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Non è flessibilità, è conflitto

di Marco Palazzotto

‘Conflitto’ e ‘lotta di classe’, due termini ormai scomparsi dalla nomenclatura scientifica italiana, considerati retaggio di una cultura marxista appartenente al secolo scorso, oggi li leggiamo in Non è lavoro, è sfruttamento, il libro della giovane studiosa siciliana Marta Fana, pubblicato di recente da Laterza (14,00 €, 173 pagine).

I lavoratori precari, protagonisti di questo libro, dimostrano come l’ulteriore riduzione delle tutele, grazie all’introduzione di norme di sfruttamento come l’alternanza scuola-lavoro, o i voucher o la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, non sia il frutto inevitabile dell’onda lunga della crisi del 2008 e della necessità di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro per migliorare la tanto agognata produttività italiana. È invece il risultato di un processo conflittuale tra classi sociali che caratterizza anche questa fase cosiddetta neoliberista. Fase cominciata con il monetarismo di fine anni Settanta, passando per l’era Reagan e Thatcher fino ai nostri giorni con la crisi Subprime e le recenti crisi bancarie europee. Tale orientamento ideologico, favorevole ad un mercato senza regole e senza autorità pubblica, di fatto è stato caratterizzato da un intervento massiccio degli Stati, che hanno favorito maggiormente i percettori di profitto nel conflitto distributivo, come rilevato nel libro.

L’inchiesta sul lavoro precario italiano dell’autrice è uno dei pochi studi in Italia ad affrontare con estrema precisione il problema dello sfruttamento lavorativo del nostro paese. Insieme a Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi dei Clash City Workers, rappresenta un’ottima guida per sfatare diversi miti sull’economia italiana, coltivati anche a sinistra.

Il luogo comune principe del pensiero convenzionale, smentito dai dati statistici puntualmente riportati, è quello per cui la flessibilità del lavoro crea aumenti di produttività, influenza positivamente l’occupazione e la dinamica degli investimenti privati. Nulla di tutto questo però è mai successo in Italia negli ultimi anni. Il nostro è il paese in cui si investe meno, sia nel settore privato che nel settore pubblico. La media dell’età delle attrezzature e macchinari industriali è la più alta della zona Euro, mentre il tasso di disoccupazione rimane ancora a due cifre (vicino al 12%), il tasso degli inattivi è in aumento (più del 35%). I provvedimenti legislativi che compongono il cosiddetto Jobs act non hanno aumentato i contratti a tempo indeterminato (influenzati invece dagli sgravi contribuitivi alle imprese), mentre di contro i contratti precari e i voucher, prima della loro cancellazione, sono esplosi.

E ancora, i dati ci dicono che l’Italia è un paese in fase di deindustrializzazione, ancorché tra i primi tre paesi in Europa nel settore manifatturiero. Aumentano i lavori precari soprattutto in settori a basso valore aggiunto come la logistica, gli altri servizi all’industria, il turismo, la ristorazione. La studiosa siciliana ci fornisce un quadro del mercato del lavoro italiano desolante, in cui, grazie ai governi di centro destra e centro sinistra che si sono avvicendati durante l’ultimo trentennio, le tutele dei lavoratori sono state distrutte. L’Italia rappresenta il paese che, nell’area Euro, ha maggiormente flessibilizzato il mercato del lavoro. Ce lo conferma l’OCSE con l’indice di protezione degli impieghi (Emiliano Brancaccio in Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia). Di contro l’economia italiana è nel guado e non riesce a uscire dalla crisi decennale. Assistiamo a un processo di “mezzogiornificazione”, come lo definisce Marta Fana mutuando un termine usato da Augusto Graziani alcuni anni fa e poi da Paul Krugman recentemente.

Se guardiamo però ai rapporti tra industria-finanza-imperialismo e mercati dentro la UE, e al ruolo storico di Francia e Germania, non sarebbe corretto parlare di “mezzogiornificazione”, come rileva Joseph Halevi (vedi al riguardo Non esistono mezzogiornificazioni qui): l’Italia e i paesi del mediterraneo sono sempre stati ben radicati nell’area del sottosviluppo europeo. Insomma, non è la crisi che sfortunatamente si è abbattuta su di noi, ma è il conflitto di classe, bellezza!

Siamo in una situazione che Karl Marx descrive bene nel primo libro del Capitale, che proprio quest’anno compie 150 anni. Per aumentare il plusvalore relativo nel processo di accumulazione, le classi sociali che detengono i mezzi di produzione hanno scelto la via dell’intensificazione del lavoro attraverso non l’innovazione, ma l’organizzazione produttiva. La fabbrica modello FIAT, grazie anche al sostegno dei sindacati confederali (tranne la Fiom), con le nuove forme contrattuali e organizzative, riduce i tempi “morti” delle pause e il processo produttivo si intensifica, così che può essere estratto maggiore plusvalore dalla stessa giornata lavorativa. Situazione similare accade dentro i magazzini di Amazon, in cui i lavoratori devono correre tantissimo affinché le consegne dei clienti possano essere soddisfatte in pochissime ore. Tutto viene cronometrato e controllato dai software. O ancora, le cassiere dei supermercati che non possono andare al bagno o bere dell’acqua durante il turno.

Inoltre, assistiamo anche ad un aumento della massa di plusvalore assoluto grazie alla crescente precarizzazione e messa al lavoro gratuito con l’alternanza scuola-lavoro, con lo sfruttamento del lavoro “volontario” dei migranti, con la moltiplicazione dei lavoretti quotidiani. Come succede per altri versi in Germania con le riforme Hartz, anche in Italia oggi per guadagnare 1.000 euro al mese occorre svolgere 2/3 lavori.

​In breve, il libro di Marta Fana è un pugno nello stomaco che ci fa riflettere sulle basi con le quali si sta costruendo la società di domani fatta di sfruttamento, precarietà, ignoranza, incertezza per le nuove generazioni.

A questo punto non può che ricorrere la celebre espressione di Rosa Luxemburg: “Socialismo o barbarie”.

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