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Berlusconi e il ’68 realizzato

di Diego Fusaro

Berlusconi e il berlusconismo sono detestabili finché si vuole, ma comunque mai quanto l’antiberlusconismo della sinistra politicamente corretta che ha abbandonato la questione sociale e Marx per passare all’integrità morale e a Saviano. Né – occorre ricordarlo – Berlusconi e il berlusconismo hanno a che fare con il fascismo e con una presunta deriva autoritaria, come da anni sentiamo ripetere a tutte le ore.

 Questo modo sciagurato di impostare il problema – che è il modo adottato ormai da vent’anni ad opera di una sinistra allineata con l’ortodossia neoliberale – ha il solo compito di giustificare l’antifascismo residuale della sinistra (in assenza completa e conclamata di fascismo), di modo che essa possa continuare a esistere legittimamente pur avendo rinunciato integralmente alla lotta per i diritti sociali e all’emancipazione degli offesi del pianeta.

Abbandonando la terra ferma del politicamente corretto e delle interpretazioni legate all’inerzialità impersonale del “si dice” di heideggeriana memoria, ritagliate apposta per chi non voglia sforzarsi di pensare con la propri testa, è convinzione dello scrivente che il berlusconismo debba essere letto come tragico compimento della logica del Sessantotto. Di più, l’autore di queste righe è convinto che Berlusconi e il berlusconismo, lungi dall’essere argomenti insulsi e indegni di attenzione, dovrebbero essere oggetto di un’attenta analisi filosofica o, avrebbe detto Foucault, di una “ontologia dell’attualità” in grado di interrogare criticamente, con sguardo sagittale, il presente.

Non che, in materia, non vi siano riflessioni anche interessanti, soprattutto in relazione a una lettura che sappia porre in relazione il berlusconismo con il Sessantotto, leggendo il primo come coerente realizzazione del secondo, a sua volta inteso come attuazione del sogno falsamente libertario per cui tutto è possibile. Segnaliamo, ad esempio, l’eccellente lavoro di Mario Perniola, Berlusconi o il ‘68 realizzato (Mimesis, Milano 2011) e l’intelligentissimo saggio di Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna (Cortina, Milano 2011).

 
Come si è cercato di mostrare altrove (cfr. Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano 2012, cap. V), l’odierno capitalismo antiborghese è esso stesso sessantottesco e contestativo, permissivo e antidisciplinare, non riconoscendo autorità alcuna in grado di frenare la sovranità assoluta della forma merce. Il controllo totale della società (nella forma dell’adorniana “società totalmente amministrata”), a partire dal Sessantotto, avviene tramite la liberalizzazione sempre crescente della sfera privata consegnata al self-service generalizzato del consumo da parte di individui isolati e in cerca dell’arricchimento estetico-edonistico del proprio io individuale.
 
Nella misura in cui propone il godimento senza freno e in rivendicata antitesi con la legge, il berlusconismo segna il coerente compimento del Sessantotto che si capovolge in capitalismo antiborghese. Il mantra sessantottesco (“non esiste la legge!”, “contro l’autorità!”) diviene parte integrante della vita e del programma d’azione politica del berlusconismo: non passa giorno che esso non travolga le leggi, anteponendo ad esse la sola legge del godimento acefalo (Ruby, festini ad Arcore, ecc.), antiborghese perché ultracapitalistico (è, infatti, incompatibile con la logica di onnimercificazione la persistenza di una cultura borghese, con le sue sfere vitali non mercificabili, come la religione o l’etica).
 
Con il berlusconismo – ossia con il Sessantotto pienamente realizzato – Non vi è più legge che interdica il godimento come trasgressione senza misura. Quest’ultimo assurge a unica legge possibile, travolgendo impietosamente quelle sopravvissute a quello che Nietzsche chiamava il “crepuscolo degli idoli”. Pasolini l’ha adombrato magistralmente, in Salò, tramite la lettura del regolamento imposto alle vittime della villa degli orrori (che, per incidens, presenta anche una sinistra analogia con Villa Certosa). Esso, preciso e dettagliato, rivela come il godimento illimitato sia la sola legge superstite. “Siete fuori dai confini di ogni legalità”, spiega il Duca alle vittime: la legge è uccisa e, in suo luogo, subentra il godimento mortale della civiltà dei consumi.
 
Il “disagio della civiltà” diagnosticato da Freud non coincide più, di conseguenza, con il godimento limitato dalle prestazioni della legge. Ne è, piuttosto, il rovesciamento: il plus ultra del godere sfrenato si pone come sola forma paradossale della legge, come unico imperativo in cui si cristallizza l’insensatezza che si è impadronita di ogni atomo dell’esistente. Liberato dalla legge, il godimento non genera libertà ed emancipazione, secondo il miraggio sessantottesco. Al contrario, produce nuove forme perverse di asservimento analoghe a quelle della ville degli orrori messa in scena da Pasolini.


Più precisamente, nel tragico consumarsi della dissociazione tra legge e desiderio, tra misura e godimento, il nobile imperativo nietzscheano della fedeltà alla terra si perverte – questa la cifra del Sessantotto – nella macabra forma del piacere narcisistico e cinico dell’individuo solo con se stesso.

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