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senso comune

Pace e prosperità: i falsi miti dell’europeismo progressista

di Tommaso Nencioni

Non esiste ideologia senza un mito fondativo che permetta di rintracciarne le origini in un passato mitico e idilliaco. L’ideologia europeista non fa eccezione, specialmente se declinata da “sinistra”. Il mito è quello dell’“Europa socialdemocratica” che ci avrebbe garantito “cinquant’anni di pace”. Europa socialdemocratica? L’unico governo socialista al di qua della Cortina dell’immediato dopoguerra, quello laburista, si guardò bene dal far aderire la Gran Bretagna ai primi progetti di integrazione europea. E comunque anche questo primo esperimento socialista iniziò a mostrare segnali di crisi proprio quando fu sospeso il programma di assistenza sanitaria gratuita, per lasciare spazio alle aumentate spese di guerra imposte dall’adesione alla NATO. La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, ad ogni modo, era considerata dal Labour alla stregua di un “complotto del Papa e dei monopoli tedeschi”. Il riferimento al Vaticano e alla grande industria tedesca non era solo un artificio retorico destinato ad attrarre le simpatie dell’elettorato protestante e dei reduci della guerra al nazismo. La realtà è che al governo in tutta quell’area allora conosciuta come la “Piccola Europa” – cioè il gruppo di Paesi che aveva iniziato a dare passi concreti verso l’integrazione – erano partiti democristiani fortemente appoggiati dai grandi gruppi industriali.

In Italia i socialisti arrivarono al governo – e comunque in posizione subordinata – solo nel 1964, cioè sette anni dopo l’approvazione dei trattati di Roma istitutivi della Comunità Economica Europea. Trattati sui quali in parlamento il PSI si astenne, sì in forte polemica con le chiusure comuniste, ma, denunciandone ferocemente l’impianto liberista, e avendo alle spalle una posizione di fiera opposizione alla già citata CECA, alla Comunità Europea di Difesa (CED, 1954) ed alla Unione Europea Occidentale (1955). Si devono aspettare altri due anni per vedere la SPD al governo della Germania – 1966 – anch’essa comunque in coabitazione con la CDU. Fino ad allora il duo Adenauer/Erhard aveva guidato la ricostruzione del paese e il processo di integrazione europea seguendo un copione rigidamente ordoliberista, con tanto di critiche dei partner continentali al disavanzo commerciale tedesco dovuto ai bassi salari imposti alla propria manodopera dal governo di Bonn. Stiamo parlando, è bene ripeterlo agli occhi dei nostalgici, del governo Adenauer/Erhard, non di quello Merkel/Schäuble. Una grande coalizione ha più o meno sempre guidato anche il piccolo Lussemburgo, ammesso che ci sia il rischio di fare di questo paradiso fiscale un faro del progressismo continentale.

Vero è che al governo del Belgio si produsse un’effettiva alternanza tra governi socialisti e popolari fino al 1958 (seguì poi, a scanso di equivoci, mezzo secolo di egemonia elettorale democristiana). Anche in Olanda ci fu un lungo periodo di governo socialista tra il 1948 ed il 1958 (dopodiché per venti anni la maggioranza fu del locale partito popolare). In Francia la SFIO – così si chiamava il partito socialista dell’epoca, acronimo per Sezione francese dell’Internazionale operaia – partecipò a vari governi come partner di minoranza – una partecipazione che ne acuì comunque la crisi, fino a quando Mitterand non rifondò il socialismo francese su basi diametralmente opposte a quelle seguite fino ad allora (Epinay 1971). Mitterrand giunse alla presidenza solo un decennio più tardi. Comunque sia, a proposito del secondo mito fondativo dell’ideologia europeista, quello della “pace”, furono proprio i governi di questi paesi, Belgio, Olanda e Francia, nel periodo in cui il processo di integrazione europea era in gestazione, a condurre sanguinose guerre coloniali e spietate repressioni dei movimenti di liberazione nazionale nell’allora Terzo Mondo. Tutto questo con la pace ha veramente poco a che vedere, a meno di non seguire l’inveterata regola, molto europeista a dir la verità, di non considerare vittime umane le popolazioni extra-continentali.

Al momento della firma dei trattati di Roma (siamo nel 1957), se il piccolo Lussemburgo non poteva permettersi colonie e l’Italia e la Germania ne erano state private come esito della sconfitta nella II guerra mondiale, il Belgio era impegnato a mantenere il più feroce e odiato regime coloniale della seconda metà del XX secolo, quello sul Congo – una politica sfociata nella guerra 1960-1965 connotata tra le altre cose dall’assassinio di Patrice Lumumba; l’Olanda si era disfatta dell’Indonesia solo a seguito di una sanguinosa guerra culminata nel ’49 con l’indipendenza del gigante asiatico ma contraddistina da stragi e feroci repressioni; la Francia si era infine da poco (1954) disimpegnata dall’Indocina dopo la rotta di Dien Bien Phu, ma era attivissima nella repressione del movimento di liberazione nazionale algerino, e lo sarebbe rimasta ancora per quasi dieci anni. Pochi mesi prima della nascita della CEE (ottobre 1956), poco c’era poi mancato che Francia e Inghilterra non avessero portato il mondo sull’orlo di un nuovo conflitto generalizzato, con la guerra dichiarata all’Egitto di Nasser per aver osato nazionalizzare il Canale di Suez.

C’è stato, a ben vedere, un momento in cui l’Europa, nel frattempo allargata non solo ad altri Stati occidentali, ma anche a quelli usciti dall’orbita sovietica, è stata unificata sotto la guida socialdemocratica: nella seconda metà degli anni Novanta, nel periodo cioè in cui si sono gettate le basi per l’effettiva distruzione del cosiddetto modello sociale europeo, e la guerra si è riaffacciata all’interno del perimetro continentale per la prima volta dopo mezzo secolo con le bombe della NATO sganciate su Belgrado.

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