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Innovazioni senza innovazione. Il paradosso del Nobel per le scienze economiche 2025
di Marco Veronese Passarella
È ufficiale. Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt sono i vincitori del Premio per le Scienze Economiche istituito dalla Banca Nazionale di Svezia in onore di Alfred Nobel, edizione 2025. Lunedì scorso, i tre studiosi sono stati premiati per aver spiegato – si legge nelle motivazioni – la crescita economica trainata dalle innovazioni tecniche.
In particolare, metà del premio è andata a Joel Mokyr (storico economico americano-israeliano affiliato alla Northwestern University) per aver identificato i prerequisiti per una crescita economica duratura al traino del progresso tecnologico.
L’altra metà del premio sarà, invece, equamente divisa dagli economisti Philippe Aghion (francese, affiliato al Collège de France, all’INSEAD e alla London School of Economics and Political Science) e da Peter Howitt (canadese, professore emerito alla Brown University) per la loro teoria della crescita di lungo periodo generata dal processo di “distruzione creatrice” esercitato dalle forze di mercato.
A ben vedere, la suddivisione del premio riflette sia il diverso contributo che il diverso approccio metodologico utilizzato dai tre autori. Le opere di Mokyr si caratterizzano, infatti, per l’ampio utilizzo di fonti storiche (accanto a più “tradizionali” strumenti quantitativi) e inoltre di categorie analitiche mutuate dalle teorie evoluzioniste e istituzionaliste.
Per contro, Howitt e Aghion vengono premiati essenzialmente per un articolo pubblicato nel 1992 (intitolato A model of growth through creative destruction), in cui si propongono di studiare gli effetti del processo di innovazione tecnologica all’interno di un modello matematico (e puramente teorico) di crescita endogena. Per questa ragione, si rende conveniente una presentazione separata dei loro contributi.
Conoscenza, innovazione ed istituzioni
Il punto di partenza della riflessione di Mokyr è la constatazione che, sebbene la storia dell’umanità sia costellata di grandi innovazioni tecnologiche, queste si sono tradotte in crescita duratura (non meramente transitoria) della produzione e del reddito pro-capite soltanto a partire dalla rivoluzione industriale britannica.
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Bisogna difendere l’Occidente… Sì, ma quale Occidente?
di Marco Morra
1. Il silenzio dell’Occidente
Dove sono finiti i democratici europei? Quelli che imponevano sanzioni alla Russia? Quelli che ne escludevano gli atleti dalle competizioni internazionali? Quelli che si battevano il petto per non poter fare di più in difesa del popolo ucraino? Un genocidio si sta svolgendo sotto i nostri occhi. È ciò che ha affermato la Commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. In un rapporto di 72 pagine, pubblicato il 16 settembre, gli esperti dell’Onu hanno dichiarato che “le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno avuto e continuano ad avere l’intenzione genocida di distruggere, in tutto o in parte, i palestinesi nella striscia di Gaza”. L’operato dello Stato ebraico corrisponde ai criteri che definiscono il crimine di genocidio secondo la Convenzione dell’Onu del 1948: “(i) uccidere membri del gruppo; (ii) causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; (iii) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica, totale o parziale; e (iv) imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo”[1].
Un genocidio, dunque, si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Gli occhi indifferenti dei governi occidentali, della Commissione europea e degli alti comandi della Nato. Mentre Israele continua a fare affari con le aziende occidentali, ad ottenere liquidità dalle banche europee e statunitensi, a partecipare alle competizioni sportive in Europa e negli Stati Uniti. Un genocidio si sta svolgendo sotto gli occhi indifferenti dei liberali europei, dei conservatori europei, delle anime belle europee. La presunta superiorità morale dell’Occidente cade a pezzi di fronte all’ipocrisia delle sue classi dirigenti. Essa si rivela nient’altro che uno spauracchio ostentato pretestuosamente per giustificare la nuova guerra delle democrazie liberali contro i paesi non allineati ai loro interessi, con lo scopo di mantenere ed estendere il controllo di mercati, risorse strategiche e rotte commerciali. Avevamo già assistito al paradosso delle “guerre di democrazia”. Non potevamo ancora immaginare che un genocidio potesse compiersi sotto i nostri occhi nel silenzio degli Stati occidentali.
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Una nuova Storia alternativa della Filosofia
di Salvatore Bravo
L’ultima fatica di Costanzo Preve fu Una nuova Storia alternativa della Filosofia del 2013, un’opera voluminosa nella quale è ricostruita la storia della filosofia secondo il paradigma dell’ontologia dell’essere sociale. L’opera è la configurazione netta e senza sbavature del suo percorso di ricerca. In essa l’ontologia dell’essere sociale non solo prende forma nella chiarezza dei principi, ma si traduce in rielaborazione razionale e sistematica della storia della filosofia. La filosofia è il katechon contro il dissolvimento della comunità assediata dall’interno dalle spinte crematistiche, pertanto la storia della filosofia è testimonianza razionale del “compito eterno della filosofia”. Essa ha l’arduo scopo di definire la natura umana nel suo sinolo di materia (storia) e forma (natura umana) e di testimoniarne la sua esistenza nella storia con i suoi bivi e con le sue trasformazioni. La filosofia è dunque pensiero dell’eterno che si materializza nella storia. La natura umana e la verità non si possono dissolvere con i mutamenti repentini o lenti delle vicende storiche, esse permangono in forme nuove e storicizzate che non obliano il fondamento ontologico della natura umana. La filosofia non è “cupio dissolvi”, ma concetto che definisce la natura umana e ha il fine teoretico di difenderlo dalle forze nichilistiche. La nuova storia della filosofia di Costanzo Preve, non vuol essere nuova nel senso postmodernista, ma è “nuova” rispetto ai processi di attacco e di disintegrazione della filosofia; essa è trasgressiva rispetto a un sistema che vorrebbe ridurre la filosofia a chiacchiera da salotto. La filosofia con la sua visione olistica ha lo scopo di definire il “bene-verità” mediante il metodo dialettico. Essa è prassi, poiché mediante le sue categorie e il suo metodo valuta la conformità del sistema sociale e politico alla natura umana. Costanzo Preve con l’ontologia dell’essere sociale riporta al centro la verità e il pensiero forte (metafisico). Il pensiero non è mai astratto, esso risemantizza la teoretica dei filosofi per poter riaprire i chiavistelli della storia. Tale postura è già comunitaria, la filosofia è dialogo, è logos che cresce qualitativamente nella rete dei concetti comunicati logicamente. Il logos è linguaggio e calcolo dei veri bisogni, il logos è dunque attività teoretica, etica e politica, in quanto “calcola” le condizioni per l’umanizzazione reale e razionale dell’essere umano. É rete sociale e si potenza nello scambio dialogico mediante il quale si riconosce l’alterità e si conosce se stessi.
Ontologia…
Il logos fu centrale nella riflessione di Costanzo Preve, esso fu parte della riflessione teoretica per ringiovanire il mondo ed ebbe al centro tre grandi filosofi: Aristotele, Hegel e Marx.
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Hamas
di Alfredo Facchini*
In apertura, una premessa: sono marxista, ateo e libertario. Tra me e Hamas c’è dunque un divario ideologico incolmabile. Non spetta a me ripulirne la reputazione e, in ogni caso, non ne avrei né il titolo né l’intenzione. Ma poiché attorno a questo movimento circolano leggende e bufale di ogni sorta, ho provato a scavare.
L’idea che “Israele abbia finanziato Hamas” o addirittura che sia una creatura del Mossad circola anche tra noi sostenitori della causa palestinese. Spesso come slogan, raramente con prove.
La storia. In pillole. Hamas nasce nel fuoco dell’Intifada. Gaza, dicembre 1987. La rabbia esplode contro l’occupazione israeliana. Nelle moschee e nei vicoli si muovono uomini dei Fratelli Musulmani. Da anni gestiscono scuole, ospedali, associazioni di carità. Tra loro c’è lo sceicco Ahmed Yassin: figura carismatica, corpo fragile, volontà ferrea.
Decide che è tempo di passare all’azione. Così nasce Harakat al-Muqawama al-Islamiyya – Movimento di Resistenza Islamica. Hamas. Nel 1988 pubblicano la Carta: religione e politica fusi in un unico progetto. Obiettivo dichiarato: liberare la Palestina storica, distruggere Israele, fondare uno Stato islamico. Orientamento: sunnita.
All’inizio Hamas non è un esercito. È una rete: prediche, assistenza, disciplina morale. Ma l’Intifada trasforma tutto. I giovani scendono in strada. Le pietre diventano simbolo. Hamas cresce nel fango, nei campi profughi, nei comitati popolari. Nel 1992 nasce l’ala armata: le Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām. La resistenza diventa organizzata, permanente.
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Le contraddizioni di una narrazione surreale
di Gianandrea Gaiani
L’obiettivo sarà forse comune ma gli sforzi compiuti da UE e NATO per mobilitarci contro l’inevitabile invasione russa continuano a essere non coordinati, spesso contraddittori, in moltissimi casi sopra le righe e con contenuti in antitesi tra loro.
Solo nelle ultime 48 ore ne abbiamo sentite di tutti i colori.
Il 13 ottobre i servizi segreti tedeschi hanno ammonito che “a Mosca si ritiene di avere possibilità realistiche di espandere la propria zona di influenza verso ovest. (…) Per raggiungere questo obiettivo, la Russia non esiterà, se necessario, a entrare in conflitto militare diretto con la NATO”.
Lo ha detto Martin Jäger (nella foto sotto), direttore del Servizio federale di intelligence (BND), ascoltato dalla commissione di controllo parlamentare, al Bundestag. “Non dobbiamo riposare sugli allori pensando che un eventuale attacco russo non avrà luogo prima del 2029. Siamo già nel pieno dell’azione oggi”, ha aggiunto Jäger, che era ambasciatore in Ucraina prima di assumere la guida del BND il mese scorso.
“Dobbiamo prepararci a un nuovo aggravarsi della situazione”, ha aggiunto Jäger mentre Sinan Selen, presidente dei servizi segreti interni tedeschi BfV (l’Ufficio Federale per la protezione della Costituzione – Bundesamt für Verfassungsschutz), anch’egli ascoltato in audizione, ha concordato sottolineando che “la Russia persegue in modo aggressivo le sue ambizioni politiche contro la Germania, l’Ue e i suoi alleati occidentali utilizzando ”un’ampia gamma di attività di spionaggio, disinformazione, ingerenza, sabotaggio e attacchi informatici”.
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Guerra di classe
di Elisabetta Teghil
Questa mattina all’alba in provincia di Verona due anziani fratelli e una altrettanto anziana sorella, agricoltori, hanno fatto saltare in aria con il gas di una bombola il casolare dove abitavano mentre era in corso una irruzione di svariate forze di polizia in relazione a una procedura di sfratto esecutivo. Tre carabinieri sono morti, uno dei fratelli e la sorella sono in gravi condizioni. Dino, Franco e Maria Luisa Ramponi, proprietari di un’azienda agricola storica di Castel d’Azzano, erano sul lastrico, su di loro pendeva uno sfratto esecutivo per un’ipoteca sulla proprietà. Strozzinaggio legale. Avevano già minacciato di far saltare tutto l’anno scorso ma la soluzione è stata piombare in forze nel casolare alle tre di notte. I vicini: “Erano disperati, vivevano come in una grotta” Erano oberati dai debiti e vivevano senza luce e gas.
Questo avvenimento me ne ha fatto venire in mente un altro successo qui a Roma anni fa in un quartiere popolare della periferia est. Una vecchietta di 82 anni, sfrattata dal suo appartamento lo aveva fatto saltare in aria e per nulla pentita aveva ribadito «Il Signore non vi farà godere la casa, siete dei ladri»
Se scorrete la cronaca, di queste storie ne troverete tante negli anni. Il dolore, la fatica di una vita che non vale la pena di essere vissuta si può trasformare in rassegnazione, disperazione oppure rabbia e rancore.
Ci sono quelli che si rassegnano e vengono ignorati, nessuno si occuperà di loro, nessuno si accorgerà di quello che è accaduto, saranno solo loro a pagarne il pesante prezzo.
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Gli ultimi giorni dell’umanità
di Giorgio Agamben
A partire dall’ottobre 1915, dopo la notizia dello scoppio della grande guerra, Karl Kraus cominciò a scrivere «per un teatro di Marte» il dramma Gli ultimi giorni dell’umanità, che non volle fosse messo in scena, perché «i frequentatori dei teatri di questo mondo non avrebbero retto allo spettacolo». Il dramma – o piuttosto, come si legge nel sottotitolo, «la tragedia in cinque atti» – era «sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità». E nel Weltgericht pubblicato dopo la fine della guerra parlerà del suo «grande tempo», che aveva conosciuto «quando era così piccolo e che tornerà a essere piccolo, se gliene rimane ancora il tempo», come di un tempo «in cui succede ciò che non ci si poteva immaginare e in cui dovrà succedere ciò che non si può più immaginare e che, se immaginarlo si potesse, non succederebbe».
Come ogni discorso implacabilmente lucido, la diagnosi di Kraus si adatta perfettamente alla situazione che stiamo vivendo. Gli ultimi giorni dell’umanità sono i nostri giorni, se è vero che ogni giorno è l’ultimo, che l’escatologia è, per chi è in grado di comprenderla, la condizione storica per eccellenza.
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La Sinistra Negata 04
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Segue la Parte seconda. Gli Anni Settanta.
3. L’AUTONOMIA.
Il più vitale dei gruppi extraparlamentari di ascendenza operaista, Lotta Continua, è il primo a soccombere alla nuova composizione di classe. Ad appena due anni dalla sua costituzione in partito, Lotta Continua si trova infatti lacerata dal conflitto tra i soggetti sociali emergenti, giovanili e femminili, e i vecchi gruppi operai, decisi a difendere le proprie prerogative e una centralità ormai declinante1.
Interi spezzoni dell’organizzazione se ne distaccano, contestandone l’“istituzionalizzazione” e la tendenza al burocratismo. Costituiranno una costellazione di collettivi grandi e piccoli, destinati a confluire nel generico “Movimento” che si sta condensando a seguito dello sfaldamento dei gruppi e delle nuove tendenze aggregative, o in una sua specifica componente che da almeno tre anni conosce una crescita via via più rapida: l’area dell’autonomia operaia”.
Definire quest’ultima non è facile2. La compongono, originariamente, gli ex militanti di Potere Operaio e del milanese Gruppo Gramsci, cui si aggiungono altre forze provenienti da organismi di fabbrica, sia dalla diaspora degli “extraparlamentari”. Un’ulteriore componente, che però con l’operaismo in senso stretto mantiene scarsi legami, è rappresentata dalla cosiddetta “autonomia creativa”, molto attenta alle istanze giovanili e ai risvolti culturali e comportamentali del movimento.
Un discorso sull’autonomia operaia – che, rinunciando dall’inizio a una costituzione artificiale in partito, consuma la propria vicenda senza dar vita a stabili forme di centralizzazione (a parte occasionali coordinamenti e l’esperienza contrastata di un organo nazionale) – rischierebbe di risolversi in un’elencazione di sigle e di episodi.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciottesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VIII
I. I club
Indubbiamente il fulcro, il punto nodale, più importante e diffuso del lavoro di risveglio ed educazione culturale dei sindacati è dato dai club. Ho già sottolineato quanto continui a impetuosamente crescere il numero dei club. Si tratta del lavoro più nuovo, e quindi sconosciuto, di quelli affrontati, per cui siamo tenuti a cercare, a escogitare dalla A alla Z forme di attuazione altrettanto nuove, correggendo i nostri errori sul campo, in base all’esperienza maturata.1
Continuiamo l’analisi dell’intervento fiume del compagno Tomskij partendo da dove ci eravamo lasciati. Il capo dei profsojuz poneva l’accento sul LAVORO CULTURALE che il sindacato era chiamato a compiere. Qui comincia a mettere i puntini sulle i.
E siccome nessuno dei nostri ha mai pensato di popolarizzare la questione, lasciandola ad ambiti puramente accademici (dove, sinceramente, ammesso e non concesso che si sia mai andati a fondo nella questione, il bacino di utenza, la ricaduta di tali risultati su una platea di milioni di compagni è stata, storicamente, del tutto irrilevante) è il caso anche qui di conoscere un po’ più da vicino questi club o, così come erano definiti ufficialmente, gli “enti clubistici” (клубные учреждения).
Nascono verso la fine del XIX secolo2, come Case del popolo () dove convivevano biblioteca con sala lettura, aula per i corsi serali, piuttosto che sala conferenze e piccoli teatri. Ovviamente l’autofinanziamento e la scarsità di mezzi non erano un buon viatico per la loro diffusione e, nel 1914 il totale di tali strutture era di 237.
Numero che sarebbe aumentato, nel giro di pochi anni, in maniera esponenziale. Diamo subito un quadro della loro evoluzione da allora, così da toglierci ogni suspense… e cominciare ad avere una prima idea delle dimensioni del fenomeno3:
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Hegel e la guerra
di Salvatore Bianco
Premessa
Per paradossale e contro intuitivo che possa sembrare lo sguardo esclusivamente illuministico sulla guerra e, più in generale, intorno al “negativo” espone la razionalità al più catastrofico dei suoi scacchi. Se ne erano accorti gli esponenti di punta della “teoria critica” della Scuola di Francoforte, M. Horkheimer e T. Adorno, che nel loro capolavoro Dialettica dell’Illuminismo (1947) provvedono a fissarne i passaggi argomentativi chiave.
Dialettica dell’illuminismo
Da un punto di osservazione non invidiabile, siamo tra il 1942 e il 1944, ma ricco di suggestioni teoriche, espongono in quel libro dai tratti profetici e visionari la tesi che il nazifascismo non era stata una «parentesi», come il mondo liberale da lì a poco si sarebbe affrettato a liquidare, piuttosto la scaturigine stessa della intera civiltà moderna, il suo esito più probabile, frutto avvelenato di quell’inevitabile rovesciamento dialettico dell’approccio solo formalistico e dunque debole della ragione illuministica. Il difetto strutturale di quel filone culturale è rintracciato in un eccesso di soggettivismo che impedisce all’io di entrare fino in fondo in relazione con l’oggetto. Con due conseguenze, se riferite al mondo storico e sociale, entrambe nefaste: che i rapporti di forza e di dominio in esso contenuti, a partire dal macro fenomeno della guerra, non vengono neppure scalfiti e meno che mai imbrigliati e che la soggettività, concepita da Kant in termini solo formalistici e astratta, è destinata all’inevitabile scacco conoscitivo e al conseguente rispecchiamento narcisistico. Esito nichilistico fra l’altro già precocemente annunciato nella riflessione del Marchese de Sade, ampiamente richiamato dagli autori, illuminista e contemporaneo di Kant, che non fa mistero nei suoi scritti di porsi come il suo “doppio”. Con chiarezza adamantina, così si esprimono: «Gli scrittori “neri” della borghesia non hanno cercato, come i suoi apologeti, di palliare le conseguenze dell’illuminismo con dottrine armoniose.
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Il Nobel capovolto
di Norberto Fragiacomo
“Per il suo instancabile lavoro nella promozione dei diritti democratici per il popolo venezuelano e per la sua lotta per raggiungere una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia”: con questa motivazione un gruppo ristretto di gentiluomini norvegesi ha insignito del Premio Nobel per la Pace 2025 un’esponente di punta dell’opposizione di destra venezuelana.
Cosa ci sia di veridico in questa formula è presto detto: niente di niente. Marìa Corina Machado proviene da un’altolocata famiglia di possidenti e, a differenza del “proletario” Maduro, ha studiato negli Stati Uniti d’America, ma anziché i “diritti democratici per il popolo venezuelano” ha instancabilmente promosso, nel corso degli anni, il ripristino di quei privilegi di casta che prima della rivoluzione chavista connotavano la realtà politico-sociale del Venezuela. È altresì grossolanamente falso che l’affascinante signora lottasse (e tuttora lotti, benché in semiclandestinità) per una “transizione giusta e pacifica”, visto che ha più volte invocato un intervento militare straniero (superfluo precisare: statunitense) per abbattere l’odiato regime plebeo di ispirazione socialista. Il colmo dell’impudenza e della malafede è però raggiunto nel passaggio “dalla dittatura alla democrazia”. Hugo Chavez e il successore Maduro hanno sempre vinto regolari elezioni, non perché siano (stati, nel caso del compianto Chavez) immuni da debolezze umani e difetti o perché le politiche da loro attuate abbiano trasformato il Venezuela nel paese di Bengodi: semplicemente perché l’unica alternativa stabilmente “offerta” dalla destra reazionaria contempla un ritorno all’ordinaria spaventosa disuguaglianza tra ceti privilegiati e classi popolari condannate all’indigenza, all’ignoranza e allo sfruttamento bestiale.
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Premio Nobel per l'Economia o per il Nichilismo?
di Giuseppe Masala
Il premio Nobel per l'economia di quest'anno incentrato sugli studi relativi all'innovazione sembra nascondere un messaggio politico sullo sfondo del furibondo scontro "tecnologico" tra occidente e Cina: dovete accettare questo scontro con i disagi e i rischi che si possono verificare perché non vi è alternativa possibile a un mondo fondato sul dominio dell'uomo sull'uomo. Un mondo dunque dominato dalla Techné e dal Nichilismo
Puntuale come la malasorte arriva anche quest'anno un'assegnazione del premio Nobel per l'Economia che ha il sapore di non voler disturbare il manovratore. «Tutto procede per il meglio e le magnifiche sorti e progressive ci attendono» sembra volerci dire la Banca Nazionale di Svezia che assegna questo ambito premio. Eppure, a voler scavare a fondo, si tratta di un premio Nobel problematico. Pieno di trappole logiche che - paradossalmente - gli danno un valore intrinseco (inteso come presa di coscienza) al di là delle intenzioni conservatrici di chi lo assegna.
Ad averlo vinto sono tre economisti a me del tutto sconosciuti: Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt. Ma è la motivazione che li ha elevati a principi della Scienza triste a essere importante: «per aver spiegato la crescita economica guidata dall’innovazione» si legge. Più precisamente, sempre continuando a leggere le motivazioni, Joel Mokyr ha vinto il premio «per aver identificato i prerequisiti di una crescita economica duratura attraverso il progresso tecnologico» mentre Philippe Aghion e Peter Howitt lo hanno vinto «per la teoria della crescita sostenuta attraverso la distruzione creativa». Dunque, si tratta di un premio assegnato per gli studi su un tema – l'innovazione – ampiamente scandagliato dagli economisti fin dagli albori della nascita della disciplina.
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Il nuovo antisemitismo come verità di Stato
di Alessandro Somma
Il prossimo numero de La fionda, il secondo del 2025 in uscita per fine anno e intitolato “La Terra promiscua. Israele, il Medioriente e la tragedia senza fine della Palestina”, conterrà una intervista-dialogo di Diego Melegari con Valentina Pisanty[1]. Lì si ricostruisce l’operazione messa in campo dalla destra israeliana per equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, ovvero per considerare la critica alla costruzione di Israele come Stato a fondamento etnico e religioso alla stessa stregua delle ostilità nei confronti degli ebrei. Si racconta poi di come la riduzione dell’identità ebraica all’identità sionista abbia portato a innovare la nozione di antisemitismo: non è più quello di matrice ottocentesca alimentato dai cliché antiebraici e dalla volontà di colpire gli ebrei in quanto tali, bensì quello che mira a condannare le critiche a Israele in quanto ebreo collettivo[2].
L’intervista documenta come il tutto abbia trovato una sintesi nella “definizione operativa” di nuovo antisemitismo formulata dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (International Holocaust Remembrance Alliance): organizzazione intergovernativa che comprende 35 Stati membri e 8 Stati osservatori[3]. Per questa definizione “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei”, mentre “manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”. Con la precisazione che “le manifestazioni possono avere come obiettivo lo Stato di Israele perché concepito come una collettività ebraica”[4].
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È iniziato il disaccoppiamento totale
di Hua Bin, huabinoliver.substack.com
Come se seguisse un copione prestabilito, la guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina ha raggiunto il culmine la scorsa settimana, quando la Cina ha lanciato una serie di dure contromisure contro gli Stati Uniti in rappresaglia per le sue provocazioni, tra cui severe restrizioni sui prodotti a base di terre rare.
Come prevedibile, Trump è andato su tutte le furie e ha aumentato del 100% le tariffe sulle importazioni di prodotti cinesi, minacciando al contempo di annullare un incontro con il presidente Xi, cosa che Pechino non ha mai confermato.
Trump ha lanciato una serie di tweet roboanti sul suo Truth Social, denunciando l’ostilità e l’ingiustizia della Cina.
Se non altro, questo dimostra che Pechino ha imparato a padroneggiare l’arte di premere il pulsante di Trump. Come un giocattolo, l’umore e il comportamento di Trump sono controllati a distanza dai tecnocrati di Pechino, che progettano le sue politiche per contrastare gli Stati Uniti.
Nonostante i progressi dimostrati e l’ottimismo dichiarato per una potenziale de-escalation nei colloqui commerciali di Madrid, gli Stati Uniti non hanno perso tempo e hanno subito lanciato una serie di sanzioni commerciali e tecnologiche contro la Cina, proprio come avevano lanciato l’attacco a sorpresa all’Iran subito dopo il quinto round di colloqui nucleari con Teheran.
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Le frontiere del valore
di Michael Roberts
Güney Işıkara e Patrick Mokre hanno pubblicato un libro approfondito che spiega come la teoria del valore di Marx funzioni per spiegare le tendenze e le fluttuazioni nelle moderne economie capitalistiche. Il titolo, Marx’s Theory of Value at the Frontiers – Classical Political Economics, Imperialism and Ecological Breakdown[La teoria del valore di Marx alle frontiere – Economia politica classica, imperialismo e collasso ecologico], indica al lettore che il libro tratta della legge del valore di Marx applicata a quelle che gli autori definiscono le sue “frontiere”, ovvero i mercati e il commercio, l'imperialismo e la crisi ambientale globale.
Si tratta di un progetto ambizioso, ma gli autori riescono con grande chiarezza a spiegare come il valore (creato dalla forza lavoro umana al massimo livello di astrazione) sia modificato e mediato dalla concorrenza tra capitalisti in quelli che Marx chiamava “prezzi di produzione” (dove i tassi di profitto dei singoli capitali si stabilizzano) e dai prezzi di mercato (dove i profitti in eccesso spingono i capitalisti a una concorrenza incessante).
Gli autori, ex studenti di Anwar Shaikh, adottano la sua teoria della “concorrenza reale” in contrapposizione alla tradizionale “concorrenza perfetta”. Quest'ultima si basa su una visione della produzione capitalistica fondata su armonia ed equilibrio, mentre la concorrenza reale è [caratterizzata da] una turbolenza incessante. Questa è la concorrenza reale in azione: «antagonista per natura e turbolenta nel suo funzionamento» (Shaikh). Gli autori sostengono che questa concorrenza reale sia il principio regolatore centrale del capitalismo, ma che «qualsiasi teoria della concorrenza, inclusa la concorrenza reale, deve essere supportata da una teoria del valore. Altrimenti, la fonte dei ricavi che spettano alle diverse classi sociali (tra le altre cose) rimarrà indeterminata».
Işıkara e Mokre si sono prefissati di dimostrare la connessione logica (e storica) tra il valore creato dalla forza lavoro e i prezzi di mercato.
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Hitlerismo, Trumpismo, Netanyahismo, Le Penismo, Macronismo
Un approccio comparativo ed espressionista
di Emmanuel Todd, emmanueltodd.substack.com
I riferimenti agli anni ’30 si moltiplicano. La degenerazione della democrazia americana sembra riportarci a quella della Repubblica di Weimar tedesca. Trump, attraverso il suo godimento della violenza e della menzogna, attraverso la pratica del male, ci riporta irresistibilmente a Hitler. In Europa, l’ascesa di movimenti classificati come di estrema destra ci costringe a rivisitare la nostra storia.
Eppure le società occidentali non assomigliano più molto a quelle degli anni Trenta. Sono vecchie, consumistiche, orientate ai servizi, le donne sono emancipate e lo sviluppo personale ha sostituito l’affiliazione politica. Qual è il legame con le società degli anni Trenta: giovani, frugali, industriali, operaie, maschili e con tessera? È questa distanza socio-storica che mi ha portato a considerare, fino a ora, a priori invalido il parallelo tra l'”estrema destra” del presente e quelle del passato. Ma le dottrine politiche esistono, oggi come ieri, e non possiamo semplicemente postulare l’impossibilità, ad esempio, di un nazismo dei vecchi, di un franchismo dei consumatori, di un fascismo delle donne emancipate o di un LGBT della Croce di Ferro.
È giunto il momento di confrontare le dottrine del nostro presente con quelle degli anni ’30. Ecco uno schema di come potrebbe apparire uno studio comparativo di cinque fenomeni storici: hitlerismo, trumpismo, netanyahismo, lepenismo. Aggiungerò brevemente il macronismo alla fine. L’estremismo centrista e filoeuropeo che sta portando la Francia al caos ci obbliga a questo esame. Questo estremismo è davvero così centrista?
Sarà un approccio impressionistico, senza alcuna pretesa di completezza o coerenza, il cui scopo è aprire strade, non concludere. Forzo linee e colori per mettere in relazione i concetti tra loro. Esagero deliberatamente, per recuperare o addirittura anticipare una storia che si sta evolvendo rapidamente. Un approccio espressionista sarebbe forse una metafora più appropriata.
Cominciamo con la dimensione generale del razzismo o della xenofobia.
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Dialogo sulla Cina post globalizzazione
Kunling Zhang intervista Pompeo Della Posta
Kunling Zhang, un economista della Beijing Normal University, intervista Pompeo Della Posta, già professore di economia all’Università di Pisa. Il dialogo affronta i nodi dei rapporti tra Europa e Cina nella nuova fase di deglobalizzazione.
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Kunling Zhang: La deglobalizzazione non è una novità di oggi. Alcuni sostengono che i suoi primi segnali possono essere fatti risalire alla crisi finanziaria globale del 2008/09, con la contrazione del commercio mondiale e l’escalation durante la pandemia COVID-19. In base alle tue osservazioni, quali sono i fatti, i modelli e le tendenze nello sviluppo della deglobalizzazione? E quali sono le sue motivazioni?
Pompeo Della Posta: “La crisi finanziaria globale che cominciò nel 2008 può essere considerata senz’altro come uno dei possibili spartiacque che hanno segnato l’inizio del declino del processo di globalizzazione economica e, naturalmente, la pandemia COVID-19 ha ulteriormente chiuso i mercati internazionali e limitato il commercio internazionale. La guerra fra Russia e Ucraina ha poi alimentato il senso di insicurezza in molti Paesi europei (ad esempio riguardo all’approvvigionamento delle fonti energetiche), contribuendo così a deteriorare ulteriormente il quadro della globalizzazione. La differenza con l’attuale fase di slowbalization (come alcuni osservatori, probabilmente ottimisti, preferiscono definirla, piuttosto che deglobalizzazione) è che mentre quegli eventi hanno ridotto (drasticamente, nel caso del COVID-19) la possibilità stessa di intraprendere il commercio internazionale, nella situazione attuale questo è il risultato di una scelta deliberata, operata da governi populisti, solitamente di destra. Questo dimostra chiaramente che la globalizzazione non è inevitabile, come invece diceva Margaret Thatcher proponendo il suo famoso acronimo “TINA” (There Is No Alternative). Questo ci porta alla seconda parte della tua domanda.
I fattori economici hanno certamente giocato un ruolo nel determinare il cambiamento di direzione del mondo.
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Libertà per Marwan Barghouti, libertà per i prigionieri politici palestinesi, libertà per la Palestina
Un appello (in coda le indicazioni per aderire)
In Italia, come nel mondo intero, è vivo e forte un movimento che vuole la pace in Palestina e Israele per aprire la strada a un mondo multipolare, unica soluzione possibile contro il rischio di una catastrofica guerra generalizzata.
Ma nel coloniale “piano di pace” concordato tra Trump e Netanyahu è completamente assente il riferimento alla autodeterminazione del popolo palestinese e a una soluzione che riconosca i diritti politici dei palestinesi.
Al tavolo delle trattative mancano i palestinesi e soprattutto sono assenti le voci di coloro che potrebbero rappresentare con la loro storia l’intera comunità palestinese. Sono donne e uomini che giaccciono da più di vent’anni in galera, in condizioni disumane. Le voci che mancano di più sono quelle di Marwan Barghouti, già leader di Fatah, formazione laica e principale forza dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), e di Amhad Sa’adat, presidente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, organizzazione storica della sinistra palestinese. Barghouti, in particolare, è il leader più amato dai palestinesi e gode del rispetto di tutti i partiti, fazioni e movimenti della Resistenza.
Moltissime azioni possono promuovere la pace e inceppare i meccanismi del genocidio. La Sumud Flotilla, prima, e la Freedom Flotilla, ora, hanno mostrato al mondo che è possibile rallentare la macchina di morte israeliana e svergognare la complicità di tutti i paesi che ancora sostengono Israele, con armi e appoggio diplomatico.
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Alcune riflessioni sulle grandi mobilitazioni per la Palestina
di Fabrizio Marchi
Le grandi, talvolta oceaniche e molto spesso spontanee manifestazioni che si sono svolte in tutta Italia in queste settimane in solidarietà con il popolo palestinese sono ovviamente da salutare molto positivamente. Il fatto che centinaia di migliaia, milioni di persone si riversino sulle piazze per testimoniare il loro sostegno a un popolo martirizzato da un regime razzista e genocida ci dice che c’è tanta gente ancora “viva”, che esiste ancora una potenzialità e una capacità di lotta non sopita. Soprattutto perché si tratta di un tema considerato tabù fino a pochi giorni fa. Criticare infatti le “politiche” criminali dello stato sionista significava e significa in larga parte tuttora essere tacciati di antisemitismo e questo impediva e impedisce a molte persone di pronunciarsi per paura di essere scomunicate, ostracizzate, bollate, appunto, come antisemite. Le mobilitazioni di questi giorni hanno quindi segnato un passaggio importante. Oggi in tanti definiscono apertamente Israele come uno stato terrorista, lo gridano nelle piazze e, addirittura, in televisione alcuni intellettuali ed esponenti del mondo della “sinistra” si sono espressi in modo esplicito in tal senso; fino a poco tempo fa non era possibile. Ma lo hanno potuto fare proprio perché consapevoli che dietro c’è un popolo (e non solo quello di sinistra) che la pensa in quel modo. Da sottolineare anche la grandissima partecipazione alle manifestazioni e ai cortei di giovani e giovanissimi che nonostante il rincoglionimento a cui sono sottoposti da un contesto mediatico e ideologico altamente pervasivo e astuto, confermano di avere ancora una sensibilità e una coscienza critica.
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La finanziarizzazione non è invincibile
di Marco Cattaneo
Consiglio la lettura di un libro pubblicato da pochi mesi, “Prima che tutto crolli” di Luciano Balbo (Longanesi 2025). Contiene parecchie considerazioni illuminanti e centrate sulla finanziarizzazione delle economie, cioè sul predominio dell’establishment finanziario rispetto al sistema produttivo e al sistema economico, sugli effetti negativi che ha prodotto riguardo a diseguaglianze e concentrazione della ricchezza, sul rischio che prima o poi (più prima che poi) inneschi una crisi sistemica.
Consiglio la lettura ma siccome sono un noto rompiscatole (!) segnalo il suo principale (s’intende a mio parere) difetto. Una carenza di interpretazione di alcuni temi macroeconomici, che conduce l’autore a pensare che gli Stati dipendano necessariamente dai mercati finanziari per sostenere i deficit e i debiti pubblici e che la mobilità dei capitali sottragga ai singoli governi la capacità di contrastarli (“se no scappano altrove”).
Per la verità qualche sentore che le cose non stiano esattamente così Balbo ce l’ha: cita la MMT commentando grossomodo che sembrano degli eretici ma forse, probabilmente, hanno delle ragioni. Ma è solo un sentore.
I fatti che, rispetto all’interessante esposizione di Balbo, vanno meglio compresi sono IMHO i seguenti (ben noti ai lettori di questo blog…).
UNO: il deficit pubblico non è un impoverimento del paese che lo genera ma un normale strumento di immissione del potere d’acquisto finanziario, che deve crescere di pari passo con lo sviluppo del PIL nominale.
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Il piano di pace farsa di Trump
di Chris Hedges* - Scheerpost
Non mancano piani di pace falliti nella Palestina occupata, tutti caratterizzati da fasi e tempistiche dettagliate, risalenti alla presidenza di Jimmy Carter. Finiscono tutti allo stesso modo. Israele ottiene inizialmente ciò che vuole – nell'ultimo caso, il rilascio degli ostaggi israeliani rimasti – mentre ignora e viola ogni altra fase fino a quando non riprende gli attacchi contro il popolo palestinese.
È un gioco sadico. Una giostra di morte. Questo cessate il fuoco, come quelli del passato, è una pausa pubblicitaria. Un momento in cui al condannato è permesso fumare una sigaretta prima di essere ucciso a colpi di pistola.
Una volta liberati gli ostaggi israeliani, il genocidio continuerà. Non so quanto presto. Speriamo che il massacro di massa venga ritardato di almeno qualche settimana. Ma una pausa nel genocidio è il massimo che possiamo aspettarci. Israele è sul punto di svuotare Gaza, che è stata praticamente annientata da due anni di bombardamenti incessanti. Non ha intenzione di fermarsi. Questo è il culmine del sogno sionista. Gli Stati Uniti, che hanno fornito a Israele la sbalorditiva cifra di 22 miliardi di dollari in aiuti militari dal 7 ottobre 2023, non chiuderanno il loro oleodotto, l'unico strumento che potrebbe fermare il genocidio.
Israele, come sempre, darà la colpa ad Hamas e ai palestinesi per non aver rispettato l'accordo, con ogni probabilità un rifiuto – vero o falso – di disarmare, come previsto dalla proposta. Washington, condannando la presunta violazione di Hamas, darà a Israele il via libera per continuare il suo genocidio, realizzando la fantasia di Trump di una riviera di Gaza e di una "zona economica speciale", con il suo trasferimento "volontario" dei palestinesi in cambio di token digitali.
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Segnali di insubordinazione da parte di Israele?
di Antonio Magariello
Quantunque la stampa nostrana – e, a onor del vero, anche quella straniera – sovrabbondi di articoli sulla sororale relazione tra Trump e Netanyahu, salutando con giubilo in questi giorni l‘avveramento della tanto agognata, e più volte differita, pace in Palestina, a ben vedere è stato eclissato un aspetto decisivo dell’evoluzione di questo rapporto: il progressivo sbilanciamento a vantaggio del secondo e a scapito del primo.
Diversi nodi problematici erano già vistosamente emersi con la precedente amministrazione a stelle e strisce. Basti pensare per esempio ai duri e accorati – rivelatisi poi del tutto inefficaci – ammonimenti che Biden aveva rivolto a Netanyahu, sperando di dissuaderlo dal varcare la “linea rossa” rappresentata da Rafah; oppure alla ridicola minaccia americana di non fornire bombe di grandi dimensioni, cui ha fatto seguito la replica secca del primo ministro: “se necessario combatteremo da soli e con le unghie”.
Con la vittoria presidenziale di Trump, il quale aveva proclamato durante la sua campagna elettorale di portare a termine tanto la guerra russo-ucraina quanto il massacro palestinese (da questi eufemisticamente definita guerra contro Hamas), pareva configurarsi uno spazio, sebbene difficile e con molti caveat, per la trattazione quanto meno di una tregua all’immane eccidio in Medioriente.
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Nessun governo senza la resistenza: il futuro di Gaza nel dopoguerra e il crollo delle illusioni straniere
di Mohammad al-Ayoubi, thecradle.co
Mentre le potenze occidentali promuovono la tecnocrazia a scapito della sovranità, i movimenti di resistenza palestinesi avvertono che non può esserci ricostruzione senza liberazione
All’indomani della devastante guerra a Gaza, la domanda più urgente non è più quella di un cessate il fuoco o della ricostruzione, ma di chi governerà l’enclave.
Si tratta di una lotta per il significato, la legittimità e la sovranità. Il futuro di Gaza sarà plasmato dalla sua gente o dalle stesse potenze straniere che hanno contribuito a distruggerla sotto la bandiera della “salvezza”?
Ogni volta che si aprono le porte della “ricostruzione” e degli “aiuti”, le finestre della sovranità vengono chiuse di colpo. Ciò che si palesa è uno spettacolo coloniale ricorrente: un ordine politico palestinese rimodellato sotto la supervisione straniera, dove il “realismo politico” viene promosso come sostituto della giustizia e la “tecnocrazia” viene commercializzata come una sterile alternativa alla resistenza.
Il giorno dopo
Ayham Shananaa, un alto funzionario di Hamas, ha dichiarato a The Cradle che l’esito della guerra non può essere misurato secondo gli standard dei tradizionali conflitti tra stati, ma deve essere inteso come “una lotta esistenziale tra un popolo in cerca di liberazione e un’occupazione sostenuta dall’Occidente”.
Egli sostiene che la sopravvivenza stessa di Hamas nell’arena politica dopo due anni di guerra costituisce una vittoria strategica, poiché Israele non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi dichiarati, nonostante un sostegno internazionale senza precedenti.
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Colonialismo accelerato: un piano contro la Palestina
di Alberto Toscano
Qual è la logica del piano Trump su Gaza? La costruzione di spazio meticolosamente controllato e depoliticizzato, cioè pacificato, per la circolazione, il consumo e la produzione del capitale. Come spiega Alberto Toscano nell'articolo che pubblichiamo oggi, la creazione della «Nuova Gaza» servirebbe a trasformare la Striscia nel «centro dell’architettura regionale filoamericana», assicurando potere economico, politico e militare sul flusso di energia, capitale e merci. Un'operazione che integra il genocidio in corso in un disegno neocoloniale più ampio e lo rende funzionale al nuovo regime di accumulazione primitiva.
Così, per Trump, Netanyahu e Blair, «a Gaza si può costruire una riviera solo sulle ossa dei morti».
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Questi predoni del mondo, dopo aver distrutto la terra con le loro devastazioni, stanno ora saccheggiando l’oceano: spinti dall’avidità, se il loro nemico è ricco; dall’ambizione, se è povero; insaziabili tanto verso l’Oriente quanto verso l’Occidente: l’unico popolo che contempla la ricchezza e la miseria con la stessa bramosia. Saccheggiare, massacrare, usurpare con falsi titoli — questo lo chiamano impero; e dove fanno un deserto, lo chiamano pace.
Tacito, Agricola
Ciò che è bello di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono. Nulla la distrae; nulla le toglie il pugno dalla faccia del nemico. Non le forme dello Stato palestinese che costruiremo, fosse anche sul lato orientale della luna o sul lato occidentale di Marte, quando sarà esplorato.
Mahmoud Darwish, Silence for Gaza
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Trump e l’idea della guerra come valore
di Alessandra Ciattini
Le inquietanti dichiarazioni fatte dal presidente Usa e dal segretario Pete Hegseth a Quantico ripropongono una pericolosissima concezione della guerra, che nel corso di secoli il diritto internazionale aveva tentato di superare. Inoltre, ancora una volta presentano come invincibili le forze militari Usa, quasi assimilate ai protagonisti delle pellicole commerciali hollywoodiane, nonostante la stessa intelligence riconosca la loro inferiorità in vari campi.
È oggi assai difficile comprendere se tutta l’aggressività presente nei discorsi di Trump, definito da qualcuno “il buffone apocalittico”, o di Pete Hegseth, ora segretario del meno ipocrita Dipartimento della guerra, sia solo frutto di un bluff o se riveli una qualche folle concretezza o consistenza. Certamente si vuole impressionare e terrorizzare con metodi diversi da quelli dei cerimoniali nazisti costellati da lugubri svastiche su fondo rosso, con le coreografie elaborate dall’architetto Albert Speer; metodi che sono la volgare secrezione della rozza cultura di massa televisiva e cinematografica di matrice statunitense. Certamente si vuole convincere il pubblico con un pugno allo stomaco che gli Usa sono sempre forti, battendo i piedi e strepitando, come fanno i bambini quando non vengono presi in considerazione. Probabilmente uno psicoanalista direbbe che tutta la retorica bellicista, strombazzata nella mega riunione di generali e ammiragli a Quantico (Virginia), serve anche a persuadere gli stessi parlanti che sono invincibili, pur essi costatando contraddittoriamente nello stesso tempo che il loro esercito è in decadenza, che bisogna far rinascere lo spirito guerriero, che evidentemente è scemato, anche se non per colpa loro.
Per comprendere se effettivamente tutta questa retorica bellica, che giunge a prospettare una guerra senza limiti in un mondo in cui solo il più forte ha ragione, occorrerebbe capire fino a che punto le minacce lanciate in questi insoliti consessi, in cui ci si attende anche di essere applauditi, abbiano una base concreta, se per esempio la Russia è effettivamente una “tigre di carta”, proverbiale espressione impiegata da Mao Zedong per definire i nemici reazionari della Cina e che stranamente il presidente Usa ha evocato, forse non sapendo chi stava citando.
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