Giornalisti, vil razza dannata
di Dante Barontini
Premessa breve, ma necessaria. Siamo un giornale, alcuni di noi hanno lavorato per decenni in altri media, frequentando redazioni, l’alto e il basso della società, palazzi del potere, bar dove cronisti e “fonti riservate” si incontrano quotidianamente.
Conosciamo il mestiere e i suoi format, sappiamo riconoscere quando viene messa la sordina, ignorata una notizia o una tendenza (è la cosa più semplice: “non ne parliamo”), invertire “aggressore e aggredito” (una carica di polizia immotivata contro ragazzi a mani nude può in un attimo diventare “scontri”), e via elencando.
Insomma, siamo giornalisti pure noi, ma di quelli che hanno messo le proprie “competenze” dentro un progetto collettivo di ricostruzione della soggettività antagonista e indipendente dal “sistema dominante” (per dirla in breve).
E che sanno riconoscere i “colleghi” che obbediscono al comando della proprietà, rappresentata istituzionalmente dal direttore e dai capiredattori.
In questi giorni l’esibizione di servilismo professionale si è dovuta applicare a due compiti piuttosto abituali: silenziare preventivamente uno sciopero generale seguito da una manifestazione nazionale (più altre locali) e trovare qualcosa che aiuti a “coprire”, magari mettendo in pessima luce – direttamente o indirettamente – le aree politico-sindacali-associative che davano corpo alle mobilitazioni.
Sembra passato un secolo da quando – meno di due mesi fa – un mesto Enrico Mentana, su La7, era costretto ad ammettere pubblicamente che le straordinarie giornate del 22 settembre, 3 e 4 ottobre – un milione e più di persone in piazza – erano “un successo di Usb e Potere al Popolo”.
Successo sgradito, certo, ma successo. Si era insomma manifestato un nuovo soggetto politico e sindacale, non riconducibile alle formazioni ammesse al “campionato di serie A”, ma con una forza di mobilitazione decisamente superiore.
Giornalisticamente, davanti all’apparizione di una novità sgradita ma forte, si può reagire in due modi (tralasciamo le infinite varianti possibili): cercare di “recuperare” la devianza indipendente oppure tentare di ricacciarla sotto la soglia della visibilità.
Nel primo caso avremmo avuto un buon numero di interviste agli sconosciuti leader delle due formazioni, tese a “capire cosa bolliva nella pentola della società” ma al tempo stesso “normalizzare” quel sobbollire. Nel secondo quello che si è verificato fino ad oggi.
Dal 5 ottobre in poi Usb e Potere al Popolo non sono quasi state più nominate, se non in occasione delle elezioni regionali in Toscana e in Campania, ma in quest’ultimo caso solo per ghignare sul risultato insufficiente a eleggere un consigliere.
Lo sciopero generale del 28 è stato nominato, mentre era in corso, solo per dar conto ai soliti “problemi nei trasporti”, ma senza neanche dire chiaramente chi lo aveva proclamato. Al massimo si accennava ai “sindacati di base”, oppure ai “Cobas” (chi, come noi, conosce e frequenta il sindacalismo “minore”, sa che quella sigla è copiata-declinata in svariate sotto-sigle, neanche tutte aderenti alla mobilitazione). Anche le poche foto pubblicate ex post erano selezionate in modo da evitare di far apparire la sigla “Usb”.
Straordinaria coincidenza, oppure un ordine di scuderia che ha attraversato le redazioni mainstream. La seconda, come sempre, è la risposta vera…
La riprova ieri, in piazza. Una massa di fotografi attirati dagli “ospiti internazionali” – Greta Thunberg e Francesca Albanese in primo luogo – e diversi giornalisti.
I primi, come al solito si sono gettati sulle “prede” con un furore degno di un plotone al fronte, al punto da costringere Greta a rifugiarsi sul camion dell’amplificazione per non essere travolta; e far reagire bruscamente anche qualche addetto alla sua protezione.
I secondi hanno approcciato i sindacalisti ponendo come prima e unica domanda “che pensate dell’attacco a La Stampa, a Torino?”. Lo sciopero generale contro la manovra del governo Meloni, contro le politiche di riarmo europee, la solidarietà con la Palestina, la denuncia della criminalizzazione del dissenso… Che gliene frega ai “colleghi”?
L’unica cosa era “prendere” una frase pro o contro se stessi, totalmente identificati con la testata nota familiarmente agli operai torinesi come La Büsiarda (del resto è di proprietà della famiglia Agnelli, come ora anche Repubblica).
Inevitabile ricevere a quel punto un molto educato “vaffa”.
Ma era l’atteggiamento comportamentale dei “colleghi” a dare la misura della distanza tra una redazione “importante” e il mondo popolare. Si muovevano come se questi “altri” fossero materia che doveva mettersi a loro disposizione, “popoli primitivi” da colonizzare, “inferiori” da descrivere secondo l’uzzo, obbligati a rispondere non sulle ragioni di quel che stavano facendo ma su quel che interessava al caporedattore…
Come se il tesserino da “professionista” avesse lo stesso potere disciplinante di quello dell’Fbi. E come se gli schemi mentali fossero gli stessi. Come se considerassero quella fiumana di gente in piazza come “nemici” da combattere e disperdere, esercitando il compito limitato di “narratori tendenziosi e squalificanti”. Quello che poi facilita o giustifica conseguenze più “muscolari”…
Sarà l’aria di guerra, sarà che la struttura centrale del potere capitalistico è cambiata parecchio (i primi sette uomini più ricchi del pianeta sono tutti – anche – “magnati dei media”: Musk, Zuckerberg, Bezos, Ellison, ecc), ma l’informazione mainstream sembra aver incorporato ormai il codice della “guerra ibrida”: non esistono i fatti e l’oggettività, ma solo quel che serve o contrasta il gruppo di potere per il momento dominante.
Non stupisce che quando, come a Torino, qualcuno si comporta con loro nello stesso modo – peraltro senza torcere un capello a nessuno; come teorizzava persino Marco Pannella, “la non violenza si esercita tra gli uomini, non necessariamente sulle cose” – scatti il riflesso pavloviano che fa sciorinare in serie rigida “la difesa della libertà di stampa” e tutti i suoi corollari.
Che erano e sono sacrosanti, quando la funzione della stampa è “fare il cane da guardia della democrazia svelando le magagne del potere”. Purtroppo è diventata il “fare il cane da guardia del potere contro la democrazia e i popoli”. E allora non puoi invocare le stesse guarentigie, che ti servono ora solo per esercitare la tua violenza – retorica, certo, ma non meno devastante – pretendendo l’immunità.
Se incontri un sindacalista o un dirigente politico consapevole della fase e dei rapporti di forza, puoi prenderti al massimo un “vaffa” o un sorriso ironico. Se ti capita qualcuno solo indignato e incazzato può disordinarti la scrivania.
Spiacevole, certo, ma sempre meno tragico del massacro di 280 colleghi – senza virgolette – a Gaza, per mano dei cecchini “democratici” dell’Idf.
P.S. Volete una prova? Oggi né il Corriere della Sera né Repubblica danno alcuna notizia della manifestazione di ieri, né dello sciopero generale del 28. Ma dedicano entrambi una pagina alla “frase shock di Albanese”. Se questa è “informazione libera”, possiamo immaginare il resto…







































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