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marx xxi

Verso un mondo multipolare, il gioco di tutti i giochi nell'era Trump

di Marco Pondrelli

Recensione al libro di Pierluigi Fagan

Il libro di Pierluigi Fagan potrebbe avere come sottotitolo una frase che compare nell'ultima pagina: “i Pochi hanno fallito, ora tocca ai Molti”. Questa affermazione è significativa ma al contempo rischia di essere troppo semplicistica ed incapace di riportare la complessità del libro.

Al centro dell'opera c'è il mondo ed i difficili tempi che stiamo vivendo, perché l'89 non fu, come qualche avventato politologo aveva vaticinato, la fine della storia. Gli Stati Uniti sono rimasti per un breve periodo storico padroni incontrastati del globo ma oggi è evidente la forza e l'importanza di altre nazioni che chiedono un nuovo ordinamento multipolare.

La finanziarizzazione dell'economia è stata la cifra che ha caratterizzato la governance globale degli Stati Uniti. La leadership statunitense è però oggi messa in discussione, ma se gli USA non sono più l'unica potenza egemone chi si contrappone a loro? Quali sono le altre forze che ci permettono di parlare di un mondo multipolare? È indubitabile che la sfida principale oggi arrivi da Russia e Cina, ovverosia dall'Eurasia.

L'Autore compie un breve ma efficace excursus sullo sviluppo storico del concetto di Eurasia, da Mackinder a Spykman per arrivare a Brzezinski passando per Karl Schmitt. La paura che storicamente ha guidato la politica estera di Washington è stata che si saldasse un asse fra la Cina, la Russia e la Germania (ovverosia l'Europa).

Ne 'la grande scacchiera' Brzezinski ha il pregio di esporre in modo molto chiaro questa preoccupazione, la radici dell'involuzione autoritaria dell'Ucraina (e possiamo tranquillamente definire quest'involuzione neonazista), del successivo colpo di stato, della guerra contro le province russofone ed infine dell'ondata di russofobia che si è scatenata, trovano la loro spiegazione nel libro scritto nel 1997 dall'ex Segretario di Stato di Carter.

Durante la seconda guerra del golfo, riprendendo un articolo di un importante giornale statunitense, a sinistra vi era chi sosteneva che le due grandi potenze che si fronteggiavano erano l'Impero a guida USA ed il movimento per la pace. Una posizione figlia di decenni di vuoto politico-teorico, incapace di vedere come molte potenze mondiali si erano fattivamente schierate contro quella guerra (Russia, Cina, Germania, Francia...). Questa divisione internazionale non è solo un esercizio di studi per fini eruditi ma entra, come affermato in precedenza, nella determinazione delle politiche economiche dei singoli paesi. Quando gli Usa chiedono all'Europa di portare la spesa per la difesa al 2% nello stesso momento in cui l'Europa ci chiede di tagliare la spesa, qualche domanda dovrebbe sorgere spontanea...

Un ultimo punto del libro merita di essere sottolineato: l'analisi sulla presidenza Trump che non è quella che in genere troviamo sui nostri mezzi d'informazione. Due i temi da rimarcare.

La politica economica statunitense, e non solo, è stata dal cosiddetto Nixon shock del 1971 caratterizzata da una forte finanziarizzazione associata ad una perdita di “potenza produttiva” [pag.182], Trump non si pone l'obiettivo di riavvolgere il film ma vuole provare a piegare il capitale finanziario alle esigenze produttive, far tornare la finanza a svolgere il ruolo per cui essa è nata.

Il secondo elemento è ancora più interessante. Le due amministrazioni precedenti a questa, Bush ed Obama, sono state egemonizzate dai neocon e dai neolib. La differenza fra le due posizioni è difficile da individuare, tant'è che Fagan ci ricorda come Robert Kagan neocon della prima ora copresiede un think tank bipartisan, il Center for a New American Security (CNAS), assieme a James P. Rubin, ex assistente di Hillary Clinton. Nell'amministrazione Trump è invece forte la presenza di una corrente cosiddetta 'realista', nella quale possiamo annoverare Kissinger e finché era in vita Brzezinski.

Se i neocon ed i neolib hanno avuto un approccio molto aggressivo in politica internazionale i realisti sono molto più cauti. La differenza più importante fra queste due posizioni è la guerra. La parte più oltranzista rappresentata da Hillary Clinton prometteva di contrastare i nemici statunitensi con la massima forza, anche quella militare, ove ce ne fosse bisogno. La proposta fatta dalla Clinton di una no-fly zone in Siria andava proprio in questa direzione. Alzare il livello dello scontro nel momento in cui si abbassa la soglia nucleare (ad esempio attraverso lo scudo missilistico nucleare) potrebbe avere conseguenze catastrofiche per l'intera umanità.

È duro capire perché la sinistra nostrana si sia schierata in modo entusiasta in sostegno di Hillary Clinton non considerando minimamente la sua propensione bellica, forse la guerra se è fatta dalle donne diventa più accettabile?

Non è mia intenzione sminuire i lati negativi dell'allora candidato Trump a partire dalla sua retorica anti-immigrati ma è pur sempre vero che il 'famoso' muro ai confini con il Messico venne fatto costruire da Bill Clinton e venne ampliato da George W. Bush (con il voto favorevole fra gli altri di un senatore dell'Illinois tale Barak Obama) ed è altrettanto vero che le espulsioni di migranti illegali non sono state congelate durante l'ultima presidenza democratica.

Certamente le politiche che Trump vorrebbe portare avanti non sono dovute al suo buon cuore ma sono figlie di un blocco sociale politico-economico. La sinistra europea dovrebbe riflettere, e farlo senza pregiudizi, su quali siano le posizioni più avanzate oggi dentro l'establishment degli Stati Uniti.

Se guardiamo all'agenda mondiale all'ordine del giorno non troviamo la pace perpetua kantiana o il comunismo realizzato, ma la creazione di un mondo multipolare potrebbe garantirci maggiore pace e maggiore benessere. Siamo sicuri che sia un obiettivo da disprezzare?

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