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linterferenza

Da pulizia etnica a pulizia etica: il femminicidio di massa

di Ferdinando Pastore

Si possono trovare svariati modi per pulirsi la coscienza di fronte alla barbarie; si può per esempio minimizzare la portata di un conflitto a seconda di chi lo conduce o ridefinire i contorni della legge se si guardano i propri interessi commerciali. Esistono ormai strumenti sofisticati per rimarcare o meno la gravità di un’azione violenta o di una guerra; per esempio far seppellire una notizia nel groviglio di informazioni quotidiane che non distinguono, per numero di colonne, un parlamentare in versione sceriffo della frontiera e l’eccidio di migliaia di bambini inermi. La società della conoscenza, attraverso la velocità dei casi del giorno, il martellante ritmo dei dibattiti, gli spericolati tweet dei cronisti d’assalto, riproduce il suo contrario. Tutto si dimentica nell’affannata corsa alla sopravvivenza giornaliera.

Così la mattanza di Gaza è da tempo sorpassata da differenti priorità comunicative e le mobilitazioni in favore del popolo palestinese perdono, man mano che i giorni passano, quella spinta emotiva e radicale che le rendevano agenda politica.

Lo stratagemma iniziale per far evaporare quelle piazze di lotta in allegorici raduni di nostalgici setttantasettini è stato offerto dal clamore di un sospetto femminicidio. I sacerdoti delle prime pagine, i rotocalchi dei salotti di regime, il mondo della cultura affiatato con i movimenti di capitali non hanno perso occasione per richiamare all’ordine l’indignazione su tematiche ben più pressanti di un genocidio.

In pochi giorni si sono susseguiti appelli, proclami, sollecitazioni civili perché si organizzasse una mastodontica parata contro tutti i maschi, oggettivamente responsabili di ogni evento delittuoso che colpisce una donna. Nello spazio di un mattino gli stessi manipolatori seriali, definiti professionisti dell’informazione, diventavano paladini di giustizia e di equità, quando puntavano il dito sul persistente patriarcato che ancora opprime l’emancipazione femminile. I cortei diventavano allora segni inconfondibili della vitalità democratica che solo l’Occidente conserva nei propri cromosomi. La scure pedagogica della moralizzazione, dunque, può essere esportata a tutti i popoli che ancora si crogiolano in primitivismi esistenziali e in nome di quelli minacciano le democrazie con crociate di religione.

Gli iraniani sono uno di quelli e i palestinesi, loro protetti, anche. Appare all’orizzonte una nuova postura del colonialismo civilizzatore che da sempre si è dotato di argomentazioni progressiste insieme a quelle più tipicamente razziste. Colonizzare significava portare progresso, futuro, innovazione tecnologica, commercio e conversazioni raffinate. Oggi, a giustificazione della condotta predatoria e criminale dell’Occidente, si fa affidamento a un nuovo canovaccio interpretativo: quello dell’assoluta integrità morale che fermenta solo nelle società più avanzate. Traspare un vero e proprio Impero del Bene.

La questione femminile diventa la giustificazione simbolica per assoggettare intere popolazioni ancora recalcitranti nei confronti del progressismo bellico o di occupazioni fuorilegge, tanto da occultare la pulizia etnica in corso in Palestina. Lo si fa adombrando l’ipotesi di un “femminicidio di massa” riguardo l’azione del 7 ottobre di Hamas. L’istanza, da sottoporre al vaglio della Corte Internazionale di Giustizia de L’Aja, è stata promossa da quattro donne di rango e subito sottoscritta dal variegato mondo dello spettacolo culturale italiano. Quello in cui gran dame e lord si scambiano convenevoli affettati.

Come preventivato la lotta al cosiddetto patriarcato diventa una propaggine della manipolazione propagandistica israeliana che ha appositamente confuso la lotta di liberazione dei palestinesi con il terrorismo islamico, in un esercizio spregevole di mistificazione storica. La pulizia etnica in corso si converte in pulizia etica di liberazione del territorio da una popolazione arcaica in contrasto con la democrazia più avanzata del mondo nella protezione dei diritti. Israele, quel paese dove la sbandierata libertà individuale nell’assecondare la propria inclinazione sessuale – come è giusto che sia – si arresta quando a reclamare libertà politica sono gli arabi, incarcerati senza processo e senza possibilità di esercizio del diritto di difesa. La libertà degli israeliani viene ottimizzata dal loro stesso razzismo in ambigue assonanze con la retorica del Terzo Reich; anche allora si paventava una Germania libera per i tedeschi e campo di sterminio per tutti gli altri.

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