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sergiobellucci

La marcia della sinistra

di Sergio Bellucci

Sulla crisi della sinistra si discute molto partendo dal gioco tra partiti, voto elettorale, possibilità o meno di far nascere un governo. Sulla natura della crisi politica poco o nulla si affaccia come area di dibattito. Tutto il confronto è concentrato, mi sembra, sulla efficacia comunicativa del leader, sulla natura della sua leadership, sulla forma, estensione e solidità del cosiddetto “cerchio magico”.

Sarebbe necessario, invece, tornare a discutere delle forme dei poteri, della loro allocazione nei rapporti sociali e sulla collocazione dei partiti sul suo campo. Allora, forse, ci accorgeremo di alcune “solitudini”, politiche e sociali, che negli anni hanno prodotto il quadro politico che attraversiamo. E la descrizione non riguarda solo il nostro paese, ma tutti i paesi ove la rappresentanza politica del mondo del lavoro si era configurata, almeno in partenza, come volontà esplicita di trasformazione degli equilibri dei poteri fino alla volontà di ribaltare quelli esistenti. A cosa doveva servire il “Partito”? E cosa rappresentava nell’immaginario del mondo del “Lavoro”? Il Partito era la “casa”, “l’organizzazione”, la comunità, necessaria alla costruzione di una “alterità sistemica” rispetto ai poteri esistenti. Alterità rispetto ai “poteri” che avevano costruito una loro “forma”, un loro assetto e un consenso, culturale e sociale, in grado di “garantire” gli interessi di chi era in grado di estrarre “ricchezza sulle spalle dal lavoro altrui”, offrendo una retribuzione che consentiva al lavoratore di vivere, ma non di liberarsi dalla schiavitù “lavoro salariato”.

E, occorre ricordarlo, la prima garanzia per il mantenimento del loro potere era la capacità di far passare per “naturale” la forma del “lavoro salariato”, come se non fosse una forma imposta alla vita umana, al singolo e alla società, proprio dal potere esistente.

Sarebbe lungo analizzare come si sia determinata, storicamente, una sorta di “sindrome di Stoccolma” dei gruppi dirigenti della sinistra che, piano piano, li abbia trasformati nei più strenui difensori della forma di sfruttamento salariata e si siano “dimenticati” della missione originaria che li aveva creati, quella del processo di liberazione proprio dalla schiavitù di quella forma di lavoro. E quando ci si dimentica della propria funzione… spesso la si perde.

Molto, ovviamente, si determinò con la immane capacità del sistema produttivo capitalistico di costruire una montagna di merci, una vera e propria inondazione che fece traslare la lotta per la liberazione umana in lotta per il “diritto al consumo”. Ops, in un singolo istante (storicamente parlando…) l’intero cammino per instaurare un “potere alternativo” (che, ricordiamolo, doveva costruire il potere del mondo del lavoro, cioè di un mondo fatto di “liberi produttori associati” oltre ai vincoli imposti dal mercato) si trasformò in lotta per garantire alle masse un livello di consumi “adeguato”.

Ma adeguato rispetto a cosa? Il tema non è secondario. Lontane sono le disquisizioni sulla “teoria dei bisogni”, su quali siano i bisogni che portano alla liberazione umana e quelli che conducono alla schiavitù del consumo. Quasi impalpabili i dibattiti su chi produce il “bisogno del consumo” attraverso l’alimentazione di un “sogno di vita”, di un “senso” generale della stessa che, inevitabilmente, si trasforma in “con/senso” politico sul modello del potere che, almeno teoricamente, dovrebbe garantirne l’accesso. E sulle forme di lotta che si instaurano proprio in virtù degli obiettivi che ci si danno.

Rinunciando alla costruzione del potere del mondo del lavoro, contro il potere di chi poggia sul suo sfruttamento salariato, il livello di adeguatezza al consumo (o la forma del benessere socialmente accettato) viene lasciato alla costruzione del mercato. Fine del ruolo politico, se per politica si mantiene il suo significato originario e non si accondiscende alla vulgata contemporanea, quella della “lotta” per l’amministrazione dell’esistente. Lampante, anche in queste elezioni, l’assenza di un ragionamento all’altezza del capitalismo contemporaneo che indichi una alterità sistemica delle forze che si richiamano alla sinistra. Al massimo si indicano alcuni diritti non garantiti e se ne rivendica la soddisfazione (sempre più spesso “civili” e meno “sociali”) o si lanciano grida di allarme sulle condizioni di disagio. Detto in altri termini, si prospetta una funzione equilibratrice del sistema esistente.

Ian Stewart, matematico inglese, scrisse nel suo “Dio gioca a dadi?” una bellissima metafora di ciò che accadde ai matematici alla fine dell’ottocento. Per Stewart i matematici volevano scalare la montagna del sapere, ma in quegli anni scoprirono che, dal versante su cui si erano incamminati da secoli, non avrebbero mai potuto raggiungerne la vetta. La leadership degli scalatori decise, quindi, di ridiscendere a valle per aggredire la montagna da un altro lato. Una volta in pianura iniziarono il cammino per raggiungere il versante che sembrava più congruo al bisogno di “scalare il cielo”. Durante il cammino, difficile e pericoloso, si determinò una nuova leadership: gli scalatori lasciarono il posto agli esperti del deserto. Una nuova guida indicava il cammino in maniera, apparentemente, sicura e affidabile. Chi conosceva i pericoli del deserto era molto più affidabile di chi conosceva le regole delle pareti rocciose, per quella attraversata. Il punto è che la nuova leadership che aveva preso il potere… si abituò presto a gestirlo e continuò a far girare i matematici in tondo intorno alla montagna. Alla epopea della scalata si sostituì, presto, quella della attraversata. Nessuno aveva più voglia di scalare il cielo. Soprattutto all’interno della leadership che guidava il percorso nel deserto. Status, privilegi, ruoli sociali, avevano determinato la classe dirigente del deserto, inadatta a scalare la montagna (il motivo per cui era iniziata la marcia) ma capacissima ad impedire o rendere ridicolo ogni tentativo di alzare gli occhi al cielo e dire: ma non eravamo in marcia per raggiungere quella vetta?

Una metafora, a mio avviso, calzante per le leadership di quello che sono i residui delle sinistre politiche e sociali nel vecchio continente.

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