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la citta futura

Che durata hanno le Costituzioni?

di Paolo Massucci

Quando lo scontro nel pensiero politico si riduce a opinioni tra generazioni diverse

Sulla rivista Le Scienze di febbraio 2018 (n. 594, p. 16) compare un articolo di Piergiorgio Odifreddi, quotato intellettuale, noto professore di logica matematica dell’Università di Torino, dal titolo “Un principio rivoluzionario. Thomas Jefferson calcolò dopo quanto tempo dovrebbe decadere una costituzione”.

Qui l’autore, con l’occasione di richiamare i fondamentali concetti statistici di “media”, “mediana” e “moda”- che dovrebbero essere ben chiari anche a coloro i quali si occupano di scienze sociali - ci espone un esercizio di applicazione di tali concetti ad una specifica enunciazione del 1789 del futuro terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, la quale recita, a proposito della Costituzione americana, allora appena entrata in vigore: “La terra viene data in usufrutto ai viventi, e i morti non hanno poteri o diritti su di essa”, e continua: “le costituzioni e le leggi dei predecessori si estinguono naturalmente insieme a coloro che le hanno emanate”.

Partendo dal principio qui formulato, l’autore dell’articolo, che espressamente non entra nel merito della validità dello stesso, pur definendolo “rivoluzionario” (e “rivoluzionario” per l’autore è, si noti, il principio enunciato da Jefferson, non la Costituzione), ne deduce, assumendo l’enunciato come vero e applicando qualche calcolo di statistica delle popolazioni, che, ad esempio, la nostra Costituzione del 1948, sebbene non così vecchia come quella americana, sarebbe ormai da considerare decaduta, in quanto comunque risalente a “due generazioni” precedenti l’attuale.

L’argomento considerato nell’articolo, inerente le leggi fondamentali dell’ordinamento di uno Stato, merita una riflessione più articolata e sarebbe ingenuo ritenerlo semplicemente un mero mezzo, scelto casualmente dall’autore tra quelli più a portata di mano e utilizzato solo allo scopo di introdurre i sopracitati concetti statistici. Al contrario, proprio per il fatto che lo stesso autore non entra nel merito del giudizio sulla validità delle affermazioni di Jefferson, indica che viene dato per scontato, se non la validità, perlomeno la plausibilità delle stesse.

Considerare i principȋ di una costituzione, quali che siano, a tempo determinato, ha ovviamente implicazioni rilevanti dal punto di vista della filosofia politica. Peraltro, nonostante il principio di Jefferson, gli Stati Uniti si sono ben guardati dall’eliminare la loro Costituzione del 1787!

Innanzitutto questi principii vengono declassati da principȋ con valenza universale a semplici “patti” contingenti e relativi, in linea con una visione pragmatista della politica, che ben si accorda con il neoliberismo. In tale accezione la Costituzione americana, la Costituzione francese del 1791, la Costituzione della Repubblica italiana, ad esempio, come qualsivoglia ordinamento di uno Stato, sarebbero infatti semplici espressioni di una generazione, interessata esclusivamente alle proprie esigenze pratiche (viene da dire “piccolo-borghesi), senza ambizioni più ampie. Anzi, per l’autore non sarebbe neppure immaginabile che tra gli intenti di una costituzione possa mai esserci anche l’intenzione e la speranza di garantire proprio nel futuro quegli ideali di giustizia conquistati, vincolandone appositamente l’applicazione anche alle generazioni a venire, a loro beneficio. Ciò non è neppure pensabile all’interno della ristretta visione del pragmatismo, nella quale, semmai, le norme ed i principȋ ratificati hanno per obiettivo l’utile immediato e quindi, se non revocabili, costituirebbero un onere, una riduzione della libertà per le successive generazioni, le quali si ritroverebbero solo delle imposizioni.

Così come il pragmatismo, che non riesce a vedere oltre l’orizzonte, anche il pensiero debole, che accomuna gran parte della cultura attuale postmoderna, non può concepire alcunché di sufficientemente solido da poter trascendere una singola generazione e quindi non può che disinteressarsi di quelle future. Nella visione ideologica capitalistica non ci sono principii, “non ci sono pregiudizi”: tutto, o quasi, è possibile, purché subordinato alla massimizzazione del profitto. Così la salute, l’istruzione, la cultura, l’ecologia e la vita stessa, non sono che variabili dipendenti dagli interessi economici capitalistici, spacciati quali “interesse generale”. E ad una prima analisi, la vittoria, sia pur temporanea, di questa ideologia antiumana appare sancita dal fatto che tutto ciò non viene nemmeno enunciato apertamente, in quanto sottointeso, dato per scontato, ovvio per tutti (almeno per i “sani di mente”). Tuttavia, allo stesso tempo, se ci interroghiamo sulle motivazioni profonde di questa stessa ambiguità del sottintendere, di questo celare la realtà brutale del funzionamento della società capitalistica, possiamo cogliere una contraddizione: il fatto che tale realtà è indicibile ed inaccettabile se non viene mascherata convenientemente. Ciò vuol dire quindi che il capitalismo e la sua ideologia sono ancora ben lontani dall’aver vinto sul piano culturale ed etico e questo limite costituisce un punto vitale per le speranze anticapitalistiche.

In secondo luogo, considerare i principȋ di una costituzione validi solo per la generazione che l’ha ratificata, da una parte nasconde l’esistenza di una lotta di classe e dall’altra proclama l’esistenza, infondata, se non di una lotta, comunque di una divergenza incolmabile (di interessi, di idee?) e di uno scollamento tra successive generazioni umane, per cui una nuova generazione dovrebbe necessariamente considerare superati i principii scaturiti da quelle precedenti. Non è un caso che nell’orgia neoliberista in corso da anni, tra le affermazioni ideologiche più spesso enunciate per consentire l’attuazione di politiche filo-industriali antipopolari e contro i lavoratori, vi sia che “dobbiamo pensare alle nuove generazioni”, “dobbiamo farlo per i giovani, per dare loro un futuro”. Ed in virtù di ciò dobbiamo ridurre le pensioni (ovviamente non importa se da queste “usciva” anche un sostegno per i nipoti), aumentare la flessibilità e lo sfruttamento dei lavoratori, risparmiare su sanità, ospedali, scuole (anche la scuola sarebbe un’inutile imposizione datata, a meno che non si trasformi in una formazione-lavoro – si sente infatti oggi spesso lo slogan “la scuola per gli studenti non per gli insegnanti”). Come “regalo” ai giovani, con il Job Act di Renzi (ma “voluto dall’Europa”, cioè dai capitali industriali e finanziari europei) chi è assunto dopo il 7 marzo 2015, se ritenuto illegittimamente licenziato dal giudice, non verrà più reintegrato, ma avrà diritto solo ad un modesto indennizzo. Inutile dire che le generazioni future sono completamente dimenticate allorché lo sviluppo irrazionale industriale e dei consumi produce devastazioni ecologiche planetarie irreversibili.

Soprattutto ciò che emerge è una visione della storia incomprensibile, senza razionalità, e di una società disgregata e senza classi, in cui lo scontro, insensato, sarebbe appunto quello intergenerazionale. Non si tratta di una storia munita di senso e direzione, in cui dunque ciascuna fase è in connessione ed in stretto rapporto con le precedenti, si tratta piuttosto di una storia costituita da semplici momenti isolati e scollegati. Una storia che non è propriamente una storia e in cui il pensiero politico è ridotto ad una sterile dossografia [1].

Non è necessario essere degli studiosi di Marx e di Hegel per ritenere puerile considerare una costituzione o un ordinamento politico di uno Stato una mera espressione di una generazione, anziché il risultato, il punto di equilibrio, di una mai risolta lotta di classe, lotta la quale vede prevalere classi diverse in periodi storici diversi, sulla base degli esiti dello scontro politico, culturale, ideologico, economico e materiale. Ciò che in realtà si trasforma, nel processo storico sociale, non è certo il risultato del cambio generazionale, bensì del mutare dei rapporti di forza tra le classi in lotta. È questo processo che può rimettere in discussione gli ordinamenti politici ed economici scaturiti dallo scontro tra le classi in un periodo precedente, qualora detti rapporti di forza siano sostanzialmente cambiati.

Se oggi la Costituzione italiana del 1948 viene considerata da molti obsoleta o lo Statuto dei lavoratori superato ed inadeguato, è perché nell’attuale fase storica, per ragioni di portata mondiale più che nazionale, i poteri capitalistici sono molto più forti che nel passato. Essi riescono a dominare buona parte dell’informazione e dell’intellettualità, compresa quella scientifica. Cosicché l’articolo de Le Scienze qui commentato è inseribile nell’attuale quadro ideologico dominante, il quale è postmoderno (storia priva di un processo spiegabile e di qualsiasi razionalità), pragmatico (scelta politica per il massimo utile hic et nunc per la maggior parte dei cittadini e irrilevanza dei principi generali ed universali), antimarxista (la lotta di classe viene occultata e chi la prende in considerazione è superato) e neoliberista (si devono eliminare tutti gli ordinamenti e le leggi che tutelano i lavoratori e lasciare libero campo al profitto d’impresa).

Smontare le costruzioni ideologiche, dalle più banali alle più sottili, che sostengono gli interessi dei capitalisti in generale e supportano le misure contro i lavoratori in questa fase neoliberista, è un compito basilare per poter contrastare l’egemonia dell’ideologia neoliberista oggi apparentemente vincente. Dalla nostra parte, tuttavia, il fatto che l’ideologia del capitalismo, avendo il compito di tutelare, pur celandolo, interessi di parte e non universali, presenta una debolezza sostanziale di fondo: sta a noi smascherarla in ogni espressione ove si presenti, per rilanciare una visione del mondo in cui l’uomo sia al centro, dunque anticapitalistica.


L’autore è membro del Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni

Note
[1] Raccolta di opinioni.

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