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Catalogna e non solo. Per una "secessione di classe" contro gli opposti nazionalismi

di Sebastiano Isaia

Un commentatore politico (forse Antonio Polito) ha parlato di «rivoluzione dall’alto» a proposito del processo secessionista in atto in Catalogna; io toglierei la «rivoluzione», che non c’entra assolutamente niente con la cosa di cui parliamo, e lascerei senz’altro «dall’alto», anche se è un “alto” ben nascosto dalla fenomenologia di massa dell’evento qui rapidamente analizzato. D’altra parte nel XXI secolo il marketing – commerciale e politico – ci ha abituati ad associare la parola “rivoluzione” alle cose più stupide e banali di questo mondo.

Qualche giorno fa un intellettuale di “destra” (forse Pietrangelo Buttafuoco) ha scritto da qualche parte che «la secessione è un lusso che possono permettersi solo i ricchi». Pensava naturalmente alla Catalogna, ma anche alle regioni “leghiste” dell’Italia del Nord, Veneto e Lombardia in primis. Se prendiamo in considerazione l’Europa occidentale, le cose stanno proprio così, e anche nell’ex Yugoslavia furono soprattutto le ragioni più ricche (o meno povere) e socialmente più dinamiche (Croazia e Slovenia) a spingere l’acceleratore dell’indipendentismo nazionale che mandò in frantumi la creatura geopolitica assemblata da Tito alla fine della Seconda guerra mondiale, come esito di quella carneficina. Io stesso nel precedente post dedicato alla Catalogna sottolineavo l’aspetto “leghista” della vicenda. Naturalmente sarebbe sbagliato cancellare le peculiarità storico-sociali degli eventi e delle “problematiche” qui ricordati, ma certo è che tirando il filo della “struttura”, degli interessi materiali, qualcosa di vero e di significativo viene sempre a galla.

La Catalogna oggi vanta condizioni capitalisticamente invidiabili, sempre relativamente parlando: con il 16% della popolazione spagnola (7 milioni e mezzo di abitanti su un totale di oltre 47 milioni) la Catalogna è fra le principali mete turistiche della Spagna, ha un Pil pari a quasi il 20% del Pil spagnolo, vanta circa il 23% della produzione industriale spagnola (ospita anche le fabbriche automobilistiche della Seat e della Nissan), è sede di quasi la metà (il 46%) delle imprese estere che investono in Spagna (si parla di 7.000 multinazionali estere), ha un reddito pro capite più alto della media nazionale e forse anche di quella continentale (27.663 euro contro i 24.100 della media spagnola), ha una tasso di disoccupazione inferiore a quello nazionale (circa il 13,2% contro il 17,2%), e molto altro ancora. La squadra ricca e vincente del Barcellona sintetizza plasticamente l’orgoglioso spirito agonistico della Catalogna di oggi.

Certo, non tutti i catalani possono vantare stipendi milionari come quelli che allietano le fatiche dei campioni del Barça, ma questo è tutto sommato un dettaglio, diciamo, e poi non voglio scivolare nella facile demagogia: da sempre disprezzo con tutte le mie forze i professionisti dell’invidia sociale. «Nessuno è contro la Spagna o pensa che la Spagna sia il nemico. Perché un indipendentista non potrebbe giocare con la Spagna? Siamo tutti uguali, vogliamo tutti giocare e vincere. La Spagna e la Catalogna sono come padre e figlio, dove il figlio a 18 anni chiede di andare via di casa. Bisogna dialogare. La cosa più importante sono il rispetto e il dialogo». È quanto ha dichiarato il catalano Gerard Piquè, giocatore simbolo del Barcellona e pezzo forte della Nazionale spagnola. Quasi mi commuovo. Ho detto quasi. A quanto pare, Re Felipe VI e il Premier Rajoy non si sono commossi neanche un po’ ascoltando i discorsi accomodanti di molti indipendentisti catalani “moderati”; forti dell’appoggio ricevuto dall’Unione Europea, essi invece intendono mettere senz’altro con le spalle al muro la Generalitat ribelle, magari nel tentativo di spaccare e indebolire il fronte secessionista. Ieri il quotidiano catalano Avanguardia scriveva che la dichiarazione unilaterale di indipendenza avrebbe esiti catastrofici per la Catalogna, e che la strada da seguire è quella del dialogo, contro gli opposti estremismi di Madrid e di Barcellona. Quanto mi piacerebbe vedere i miei “colleghi di classe” spagnoli e catalani mandare a…, a quel paese, diciamo, le opposte fazioni sovraniste! Lo so, è una speranza destinata a rimanere delusa.

I catalani che sostengono la secessione da Madrid non si chiedono se il successo della loro regione (pardon, nazione) abbia anche a che fare con il recente passato della Spagna (scrive Aldo Cazzullo: «La Catalogna non è una terra oppressa da un conquistatore. È la regione più ricca della Spagna, e lo è diventata anche grazie al sudore e talora al sangue degli operai andalusi, dei muratori estremegni, dei manovali manchegos, dei lavoratori venuti dalle regioni più povere»); o se l’attuale relativo “benessere” possa durare fuori dal vigente quadro nazionale, e questo semplicemente perché essi sono concentrati su come custodire e possibilmente migliorare questa posizione. Tra l’altro essi confidano, non si sa quanto fondatamente, su un rapido riconoscimento del fatto compiuto da parte dell’Unione Europea, la sola cornice geopolitica possibile per una Catalogna capitalisticamente avanzata. Ma i catalani più radicalmente indipendentisti (si possono trovare a “destra” come a “sinistra”) guardano piuttosto alla Russia, alla Cina, al Venezuela come possibili “alleati”.

Ora, che c’è di male in tutto questo? Assolutamente niente! C’è forse qualcosa di male nel secessionismo lombardo-veneto, o in quello, tanto per dire, siciliano? Io credo di no, e non darò nessun contributo alla conservazione del vecchio status quo nazionale, che si tratti di Spagna o di Italia, di Madrid o di Roma. Sono piuttosto refrattario, per dirla gentilmente, ai richiami della patria.

Dimenticavo però di aggiungere al ragionamento questa piccola precisazione: non c’è nulla di male se tutto questo è considerato dalla prospettiva del successo capitalistico e della dinamica capitalistica, considerata in tutta la sua dimensione sistemica (economica, politica, geopolitica), e non a caso nel già citato post sulla Catalogna ho richiamato il concetto di sviluppo ineguale e ho citato Gianfranco Miglio, il cosiddetto teorico della Lega bossiana. Se la cosa viene invece considerata dalla prospettiva dell’autonomia politica, ideale e psicologica delle classi subalterne, essa assume un aspetto completamente diverso, ossia l’aspetto di un ennesimo “incasinamento” di quella prospettiva, visto che si chiede al proletariato catalano (o lombardo-veneto) di sottoscrivere un nuovo patto sociale, ossia la sua resa incondizionata dinanzi agli interessi nazionali declinati in salsa catalana, e magari lo si inganna con la prospettiva di più alti salari e di un più ricco welfare, frutto del mancato prelievo fiscale da parte del «parassitario e ladro» Stato centrale: «Madrid, ladrona, la catalogna non perdona!».

Al tempo del referendum sulla Brexit i politici inglesi che sostenevano l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione parlavano di una drastica diminuire dell’immigrazione, di uno spettacolare aumento dell’occupazione e di un netta riduzione dei costi del sistema sanitario e del welfare in generale, in caso di successo. Il “popolo” abboccò all’amo degli interessi nazionali: «Prima la Gran Bretagna!». E ci ricordiamo la vicenda greca ai tempi del referendum del 5 luglio 2015 sul famigerato Terzo Memorandum della Troika? Sempre nuovi specchietti per le allodole appaiono all’orizzonte delle classi subalterne, soprattutto in tempi di crisi sociale. Per la lotta di classe c’è sempre tempo! E poi, dove le mettiamo le “tappe intermedie”? Lo riconosco, sono un proletario impaziente.

Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso fu il nazionalismo andaluso a venire incontro agli interessi del capitale spagnolo minacciati dalla lotta dei contadini poveri dell’Andalusia e dei portuali di Cadice, assorbendo e deviando le energie della ribellione sociale verso le sabbie mobili delle rivendicazioni identitarie. Nazionalismo indipendentista, repressione poliziesca e militare, gestione (finalmente!) democratica del conflitto sociale: e il gioco è fatto. Analogo discorso, mutatis mutandis, si può fare per i Paesi Baschi.

Gli interessi nazionali, non importa se declinati da Madrid o da Barcellona, da Milano o da Roma, corrispondono sempre e puntualmente agli interessi delle classi dominanti, ed è per questo che l’anticapitalista si batte contro ogni forma di nazionalismo, di patriottismo e di sovranismo. Nel caso di specie, secessionisti e unionisti per me pari sono. Per come la vedo io, bisogna piuttosto lavorare per la secessione dell’umanità dal Capitalismo. Tappa intermedia: la secessione delle classi subalterne dall’ideologia dominante che, come diceva quello, è l’ideologia delle classi dominanti.

Mi fanno ridere quegli ultrasinistri, catalani e non, che sventolano La Questione nazionale e coloniale della Terza Internazionale per sostenere le ragioni secessioniste della Catalogna, dimostrando in tal modo che per loro il materialismo storico è pura ideologia e fraseologia salottiera da mettere al servizio degli interessi nazionali di questa o quella fazione capitalista, nazionale e sovranazionale.

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