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effimera

Quarantennale del ‘77

Fra silenzi assordanti e possibili nuovi orizzonti di comprensione

di Alberto Pantaloni

Nell’anno del suo quarantennale, appena trascorso, sinceramente ci si aspettava molto più interesse storiografico e culturale sul Movimento del ’77 – e invece, a occhio e croce, abbiamo assistito a una riflessione molto più sottotono (e sottovoce) rispetto a quella che aveva caratterizzato il trentennale dieci anni fa. Decisamente poche (rispetto alle aspettative) sono state le pubblicazioni andate in stampo sull’argomento e tra queste alcune sono ancora opere memorialistiche, sicuramente utili sul piano della comprensione delle ragioni e delle scelte delle donne e degli uomini che diedero vita all’ultimo grande movimento politico di massa del XX secolo in Italia (penso al volume di Oreste Scalzone curato da Pino Casamassima, a quello sull’Autonomia Operaia romana a cura di D’Ubaldo e Ferrari e a quello di Nanni Balestrini e Tano D’Amico[1]), ma che difficilmente possono, al di là delle intenzioni degli autori, favorire una migliore problematizzazione del fenomeno.

Un rischio di “autoreferenzialità” che è stato invece evitato da altri due protagonisti e testimoni del Movimento, pur con scelte editoriali diverse: se Vincenzo Miliucci ha preferito far parlare direttamente i documenti[2], Gianfranco Manfredi ha tentato di rappresentare la natura magmatica non solo di un movimento, ma anche (e forse soprattutto) di un intero anno, ritenuto dall’autore seminale di molto di quello che sarebbe successo dopo[3].

L’unico testo che ha cercato sia di fare il punto sullo stato delle analisi e delle interpretazioni sul ’77, sia di definire e sistematizzare i principali temi e questioni da approfondire dal punto di vista degli studi è stato sicuramente quello di Alessio Gagliardi[4], mentre particolarmente interessante si è rivelato lo studio sulla rivista “A/Traverso” proposto da Luca Chiurchiù[5].

Comunque, pur nel sostanziale disinteresse della stampa e della radiotelevisione mainstream (se si escludono lo speciale de “il manifesto” e un paio di trasmissioni mandate in onda su RaiStoria), non poteva mancare la solita operazione giornalistica strumentale (a fini commerciali) a cura, come era stato già nel 2007, del giornalista de “la Repubblica” Concetto Vecchio, il cui volume sulla morte di Giorgiana Masi predilige (citando Gaber) il «gusto per la lacrima» e un certo vouyerismo provocatorio, ma sicuramente non la rigorosa ricerca e ricostruzione storica, vincolandola alla mera verità giudiziaria (e sappiamo benissimo quanto molto spesso le due “verità” non collimino affatto).

Insomma, alla fine del 2017, la comprensione storica di un fenomeno così complesso e controverso come quello del Movimento del ’77 si è rivelata ancora un’operazione non facile, e ciò non solo per le difficoltà dovute a un ambiente politico-culturale come quello italiano, stretto fra volontà di presentazione demonizzatrice e apocalittica da un lato e reazione spesso apologetica e autoreferenziale dall’altro (soprattutto la prima) di questo segmento di storia repubblicana. Esistono degli ostacoli più oggettivi, profondamente intrinsechi alla storia di questo movimento di protesta. Tali ostacoli, come ha ricordato bene Luca Falciola[6], stanno nella frammentazione e nella sovrapposizione delle esperienze, nella diversità dei linguaggi e degli orizzonti culturali, nella contraddittorietà delle posizioni politiche espresse. Una dialettica di non immediata comprensione che va studiata a fondo, pena il ritornare a visioni semplicistiche che rischiano di appiattire il movimento, nel bene o nel male, su un aspetto piuttosto che su un altro.

Peraltro, l’abbondare di documentazione memorialistica e di fonti orali (per quanto prezioso), senza un’azione rigorosa di discernimento e di critica scientifica, rischia solo di aumentare la confusione. Per questo gli studi sulle declinazioni territoriali del movimento sono particolarmente preziose, perché aiutano ad evitare quella “reductio ad unum” del fenomeno e ne permettono una maggiore e più profonda comprensione. D’altronde, il grande storico francese Marc Bloch ci insegna che, per osservare meglio il reale, quest’ultimo va scomposto in una specie di «gioco di fari incrociati, i cui fasci di luce si combinano e si compenetrano costantemente l’un l’altro[7]». Se, quindi, gli osservatori locali e tematici rivestono una particolare importanza nella comprensione del “fenomeno ‘77”, particolarmente importanti sono stati i convegni che si sono tenuti a Firenze e a Forlì alla fine dello scorso anno[8].

All’interno della una due giorni di studi di Firenze (30 novembre e 1° dicembre scorsi) si è cercato di tracciare delle linee interpretative e di ricerca attraverso le quali tentare di superare quello che Monica Galfrè ha definito il «difficile rapporto con la storia»: dal rapporto di appartenenza/alterità (anche generazionale) del fenomeno al complesso “lungo ‘68” che si è dipanato negli anni Settanta (Simone Neri Serneri) alle sue capacità di anticipare le “novità” degli anni successivi (Barbara Armani); dal contradditorio rapporto che il femminismo ebbe con il resto del movimento (Paola Stelliferi) alla “crisi della società del lavoro” (Alessio Gragliardi); dagli interrogativi sul cosiddetto “riflusso” del movimento (Anna Tonelli) alle influenze che quest’ultimo ebbe anche sui giovani di destra (Luca Falciola); dalla rappresentazione che del movimento ebbe il Pci (Valentina Casini) al tema della violenza e della repressione (Marco Grispigni, Andrea Baravelli ed Enzo Fimiani), fino alla percezione che di questo movimento si ebbe all’estero, particolarmente in Francia (Roberto Colozza).

Dentro questo ricco programma, particolarmente interessante è stata la sessione dedicata alle esperienze territoriali: gli interventi su Genova (Davide Serafino), Firenze (Andrea Tanturli), Torino (Alberto Pantaloni), Bergamo (Roberto Villa), Padova (Andrea Baravelli) e Roma (Domenico Guzzo), insieme a quello sui Circoli del proletariato giovanile a Milano, Torino e Roma (Luca Cirese) hanno evidenziato che, sebbene siano indiscutibili la centralità politica del movimento romano (sia dal punto di vista delle lotte, sia da quello della violenza) e quella culturale di quello bolognese – dai quali gli altri spezzoni locali non hanno potuto prescindere -, i «’77 periferici» abbiano avuto caratteristiche spesso distinte, dovute a differenti fattori. Dai tessuti produttivi fortemente diversi fra loro (basti pensare a Genova con la sua industria naval-siderurgica di stato e a Torino capitale dell’industria automobilistica, ad esempio) al ruolo – per così dire – “seminale” avuto dalle differenti organizzazioni della sinistra extra-parlamentare e rivoluzionaria nei contesti locali (Lotta Continua a Torino e Bergamo, le differenti componenti dell’Autonomia Operaia a Padova, Milano e Roma); dall’influenza di culture politiche come quella cattolica (Bergamo) all’importanza di fenomeni di organizzazione giovanile totalmente autonomi dai “gruppi” (come l’esperienza dei Circoli milanesi). Lo stesso epilogo del movimento e l’approdo di molti/e suoi protagonisti e partecipanti al fenomeno della lotta armata ha declinazioni, tempi e dinamiche profondamente diversi, tanto che anche dal punto di vista delle sigle si produce una netta divaricazione (con Prima Linea maggiormente protagonista a Firenze e Torino e le Brigate Rosse invece egemoni a Genova e Roma).

Nelle due giornate di Forlì (coordinate da Domenico Guzzo) si è dato maggiore spazio agli studi interdisciplinari, incentrando l’attenzione non solo sugli aspetti più direttamente inerenti il fenomeno del ’77: dalle soggettività politiche (Valerio Romitelli) alla teoria dei bisogni e all’azione diretta come pratica di riappropriazione, a sinistra come anche a destra (Silvia Casilio e Loredana Guerrieri); dalle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici della Sanità (Giordano Cotichelli) al rapporto fra crisi del lavoro e violenza politica in Italia (Giorgio Del Vecchio). Al tempo stesso, si è cercato di individuare alcune onde lunghe che hanno cominciato a estendersi a partire da quel momento: l’involuzione del modello giuridico-normativo dei rapporti di lavoro (Carlo Sorgi), l’esplosione del fenomeno chiaroscuro delle cooperative (Tito Menzani), il rapporto fra giovani e organizzazioni sindacali (Salvatore Zappalà e Alessandro Martelli), i nuovi paradigmi finanziari del post-fordismo (Angelo Salento). Come già a Firenze, anche in queste giornate ampio spazio è stato dato alle declinazioni locali, ad esempio quello del Mezzogiorno d’Italia (Rocco Lentini), ma soprattutto a quello emiliano-romagnolo, sia dal punto di vista delle peculiarità del movimento (Luca Chiurchiù) sia da quello della crisi del lavoro (Carlo De Maria).

Insomma, questi due convegni hanno mostrato come in un periodo come l’attuale, in cui pian piano dal terreno della Memoria si sta entrando stabilmente in quello della Storia, la ricchezza degli studi locali può sicuramente aiutare a contrastare due tendenze presenti massicciamente in molti ambienti politico-culturali e accademici: da una parte la tendenza a “tematizzare” il movimento del ’77 come anticamera dell’omicidio Moro, dall’altra quella di considerarlo un semplice epifenomeno degli anni Settanta, un fatto accessorio e irrilevante all’interno della recente storia repubblicana. Come recentemente affermato da Neri Serneri, il ’77 fu non solo un moto di rivolta (come sostenuto recentemente da Marica Tolomelli nel suo libro sui movimenti), ma un vero e proprio movimento, un soggetto unitario, anche se con voci diverse al suo interno. Esso visse in profondo rapporto con la crisi (economica, istituzionale, amministrativa) del Paese, con quella del Pci (che proprio dal 1977 iniziava il suo costante e irreversibile declino) e dei gruppi rivoluzionari che lo avevano preceduto, ma al tempo stesso fu un movimento che, pur in forme distinte e contraddittorie al suo interno, più o meno irrazionali, tentò per l’ultima volta nel Novecento italiano (e forse in assoluto) di costruire un percorso di partecipazione politica collettiva che voleva porre fine a quella crisi, ma non nella “vecchia” ottica emancipatoria del Pci e dei sindacati, ma in quella “nuova” dell’autodeterminazione. D’altronde, come ha detto di recente Marco Grispigni, «un movimento è un movimento quando anche l’altra parte lo riconosce come tale». E il livello di ostilità che gli venne scatenata contro dalla sinistra tradizionale, quello di attenzione che ottenne da buona parte degli organi di stampa, così quello di repressione che gli fu scatenato contro, stanno inequivocabilmente a dimostrarlo.


Note
[1] Cfr. O. Scalzone, 77, e poi… Mimesis, Sesto San Giovanni, 2017; G. M. D’Ubaldo – G. Ferrari (a cura di), Gli autonomi – volume IV, DeriveApprodi, Roma, 2017; N. Balestrini – T. D’Amico, Ci abbiamo provato. Parola e immagini del Settantasette, Giunti, Firenze, 2017.
[2] Cfr. V. Miliucci (a cura di), Giorni che valgono anni, il Giardino dei Semplici, Roma, 2017.
[3] Cfr. G. Manfredi, Ma chi ha detto che non c’è. 1977 l’anno del big bang, Agenzia X, Milano, 2017.
[4] Cfr. A. Gagliardi, Il 77 fra storia e memoria, manifestolibri, Roma, 2017.
[5] Cfr. L. Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto, DeriveApprodi, Roma, 2017.
[6] Cfr. L. Falciola, Il movimento del 1977 in Italia, Carocci, Roma, 2015, p. 10.
[7] Cfr. M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 2009, p. 112.
[8] Cfr. gli URL http://www.italia-resistenza.it/in_evidenza/convegno-il-movimento-del-77-2549/ e http://istorecofc.it/convegno-la-crisi-del-lavoro-in-italia-dal-movimento-77.

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