articolo siano i vostri commenti? Vedo, inoltre, che non abbandoni la cattiva abitudine di bollare i giudizi altrui come bollature.
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Paolo Selmi
Saturday, 22 February 2020 16:17
Caro Mario
infatti qui si sta parlando d'altro, da sette commenti. In particolare, trovi tutto nel primo, circa la mancanza di crisi di sovrapproduzione in un modo socialistico di produzione. Da qui è partito tutto. Da due lavori di diverse pagine che hai ignorato, per concentrarti sul resto.

Io invece ci ritorno: una coscienza di questo tipo riscontrabile in un punto di vista "contadino" o "piccolo borghese", come è tuo costume bollare ciò che non ti convince o manda in crisi i tuoi schemi, sarebbe sorprendente riscontrarla da noi nei cosiddetti "marxisti". Mi fermo qui.
Paolo Selmi
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Mario Galati
Saturday, 22 February 2020 15:13
La mia impressione è che Prabhat Patnaik esprima il punto di vista e gli interessi dei piccoli contadini e della piccola borghesia produttrice indiana. Leggo con interesse i suoi articoli su Resistenze.org e lo stimo, ma su molte cose non sono d'accordo. Le sue proposte riorganizzative mi sembrano astratte e velleitarie. Si potrebbe ritorcere contro di lui il giudizio di irrealismo che egli rivolge, magari anche giustamente, ad altri. Alcuni suoi giudizi economici e storico sociali non li condivido. In particolare, sulla Cina e sulla natura del processo storico sociale dallo stesso Mao ad oggi, e sulla lettura marxista della crisi capitalistica in senso keynesiano. La netta separazione tra dittatura monopartitica e democrazia socialista a suffragio universale, anche rispetto alle concrete esperienze storiche passate, è schematica ed errata, non dialettica. La critica al produttivismo in realtà dove si soffre la fame, con la proposta di un socialismo democratico frugale della piccola produzione (riproporre l'esperienza delle comuni cinesi, svalutando o sottovalutando i problemi che ha comportato e svalutando o sottovalutando le esperienze successive e non comprenderle nel loro valore processuale storico, ma considerandole solo sotto la luce di modelli astratti, è sbagliato) è utopistico e irrealistico e sarebbe concretamente disastroso e fallimentare.
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Paolo Selmi
Saturday, 22 February 2020 15:08
E di cosa Franco! Riprendo il commento di Paolo al #3. "Da qui bisognerebbe ripartire"... qui il condizionale lo stiamo usando tutti. Sinistra ridotta al lumicino, con percentuali elettorali da prefisso telefonico e tutto fuorché disposta a rimettersi in discussione e "ripartire": un riflusso che dura da quarant'anni e che non accenna a invertire la propria rotta. Tuttavia, forse - a maggior ragione - questo è il momento per poterci permettere di pensare in grande, e ri-pensare, assolutamente, a quel modello di Stato che non ha funzionato sino ad ora, per certi versi, mentre per altri ha funzionato, e per altri ancora ha svolto il proprio compito solo parzialmente. Con l'altro occhio, altrettanto assolutamente, rivolto all'oggi, alle sfide di ogni giorno, da utilizzare come banco di prova per i risultati delle nostre ricerche su ciò che è stato. Concretamente, laddove possibile, nella vita di ogni giorno: sul lavoro, a casa, a scuola, nei rapporti con gli altri e con le istituzioni. E cominciare a farsi le ossa per riprodurre, su scala sempre più ampia, un'elaborazione teorico-pratica che, a questo punto, non è più illusione, speranza o atto di fede.
Mentre ti scrivo ho tirato fuori dallo scaffale un libro che mi hanno recuperato da un fondo librario in dismissione e che sapevano mi sarebbe potuto interessare:
Jeanne Delamotte, "Schekino, enterprise soviétique pilote", Paris, Les Editions Ouvrières, 1973 nella traduzione italiana di due anni più tardi. Non si sbagliavano.

Per ripartire occorre conoscere, per conoscere occorre non stancarsi mai di lavorare sulle due direttrici, ieri e oggi, di cui ti parlavo poc'anzi.

Ciao e grazie ancora!
Paolo
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Franco Trondoli
Saturday, 22 February 2020 12:54
Ciao Paolo. È bellissimo il tuo punto di vista in #5. Di grande valore conoscitivo e culturale. È fuori dubbio questo. Ma cosa è lo Stato ?, come si forma ?, come funziona, come si riproduce, come si fa ad arrivare a reindirizzare il processo di vita sociale nel modo che tu indichi come punto di partenza ,appunto, di un diverso modo di funzionare dell'intera Società ?. Guardando e subendo il caos del mondo non se vedono i fili culturali in grado di ribaltare il tutto. Le singole persone, i loro differenziali modi di pensare e vivere contribuiscono a formare quello che diventa "Stato". Un entità ad un tempo frutto di astrazioni mentali e complessi sistemi socioeconomici materiali di gestione amministrativa delle relazioni tra gli uomini. Il Capitale vive perché gli "sfruttati" sono anche "sfruttatori". Non esiste la "purezza" , neanche negli individui più sfortunati. Ribaltare tutto questo non può essere nella testa di poche persone. Anche le più ben disposte ed intelligenti. Deve diventare un qualcosa che adesso neanche ci immaginiamo. Tu dici ,con ottimismo, che "bisogna" lasciare almeno una semina. Sai meglio di me quante persone potranno leggere certe cose , anche in maniera superficiale, rispetto alla popolazione mondiale. Un infima minoranza sempre in diminuzione forse. Siamo ancora nella fase discendente di processi di rovine universali. Non siamo in grado di sapere come fare a vedere la luce e l'uscita dal tunnel. Dobbiamo essere molti molti di più. E ora siamo molto pochi. Ti ringrazio Caro Paolo del tuo interessamento. Lo sai che spero sempre di sbagliarmi, la mia non è assolutamente una critica a quello che tu dici. Un Abbraccio. Franco
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Paolo Selmi
Saturday, 22 February 2020 11:30
Ciao Franco,
in realtà il ragionamento di Prabhat Patnaik è tutt'altro che schematico o, peggio ancora, ancorato a vecchi schemi. Sul solco, in questo senso, di una millenaria tradizione culturale che vede proprio nell'estrema duttilità, mobilità e complessità categoriale il proprio punto di forza, dalla stessa nozione di Trimurti e di Karma fino al cosmo-psicogramma rappresentato dal Mandala buddhistico (tradizione religiosa che, ricordo, nasce anch'essa in India). Ci mangiano a colazione, quindi, caro Franco. Motivo per cui, fra l'altro, nessuna tradizione monoteistica, sia essa cristiana o islamica, potrà mai arrivare a sostituire quell'immenso patrimonio: sarebbe come sostituirgli un sitar con un asse di legno, due chiodi, e un fil di ferro tirato tra gli stessi (e dirgli, "fa un bel suono, nevvero?").
Premesso questo, il marxismo del prof. Prabhat rispecchia, da quel poco che ho potuto leggere, le caratteristiche di cui sopra: lungi da essere il solito pippone sovranista, la sua visione di Stato rispecchia la necessità reale di contrastare poteri antagonistici su tale scala. Difficilmente una comune, un soviet, un collettivo può qualcosa contro una banca straniera o un dazio inserito ad artem per danneggiarne la produzione. Ciò detto, lo Stato non è per lui, per me, per nessuno realmente marxista, una monade. Men che meno oggi, laddove il coronavirus ci insegna - qualora ci fossimo distratti nel frattempo - che il moto-modo di produzione capitalistico ha assunto negli ultimi trent'anni una scala globale (e globalizzante, per quei lembi di terra e di popolazione ancora da "valorizzare"... direbbe qualche entusiasta profeta con maglioncino a collo alto e microfono all'orecchio).
Bene. Cioè, male. Che fare? Il prof. Prabhat qualche suggerimento ce lo offre. Ci dice che, socializzando i mezzi di produzione e pianificandone l'andamento, non solo non abbiamo crisi di sovrapproduzione, ma neppure gli sprechi enormi che tali crisi di sovrapproduzione generano. Ottimizzando risorse e consumi, si riescono a ottimizzare le attività produttive e la ripartizione della ricchezza prodotta immediatamente per i bisogni sociali che è destinata a coprire sin dalla fase di pianificazione. Si riescono a "trovare i soldi" per scuole e ospedali, per esempio.

La finanza internazionale non è la spectre. Dal 2008 a oggi, non fosse stata rimborsata dalle banche centrali, sarebbero andati tutti a carte e quarantotto. Resta il discorso che, come sottolinea il prof Prabhat, dall'altra parte abbiamo rinunciato a elaborare e a lottare per ciò che avremmo dovuto elaborare. Colpa nostra, non loro.

Ci negheranno i prestiti. Chi? Il capitalismo è globalizzato. Non c'è solo Trump o Macron, o la Merkel. Lo aveva già capito Mattei. Oggi l'offerta è ancora più ampia rispetto a quei tempi. La VII potenza industriale (in declino) del pianeta può e deve continuare a esportare. Ti dirò di più. Esportando franco fabbrica (EXW) abbiamo anche possibilità di marginare persino sui costi di trasporto (visto che i clienti si dovranno rivolgere a noi almeno fino ai porti o aeroporti e, lavorando sulle tariffe, possiamo addirittura accaparrarci i noli). Sai cosa significa? Dollari, euro, yuan, rubli positivi che entrano nelle casse di uno Stato che, a quel punto, li può reinvestire nel campo delle materie prime senza avere paura che nessuno accetti la nostra "moneta del popolo" (mi perdonino i cinesi se gli ho rubato la traduzione di renminbi).

Non l'ho inventato io questo procedimento, lo facevano già i sovietici e lo fanno tutt'ora gli iraniani aggirando un embargo che, secondo il tuo ragionamento, avrebbe dovuto metterli in ginocchio un secondo dopo la sua introduzione. Non so se son riuscito a darti un po' di speranza. Stiamo ragionando, peraltro, nell'ambito delle ipotesi. Abbiamo il nostro bel progetto di propulsore a reazione che ci può portare nello spazio, ma nello spazio non vuole andarci nessuno. Ciò non toglie che sia nostro dovere mettere a punto il progetto. "Oggi non è possibile, domani lo sarà": come diceva l'allenatore nel film Dvizhenie vverch di cui ti parlavo qualche giorno fa. L'importante è, a mio modesto parere, cominciare ad affermare, sempre di più e sempre a maggior voce, che esiste un'altra verità rispetto a quella propugnata a Davos, o a Washington, o alle borse di Shanghai e al mercato dei diamanti di Mosca. E dare fondamento concreto, affidabile, inconfutabile storicamente, a tale verità (l'uso del termine è volutamente minuscolo, i russi direbbero pravda e non istina, noi differenziamo così).

Un abbraccio
Paolo
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Franco Trondoli
Friday, 21 February 2020 23:36
Mi attengo al contenuto dell'intervista in Italiano. Non mi convince la soluzione dello sganciamento. Anzi penso proprio che sia impossibile. Lo stesso Autore dice che la Finanza è globale. (Ovvio). Mentre si tratterebbe di "rifare" lo Stato Nazione indipendente in tutto. Ripeto, non si torna indietro. Il Fordismo e il "Socialismo di Stato" sono finiti. Certo, adesso il Capitalismo si riterittorializza politicamente,ed in parte economicamente, perché la globalizzazione ha prodotto la sua crisi. Ma lo fa in un ottica che non potrà che essere Nazionalista. Per coinvolgere e controllare ad un livello superiore le popolazioni mondiali e predisporle a prossimi scontri Interimperialistici. Magari le Superpotenze pensano a scontri tra "piccoli" Imperialismi ?. Che naturalmente potrebbero favorirle ?. Di sicuro continuerà ad esserci una Gestione Finanziaria Globale delle questioni Economiche e Politiche, e nessun "Stato Nazione " potrà esimersi dall'essere condizionato dalle Decisioni Globali. A parte il fatto che qualunque sistema sociale che si richiami al Socialismo deve affrontare i temi ciclopici dell'abolizione del lavoro salariato, della mercificazione, del danaro ,del valore e del mercato capitalistico. Cioè le "eterne" categorie di base del funzionamento sociale del Capitalismo. Hic Rhodus Hic Salta !. Cordialmente
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Paolo iafrate
Friday, 21 February 2020 18:30
Da qui bisognerebbe ripartire per costruire il nuovo orizzonte!
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Paolo Selmi
Friday, 21 February 2020 12:16
Letti con più attenzione i due saggi, meritano per davvero.

Meritano studio e ricerca a partire proprio dai punti evidenziati, che segnano una discontinuità evidente con trent'anni di pubblicistica occidentale, e non solo.

In nessun Paese al mondo, oggi, infatti, esistono economisti in grado di affermare, del loro sistema economico:

At these “market-clearing” prices, some firms would make losses, while others would still make profits; but this would not matter since both the profit-making and the loss-making firms belonged to the State, which could therefore cross-subsidise the loss-making ones from the profits of the profit-making ones. And taking both groups of firms together there would always be positive net profits as long as investment was positive (even if lower than would have been otherwise).

"E' la somma che fa il totale"... diceva il buon Totò. Grazie ancora Francesco per questo contributo. Soprattutto, se conosci di persona il prof. Prabhat, ringrazialo e chiedigli proprio di lavorare su questi punti, ormai negletti da tutti: "As the collapse of the Soviet Union recedes further into history, people increasingly forget that a system had existed there, which, notwithstanding its many limitations and defects, had nonetheless been free of unemployment, of over-production crises and of the irrationality of capitalism."
Da QUASI tutti.

Ciao!
paolo
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Paolo Selmi
Thursday, 20 February 2020 17:51
Ciao Francesco!

Ottimo lavoro, complimenti!
- Unità di analisi
- Ruolo dello Stato nella transizione al socialismo
- Ruolo della partecipazione popolare al processo di costruzione socialistica dell'economia
sono e saranno sempre concetti mai abbastanza ribaditi. Specialmente ai giorni nostri.

La parte più interessante, a mio modestissimo parere, è al punto: "I vecchi paesi socialisti avevano cicli di investimento, ma non di reddito. " E tutto quello che ne consegue. Siccome è la parte più ostica nelle poche righe a disposizione dell'intervista, metto a disposizione dei compagni (e di me stesso stanotte, con la dovuta calma!) due importanti lavori di Patnaik sull'argomento, entrambi tratti dalla rivista per cui collabora: "People's Democracy".

Gli ho dato solo una scorsa (un mio amico russo avrebbe detto "li ho letti in diagonale"...) ma reputo ENTRAMBI molto, molto interessanti, dal punto di vista della formazione teorica.

PRIMO LAVORO:

Why Didn’t Socialism Have Over-Production Crises?
Prabhat Patnaik

SOCIALISM has collapsed over large tracts of the globe. Where it still exists, the economic regimes have undergone considerable reforms. Not surprisingly therefore the old socialist regimes are objects of much vilification these days. While capitalism, understandably, has a vested interest in promoting such vilification, the Left opponents of capitalism continue to remain too shell-shocked to counter it.

There were to be sure serious problems with the earlier socialist regimes, which manifested themselves above all in a de-politicisation of the working class whose class dictatorship they were supposed to represent. But at the same time it must never be forgotten that they created an economic system, the like of which has not been seen in the history of mankind in terms of its concern for the working people.

This becomes clear when we ask a simple question: why didn’t the old socialist regimes ever experience over-production crises which are a perennial feature of capitalism. Rosa Luxemburg of course, in Nikolai Bukharin’s words, had even seen the capitalist system, in the absence of imperialism, as remaining stuck in a state of “permanent general over-production”; but no matter whether one accepts her argument or not, the fact of this system being subject at least to periodic crises of “general over-production”, where mass unemployment and unutilised capacity coexist because there is insufficient aggregate demand, is undeniable. In fact the period since 2008 has been one, where taking the world economy as a whole, there has been a prolonged over-production crisis. How is it then that the old socialist economies never experienced such crises, and, indeed, even according to its critics like the noted Hungarian economist Janos Kornai, managed to maintain permanent full employment?

The proximate answer to this question would be that they were planned economies and not market-driven ones, and hence were not subject to the “spontaneity” of the latter. But one has to go behind this answer, and further ask: what was it that planning specifically did, to ensure that no over-production crisis occurred to undermine the state of full employment in those economies? The answer to this question, which is simple, quite well-known, and elaborated by the Polish Marxist economist Michal Kalecki, can be given along the following lines.

Capitalist economies experience over-production crises, because investment within this system, in the sense of addition to physical capital stock, depends upon whether capitalists expect such addition to earn an adequate rate of profit.They undertake only as much investment as they think would fetch this rate of profit. But if this amount of investment is less than the unconsumed full capacity output at the given income distribution between wages and profits, then if the economy produces this output there would be insufficient demand for it. And since whatever is not demanded in a capitalist economy tends not to get produced at all, the economy would slip below full capacity output.

But when it does so, then consumption demand too would fall below what it would have been under full capacity output, at the given income distribution, so that there would be a further fall in output; and this would go on, until the economy settles at some point below full capacity output, where whatever is produced is actually demanded for consumption and investment. At this point both unutilised capacity and mass unemployment would co-exist.

An example will make the point clear. Suppose full capacity output is 100, and the economy’s output is always divided between wages and profits in the ratio of 60:40. Suppose all wages are consumed while no part of profits is consumed (just a simplifying assumption). Then if full capacity output is produced, consumption will be 60; and this output will be demanded only if investment is 40 (for total demand consists of consumption plus investment). But if capitalists in the aggregate want to invest only 20, because they expect that any investment larger than 20 will not fetch the rate of profit they consider adequate, then aggregate demand will be 80 at full capacity output (60 +20), which will be less than the full capacity output itself, ie, 100. In such a case the economy will fall below full capacity output and will settle at producing only 50, at which consumption will be 30, which together with investment 20 exactly equals output 50. In other words there will be an over-production crisis that will entail 50 percent unutilised capacity.

But suppose in this economy full capacity of 100 was produced and when investment was 20, consumption could be raised to 80 from the original 60, then there would be no deficiency of aggregate demand and hence no reason for any over-production crisis. But raising consumption from 60 to 80 at full capacity output would mean raising the wage-share from 60 percent to 80 percent (since all wages and only wages are consumed). It follows that there would never be any over-production crisis if the share of wages could be adjusted upwards, and that a capitalist economy experiences an over-production crisis only because the capitalists stubbornly refuse to raise real wages for averting such a crisis.

It should be noted that if there is an over-production crisis and output becomes only 50, then the amount of profits from this output is 20. But if an over-production crisis is averted by raising the wage-bill to 80 out of the full capacity output of 100, even then profits remain 20. Hence averting an over-production crisis by raising the wage-bill, and thereby consumption demand, does not hurt profits an iota. The rise in wages does not occur at the expense of profits; and yet the capitalists steadfastly refuse to permit such a rise in wages. And that is because capitalism is an antagonistic system: its antagonistic nature manifests itself not just in capitalists’ opposition to a wage-rise because it reduces profits; it manifests itself in capitalists’ opposition to a wage-rise even when it does not reduce profits. The fear is that it will strengthen workers.The system in short is, in a fundamental sense, ontologically antagonistic. In fact all human societies marked by class antagonism have been antagonistic in this fundamental ontological sense.

The old socialist countries were not antagonistic in this sense, which is why they never experienced any over-production crises. Whenever there was any deficiency of aggregate demand at full capacity output, because the aggregate investment decisions of all socialist firms added up to only 20 (it does not matter here how such decisions were taken) out of a full capacity output of 100, where at the base income distribution the wage share (and hence consumption) was 60, then in such an economy the wage share was simply raised to 80, to prevent such a deficiency from becoming actualised. (An ex ante deficiency of aggregate demand in other words was never allowed to become an ex post deficiency of aggregate demand because the wage share was always adjusted upwards to the required degree.

The manner of such adjustment was also simple, namely through a fall in prices while money wages remained unchanged. In a socialist economy in other words output continued to be produced at full capacity but prices adjusted to clear the market so that this output was always actually demanded: as prices fell, with money wages given, real wages and hence consumption, and hence aggregate demand, rose; prices therefore fell to that level where demand would be 100. The socialist economy thus always maintained full capacity output by letting the real wages, and therefore consumption demand, adjust so that exactly 100 was demanded.

There is something ironical here. A capitalist economy has been described ever since Adam Smith’s time as having flexible prices which clear all markets. In fact a capitalist economy is noting of the sort. It has no price flexibility at all for given money wages, in conditions of oligopoly; and conditions of oligopoly go back a long way in time. On the other hand a socialist economy is supposed to be a planned economy which eschews price flexibility. And yet the old socialist economies systematically avoided over-production crises precisely through price-flexibility for given money wages. This only underscores the poverty of the intellectual stereotypes that are used for understanding these economies.

The onward march of the socialist project will no doubt bring new ways of operating socialist economies in future. But all these must incorporate at least two characteristics of old socialism: one is full employment, and the other is the avoidance of over-production crises. No capitalist economy has ever been able to achieve either; no capitalist economy will ever be able to achieve either.

(https://peoplesdemocracy.in/2018/0701_pd/why-didn%E2%80%99t-socialism-have-over-production-crises)

SECONDO LAVORO:

Capitalism, Socialism and Over-Production
Prabhat Patnaik

THESE notes are meant to clarify a point made earlier (Peoples’ Democracy, June 30, 2018) about the erstwhile socialist economies not having over-production crises as capitalist economies do.

It is in the nature of capitalism to have “over-production crises”, i.e., crises arising from “over-production” relative to demand. “Over-production” does not mean that more and more goods keep getting produced relative to demand, so that unsold stocks keep piling up. This may happen only for a brief period in the beginning; but as stocks pile up, production gets curtailed, causing recession and greater unemployment. “Over-production” in short is ex ante, in the sense that if production were to occur at full capacity use (or at some desired level of capacity utilisation), then the amount produced could not be sold because of a shortage of demand. But it manifests itself in reality in terms of recession and greater unemployment.

It is a mistake to believe that such crises are only cyclical in nature, i.e., that they get automatically reversed after a certain period of time. On the contrary, the Great Depression of the thirties, which was a classic over-production crisis, lasted nearly a decade and was finally overcome because of the war, or, to be precise, because of military expenditure in preparation for the second world war. Since 2008 there has again been an over-production crisis that has persisted with varying intensity right until now. There is thus no question of an over-production crisis under capitalism automatically disappearing. But what was striking about the erstwhile socialist economies of the Soviet Union and Eastern Europe is that they were free from over-production crises. The question is why?

Over-production crises under capitalism arise because of two main reasons. One, investment decisions under capitalism depend upon the expected growth of demand, for which the current growth of demand is taken as a clue: if demand slows down then investment gets restrained. Two, whenever investment gets restrained, so does consumption and hence total income (this is called the “multiplier” effect of investment).

Both these factors were eliminated under socialism. Investment was undertaken according to a plan and not the dictates of profitability; hence there was no question of investment being curtailed when the growth of demand slowed down for any reason. This is not to say that there were no fluctuations in the level of investment. These fluctuations, however, arose not in response to profit expectations, but for entirely exogenous reasons, of which, two in particular were important.

One was agricultural output fluctuations. In years when the agricultural output went down for weather-related, or some other, reasons, investment was cut, in order to prevent excessive upward pressures on food prices; correspondingly when agricultural output revived, so did investment. These investment fluctuations however had nothing to do with any calculations of profitability on investment; they were unavoidable even in a planned economy.

The second reason was the operation of “echo effects”. Suppose for instance that a whole lot of new investment had been installed in a bunched manner at a certain date, say the beginning of the planning period. These pieces of equipment would become due for retirement again in a bunched manner around the same time some years later, which would therefore push up the investment plan, and hence the real gross investment around that time, so that both net investment and replacement needs are accommodated. The investment figure therefore would not show a steady growth but would exhibit fluctuations. But these fluctuations again had nothing to do with any calculations of profitability; they arose because of past investment history.

But even when such investment fluctuations occurred, socialist economies ensured that they did not lead to fluctuations in consumption and income, i.e., those economies snapped the multiplier relationship that necessarily characterises capitalism. This is because all firms in the economy were asked to produce to their capacity, and, if demand was low because of investment being curtailed, then they were asked to lower their prices until whatever they produced got sold.

At these “market-clearing” prices, some firms would make losses, while others would still make profits; but this would not matter since both the profit-making and the loss-making firms belonged to the State, which could therefore cross-subsidise the loss-making ones from the profits of the profit-making ones. And taking both groups of firms together there would always be positive net profits as long as investment was positive (even if lower than would have been otherwise).

This was a remarkable break from what happens under capitalism, and provides a clue to why output and employment fall in a crisis there. Under capitalism, a firm does not produce when prices do not cover costs; and when demand is low, prices do not fall, because they are “administered” through collusion among the oligopolistic firms. Instead, output, and hence employment, fall in order to equate supply with demand, and to eliminate stocks which might have got built up briefly.

The matter can be looked at somewhat differently. A fall in price, with money wages and employment given, which is what happened under socialism, meant a rise in the share of wages in total output; income distribution in short shifted in favour of the workers. Since workers more or less consume their entire wages, such a shift in income distribution in favour of the workers raised the share of consumption in total output. Thus socialist economies never experienced over-production crises because even when investment fell for some reason, output was kept unchanged and the share of consumption rose to compensate for the fall in investment (through a rise in the workers’ share in output).

This however can never happen under capitalism because capitalists would never voluntarily agree to a lowering of their share in output and a corresponding increase in workers’ share, even in a situation of inadequate aggregate demand. This is why capitalism experiences over-production crises: income distribution here is a matter of intense class-struggle where there is no question of capitalists agreeing to lower their own share and correspondingly raise workers’ share for the sake of overcoming a situation of over-production.

The “multiplier” that operates under capitalism whereby a reduction in investment causes a reduction in consumption and hence total output, occurs because of income distribution not being adjustable. The “multiplier” in other words is predicated upon the relative shares among capitalists and workers being given. In fact, under capitalism, far from the workers’ share rising to offset the problem of insufficient demand, the tendency in periods of crisis is the exact opposite, namely to cut wages and raise the share of profits, which, in a situation of reduced investment that brought about the crisis in the first place, actually compounds the crisis. A 10 per cent fall in investment in such a situation does not just bring about a 10 per cent fall in output, as the “multiplier” analysis would suggest, but a more than 10 per cent fall in output, say a 15 per cent fall, because an additional squeeze on consumption through a fall in workers’ share (via the wage cut) is further superimposed upon the reduction in investment.

The fact that the relative share of the workers is not allowed to increase in order to offset the tendency towards over-production, which is a basic characteristic of capitalism, also shows its supreme irrationality as a system. It shows that the system would rather have larger unutilized capacity and unemployment, i.e., a sheer waste of productive resources for lack of demand, than produce as before by avoiding this waste through giving more to the workers. From its point of view wasted resources are preferable to using these resources to improve workers’ consumption. True, not being a planned system it does not make such calculations consciously; but that is what its immanent tendencies amount to. Socialism avoids any waste or slack, such as is caused by a crisis, by raising the consumption of workers appropriately to avert it.
As the collapse of the Soviet Union recedes further into history, people increasingly forget that a system had existed there, which, notwithstanding its many limitations and defects, had nonetheless been free of unemployment, of over-production crises and of the irrationality of capitalism.

(https://peoplesdemocracy.in/2020/0216_pd/capitalism-socialism-and-over-production)

Scappo, grazie ancora per avermi fatto conoscere questo grande (arrivarci a 75 anni così lucidi!), buona continuazione e buon lavoro!
Ciao!
Paolo Selmi
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