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Contro i fatti le ragioni: ancora dell’immigrazione

di Alessandro Visalli

La pressione dell’inerzia delle pratiche del mondo per come esso è si impone incessantemente sulle nostre spalle. Migliaia di poveri esseri umani, resi soli, sconcertati e frastornati dall’incontestabile differenza del mondo nel quale sono rapidissimamente precipitati, restano, mese dopo mese, abbandonati sulle nostre rive. Dispersi nelle nostre periferie urbane e negli anfratti delle nostre più sperdute campagne. Migliaia di altri esseri umani, già soli, li osservano e li circondano, abitano quel mondo senza più sapere, da tempo, cosa significhi farlo. Un simile incontro e un tale scontro costituirebbe, in altre condizioni, l’occasione della conoscenza di sé, possibile solo nello specchio dell’altro.

Ma questa condizione fortunata non è più attingibile, senza attraversare prima la resistenza opposta, corpo a corpo, dalla logica del mondo. Quella logica sistemica che si impone con la sua inflessibile forza, costringendoci da quando nasciamo e da quando lasciamo la casa a competere ed a fare dell’altro un oggetto per i nostri scopi. Fare dell’altro oggetto, soprattutto se debole, povero, solo e sconcertato. Farlo tale, se la differenza lo fa inerme.

Ma l’inerme è anche arma, nella sua stessa carne e nella capacità vitale del suo corpo intelligente; mezzo nelle mani sapienti della logica del mondo. Arma, nelle mani della logica di autovalorizzazione di quella straordinaria tecnica che chiamiamo ‘capitale’, principio di esistenza stessa della società non-tale nella quale ci capita di essere nati.

Arma, e straordinariamente potente, rivolta sempre contro i più vicini delle migliaia che da tempo abitano, senza più sapere farlo, le periferie e gli anfratti.

L’inerme è arma. Questa contraddizione ci appare impossibile, e di fatto ci mobilita gli uni contro gli altri. Ci costringe a infinite discussioni vuote, entro la logica moralista che per molti è ormai, da tempo, il sostituto nella luce, nel velo opaco che copre il mondo incomprensibile.

Abbiamo quindi bisogno di fare un salto oltre il refrattario e l’oscuro del nostro sistema di relazione non-sociale, oltre il “pratico-inerte” (Sartre), e per farlo abbiamo bisogno di mobilitare le risorse, intanto ri-descrivendo il problema in modo da poterlo percepire, elaborarlo e indirizzarlo.

Immaginiamo, dunque.

Immaginiamo di identificare il nostro comune problema nella messa in contatto senza mediazione, puramente e brutalmente, di reciproci diversi esposti a non coerenti livelli di consapevolezza e potere. Nell’abbandono degli uni e degli altri, nel loro contatto, al livello semplice della competizione. Del puro e semplice mercato, senza alcuna civilizzazione.

Immaginiamo che da questo problema discenda anche la perdita di controllo che il sistema democratico, mediato dal diritto e incapsulato in procedure sempre più svuotate, sta subendo sotto la pressione di troppi problemi negati.

Immaginiamo, così per dire, che l’Italia possa garantire, e con mezzi pubblici, il soccorso in mare, senza se e senza ma, e l’immediato trasbordo a tutti gli aspiranti allo status riconosciuto dall’ONU di “rifugiato”. Che si possa identificare prontamente, ragionevolmente, e quindi pienamente accogliere, tutti coloro i quali hanno alla fine i requisiti.

Immaginiamo, per così dire, che l’Italia, nella sua sovranità, lo possa fare. E lo possa fare, escludendo disagi non necessari, nel posto più vicino al luogo del recupero e sotto controllo nazionale.

Immaginiamo, che questo risultato sia possibile facendo accordi in Nord Africa per aprire lì, direttamente, centri di identificazione e smistamento, equiparati a sedi diplomatiche e quindi controllate dall'esercito italiano. Che ciò avvenga, ad esempio in Egitto, Tunisia e Marocco.

Immaginiamo che tutti gli identificati e dotati di status di rifugiati, nessuno escluso, l’Italia li trasporti gratuitamente (in qualunque paese europeo che li accolga, incluso l’Italia stessa). In tale modo ci assicureremmo che tutti coloro i quali non possano dimostrare di avere i requisiti sarebbero comunque già in un paese sicuro. E ci assicureremmo che l’attesa dell’identificazione avvenga in un paese sicuro dal quale non ha senso far perdere le proprie tracce. Lo stesso interesse dell’aspirante rifugiato lo terrebbe, in tal caso, sul posto.

Ma questo non può bastare.

Perché abbiamo già milioni di persone che sono abbandonate alla reciproca competizione, nel contesto della riduzione della funzione pubblica praticata da decenni, nella scarsità delle risorse e nell’abbandono dei luoghi.

Quindi, contemporaneamente, per garantire il pieno rispetto dei diritti civili, e l'integrazione dei lavoratori immigrati ormai già presenti sul territorio nazionale, immaginiamo di potenziare i centri per l'impiego e gli ispettori del lavoro (per venti, almeno), di dotarli di più poteri e di punire con sanzioni severe, crescenti, fino al carcere per chi accumula più sanzioni, chi impiega in nero lavoratori. Tutti, immigrati o non (ma molto di più per chi impiega i più deboli, appena arrivati).

Ma questo non può bastare.

Immaginiamo allora di rifinanziare un serio programma di edilizia popolare, di sostegno alle famiglie, di asili nido, di mediatori culturali e via dicendo.

Parliamo di tutto, ma vogliamo parlare di come viene sfruttato il lavoro, di come l’uomo è ridotto a mera forza, per essere messo a disposizione del valore astratto che cattura l’intera nostra vita nel suo sabba? Vogliamo parlare?

E’ fittizio tutto questo? Forse, ma la verità è che prima di ogni altra cosa abbiamo bisogno di rivitalizzare quelli che Habermas chiama “misure di contro-direzione” (“Fatti e Norme”, pp.388) che siano rivolte contro la complessità di una società che ci sovrasta e schiaccia, ma che è pur sempre organizzata anche da diritto e politica. Una società nella quale, certo, la lotta prevale, ma nella quale abbiamo anche risorse nella sfera pubblica, nei presupposti della razionalità pubblica, nella forza indiretta che nasce dal diritto di chiamare e mettere di fronte all’irrazionalità. Dal dovere di chiedere conto delle retoriche, di infilarsi instancabilmente nelle loro pieghe e di sostenerle. Nell’opportunità di radicalizzarne le ragioni, individuare la coerenza, illuminare il disegno nascosto.

Una società nella quale fare egemonia.

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