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Benedetto Vecchi, “Il capitalismo delle piattaforme”

di Alessandro Visalli

Il libro di Benedetto Vecchi è del 2017 è in sostanza un breve e compatto atto di accusa del lato oscuro della modernità. Si tratta di temi sui quali si ritorna spesso, da diversi punti di vista, nello sforzo di rendere possibile una comprensione dei fenomeni che accadono in piena luce, letteralmente sotto i nostri piedi, le nostre mani e i nostri occhi.

Per Vecchi, giornalista del “Manifesto” e direttore delle sue pagine culturali, nell’organizzazione a rete della nostra società, e nella cosiddetta “sharing economy”, si manifesta un processo globale di trasformazione del modo di produrre che presenta nel suo insieme i caratteri di una controriforma. Insieme si tratta di una risposta alla crisi degli anni settanta (il cui motore economico è descritto, con il rendimento decrescente delle politiche di keynesismo dall’alto sulle quali era stato impostato il compromesso del dopoguerra e la crisi fiscale che ne deriva) e quindi all’affermazione di quello che Streeck chiama “Stato di consolidamento”, e una risposta al conflitto sociale di quegli anni. Mentre cresce lo Stato di consolidamento, e le sue strutture di debito affidate alla finanza, e si erode progressivamente sia la capacità di spesa dei lavoratori, sia il loro stesso numero, con il crescere della disoccupazione e della sottoccupazione (individuando con questo termine il lavoro precario), indicano la soluzione l’automazione, diffusa in tutti i settori e non solo nella stretta produzione, sotto l’etichetta di “intelligenza artificiale”, e le forme di lavoro servile rinnovate.

Questa nuova struttura porta ad unire forme di comunicazione senza vincoli e capillari con forme estremamente sofisticate di controllo sociale in grado di assorbire entro di sé l’intero universo della produzione di “verità” ed informazione (come si legge, ad esempio, in questo interessante articolo sull’impatto di Facebook).

Ne deriva una frammentazione e dispersione senza precedenti del processo produttivo, riconfigurando la divisione tecnica del lavoro e le sue gerarchie. Sotto questo profilo l’intera Information Technology è una sorta di risposta dei capitali, coerente con la loro logica interna, ai conflitti sociali ed alla sfida portata alla loro capacità di comando (abbiamo descritto a questo fine le lotte operaie nella Fiat e leggeremo il testo di Trentin “I sindacati dei consigli”).

Il ‘capitalismo delle piattaforme’, che è l’ultima versione di questa rivoluzione è allora in certo senso la risposta dei capitali, ovvero della necessità di valorizzazione, alla conseguenza necessaria della mossa compiuta tra gli anni settanta e novanta: la sovrapproduzione (o il sottoconsumo). Nella progressiva erosione della capacità di sostenere i consumi attraverso il lavoro, dopo lo sforzo di surrogarli con il credito dei primi anni duemila (terminato nella crisi del 2008), prendono sempre maggiore spinta soluzioni, strettamente controllate da pochi operatori monopolistici mondiali, che fanno virtù del sottolavoro e della debolezza e dipendenza di molti per mettere a sistema le loro residue competenze e la conoscenza diffusa di cui sono depositari.

Si tratta di una soluzione che mette al lavoro, valorizzandola, la conoscenza e la capacità collettiva di costruire relazioni sociali e saperi. Passando per una critica della tesi di Mason (“Postcapitalismo”), Vecchi evidenzia il carattere di cattura e estrazione di cooperazioni sociali preesistenti e inserite nelle strutture della persona e sociali, effetto degli anni nei quali è stata diffusa conoscenza, cultura, cooperazione. Si tratta, in certo senso, quindi di soluzioni parassitarie e residuali.

Ciò che viene messo a valore in schemi come Uber, Airbnb e anche in piattaforme di vendita come Amazon, a ben vedere, è infatti la massa dei dati, creata come tale, privatizzata ed incasellata, che costituisce l’autentica fonte del valore. Analizzando i contributi di Nick Srnicek (“Capitalismo digitale”, o “Inventare il futuro”) viene in luce un modello di produzione che accentra radicalmente le funzioni di comando, insieme a quelle strategiche (ristrette a ideazione e progettazione), e decentra radicalmente tutte quelle a basso contenuto di conoscenza: il “Modello Nike”, insomma. Ma viene in luce più specificamente che sono i dati ad essere la materia prima reale, e che questo riguarda ogni attività di valorizzazione. Il vero vantaggio competitivo, ricercato a prezzo di una immane capacità di attrazione di risorse di capitale, è la capacità di appropriarsi di informazioni e farne dati posseduti in via esclusiva. Ma questa particolare produzione di valore non è solo cumulativa, è creata dalla massa e scompare altrimenti.

Il vantaggio esiste quindi solo se monopolistico.

La posta di schemi come Uber è allora molto semplice: sfruttare e mettere a valore, per dare redditività ai capitali investiti che sono purissimamente finanziari, i bacini di lavoro debole che si sono formati. E specificamente sfruttare l’asimmetria informativa che è determinata dall’essere tutte le relazioni mediate dalla piattaforma governata da algoritmi. La cosiddetta “gig economy” si nutre di questa sorta di neotaylorismo digitale e nel comando impersonale e panoptico che ne deriva. In altre parole bisogna riconoscere che “il sistema di macchine, così come gli algoritmi che gestiscono il flusso di informazioni del processo lavorativo, sono una vera e propria tecnologia di controllo sociale che, a differenza del Panopticon di Jeremy Bentham, modello delle prime manifatture, prevede un controllo dei molti sui molti” (p.46). Un comando determinato da algoritmi, che spesso si aggiornano per loro dinamica, “apprendendo”, indica non tanto la messa a sistema ed a disposizione di lavoro “indipendente” (e tanto meno “volontario”), quanto la gerarchia verso la quale non si può neppure negoziare implicitamente una dinamica “servo/padrone”, perché è compiutamente astratta, impersonale, inattingibile.

Qui la questione va molto oltre alla, pur utile, suggestione di Lanier in “La dignità ai tempi di internet”, quando chiede che quelli che chiama “i server sirena”, di Amazon, Facebook, Apple, restituiscano il valore che accumulano, mettendo insieme le informazioni prodotte da ognuno. Va anche oltre le proposte più radicali di Jerry Kaplan che leggeremo (“Le persone non servono” e “Intelligenza artificiale”). Ciò che è in gioco, come sempre, è il potere di determinare il mondo nel quale cu troviamo a vivere.

Si può dire che sia il semplice effetto degli ‘spiriti animali’ del capitalismo (e di quello ‘spirito’ per eccellenza in esso che è la dinamica propria della lotta tra capitali per la valorizzazione marginalmente più elevata in senso astratto, ovvero misurabile) che lasciati liberi nell’epoca del post-fordismo svelano oggi la loro ferocia senza volto. Ferocia che ha la forma dell’individuo solo ed organizzato da regole che non è in grado di interpretare e tanto meno vedere, incorporate nel codice.

Di fatto gli uomini, la cui intera vita diventa misurabile, astratta e quindi reificata, si trovano ad essere appendici delle procedure automatiche che governano l’intero modo di produzione. In fondo la pretesa della Unione Europea, nella versione post-1989 uscita da Maastricht, di depoliticizzare il governo riconducendolo a regole automatiche ed a gestori indipendenti, è a pieno titolo parte dello spirito del tempo che nel capitalismo delle piattaforme, illustrato da Vecchi, si manifesta.

Occorre riprendere la critica, e la lotta.

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