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sinistra

Walt Withman, addio

di Algamica*

statualiberta«Io canto l’individuo, la singola persona, / al tempo stesso canto la Democrazia, la massa»
Verso tratto dalla poesia di Walt Whitman, “Io canto l’individuo”

Cosa succede in America?

Per chi conosce la sigla algamica (in calce a questo documento) sa che da alcuni anni, sul riflusso dell’insurrezione e del vastissimo movimento di George Floyd, sosteniamo che gli Stati Uniti d’America si stanno sbriciolando (“crumbling”) sotto l’incedere di una crisi generalizzata del modo di produzione capitalistico. Lo sbriciolamento approfondisce tutti i fattori di una nuova guerra civile. Non c’è questione sociale che immediatamente non porti ad assumere la forma della politica della violenza e così via.

Del resto, non siamo gli unici che avvertono il riverbero di onde telluriche profonde. Anche la stampa dell’establishment liberista occidentale avverte il tremolio e si domanda se l’America si stia avviando verso una nuova guerra civile americana. Se la seconda elezione di Trump ha segnato quel che scrivemmo nell’articolo “C’era una volta l’America”, i nuovi fatti che stanno accadendo in California, in Texas e in altre importanti città sono il riflesso agente di quella tendenza in marcia, che qui cerchiamo di esplicitare.

Perchè “Walt Withman, addio”? Perchè Walt Withman è, a ragione, ritenuto il padre della poesia statunitense, che in quei versi ha saputo condensare l’eccezionalità della storia americana che l’ha contraddistinta per oltre due secoli: ovvero la capacità di combinare la latente contraddizione tra lo sviluppo liberista delle libertà individuali con lo sviluppo della democrazia della maggioranza lungo un intero ciclo storico. Come più volte abbiamo scritto, già Alexis de Tecqueville indicava esservi una intrinseca, oggettiva contraddizione, ma la democrazia americana era dotata di quella incredibile capacità di compensarla.

L’America di Withman ha corso per un lungo tratto storico sulle strofe di quella poesia in virtù della sua tumultuosa accumulazione, della schiavitù, del razzismo sistemico, del colonialismo di insediamento, di annessioni di interi territori da Est a Ovest, della violenza imperialista e di uno straordinario serbatoio di immigrati dall’Europa. Ora è sotto gli occhi di tutti, l’America non canta più perché la libertà individuale dei singoli che contribuirono a forgiare l’American Dream non risulta più componibile con la democrazia della massa e della maggioranza.

Veniamo ai fatti odierni mentre i fumi dei riot contro i raid degli agenti federali dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) non si sono dissipati a Los Angeles e si sono estesi al Texas, come in altri importanti città del Nord Est, incluse Washington D.C., Chicago, Boston, Philadelphia, Minneapolis e New York. Chiariamo da subito che il weekend nazionale di protesta contro l’amministrazione Trump che si è realizzato con lo slogan “No King” e le dinamiche sociali e politiche specifiche delle proteste e sommosse nel Sud della California e nel Texas costituiscono aspetti differenti e divergenti della medesima matassa. Il primo rappresenta il sussulto dell’agonizzante canto del cigno di Walt Withman, rispetto al quale esaurirtisi i fattori fondamentali che lo resero possibile, la strofa risulta stonata. E’ una protesta sociale espressione di un moto che vorrebbe resuscitare i fasti del liberalismo democratico. Certamente all’interno di quella mobilitazione si agitano questioni sociali non secondarie come i profondi tagli al programma Medicare che priverà l’assistenza sanitaria basilare a milioni di cittadini statunitensi. Che questo tema rappresenti una ferita aperta e sanguinante è testimoniata dalla diffusa giustificazione in settori di massa verso la punizione e condanna inflitta da Luigi Mangione a uno dei CEO delle multinazionali della sanità privata. All’interno della stessa protesta c’è la reazione delle donne, in particolare di quelle povere e di colore, riguardo all’aborto e le tutele negate per l’interruzione di gravidanza. Un problema che oltrepassa la mera rivendicazione di un diritto, quando il 21% delle madri statunitensi sono single (tra le afroamericane la percentuale è del 43%, mentre tra le ispaniche è del 25%) e in una condizione che equivale oramai a sinonimo di povertà. Nondimeno la protesta nazionale insegue la crisi del liberalismo, ovvero la libertà dei singoli cittadini che entra in collisione con la democrazia della maggioranza rappresentata dal partito del Maga e dal nuovo Presidente che governano gli Stati Uniti. Sia detto per inciso, l’autoritarismo di Trump lungi dal prefigurare un inedito fascismo, realizza una politica liberista sul piano interno. L’attivista afroamericano, psicologo e panafricanista Dr. Umar Johnson ci fornisce un ottimo esempio a questo riguardo. Egli dice che Donald Trump «demonio razzista, sarà ricordato come l’unico presidente della storia degli Stati Uniti che ha avuto il coraggio di far uscire alla luce la corruzione che c’è nello stato federale, colpendola attraverso i licenziamenti di massa tra gli strati della burocrazia dello Stato ». Più liberista di così?

In sostanza sul piano sociale e sul piano politico generale si stanno fronteggiando e si stanno contrapponendo due tipi di disperazioni e traiettorie sociali divergenti e confliggenti, che hanno in comune solo l’eclissi dell’american dream impossibile da rilanciare.

Vogliamo però sottolineare che se questo è uno dei leit motiv delle proteste nazionali degli ultimi giorni, quanto accade nel Sud della California e in successione in Texas assume significati più profondi: è il risvolto della crisi della crescita degli Stati Uniti d’America in quanto popolazione che ha saputo attingere dall’immigrazione rendendola funzionale e coesa per lo sviluppo dell’accumulazione.

La California e il Texas sono ormai da tempo due Stati decisamente disomogenei rispetto al resto del paese (che comunque è vasto e differenziato). Una disomogeneità che segnala una disarmonica tendenza con il resto degli Stati Uniti. Le sommosse contro i raid dell’ICE in California e in Texas segnalano la crisi definitiva di uno di quei fattori storici che hanno fatto l’America grande, eccezionale e faro dell’Occidente e predatore imperialista assoluto nel mondo: la possibilità, appunto, di far crescere la nazione attraverso l’assimilazione dell’immigrazione premiata dal privilegio della bianchezza.

Qui si intende chiarire un punto storico e socio economico di fondamentale importanza. L’America è il paese dell’Occidente che ha applicato in politica, in economia e nella società quel particolare strumento che è l’assimilazione degli immigrati. C’è molta differenza tra “assimilazione” e “integrazione” degli immigrati in quanto varianti specifiche figlie dello stesso liberismo.

La prima, l’assimilazione, è possibile in virtù di una poderosa forza espansiva dell’accumulazione, che assorbe nella nazione gli immigrati da altri paesi che “sposano” quasi naturalmente e velocemente i valori, i costumi, i principi e la politica nella nuova nazione a discapito delle identità originarie. E’ un processo che per l’America non ha mai richiesto un lento divenire attraverso multiple generazioni degli immigrati. Obama senior era un immigrato dal Kenya, che si laureò negli USA grazie alle borse di studio concesse a giovani di talento africani dalla presidenza Kennedy e che poi è tornato in Kenya. Il figlio Barak, nato negli Stati Uniti, viceversa è divenuto Presidente e da americano ha bombardato l’Africa per gli interessi delle corporation americane.

All’America serviva una crescita della popolazione corrispondente alla tumultuosa crescita dell’accumulazione che non poteva svilupparsi solo con le forze autoctone. E questa è stata realizzata da quell’inesauribile serbatoio di immigrati dall’Europa che ha attraversato l’Atlantico per tutto il corso dell’800 e durante la prima metà del ‘900. Un afflusso di forza lavoro e di forza consumistica che non alterava l’assetto sistemico del razzismo e del suprematismo euro-occidentale, anzi lo rafforzava.

Una volta esauritosi quel serbatoio, a partire dagli anni ’60, gli Stati Uniti hanno dovuto necessariamente esercitare una politica permissiva e attrattiva nei confronti dell’immigrazione dall’America Latina, dall’Asia, dall’Africa e dalle isole caraibiche.

I vecchi paletti applicati nei confronti dell’immigrazione dai paesi non europei sono stati allentati. La politica di “assimilazione” al riguardo dell’immigrazione non era la derivazione di una legislazione politica, ma il risultato materiale e generale della necessità dello sviluppo della popolazione corrispondente ai ritmi dell’accumulazione che si rifletteva con leggi.

I nuovi immigrati immediatamente godevano di pieni e uguali diritti e doveri che mettevano in secondo piano l’identità nazionale di origine. Si poté realizzare grazie a uno sviluppo eccezionale dell’accumulazione cui quella popolazione contribuì andando a impolpare le file della cosiddetta middle class (fatta di ceti medi produttivi e di lavoratori).

La integrazione, viceversa, è il risultato che si determina quando la condizione del paese imperialista avanzato, che ha necessità di sviluppare la popolazione, non è dotato di quella stessa capacità di sviluppo dell’accumulazione. Il risultato diviene: diritti secondari nei confronti degli immigrati, una legislazione speciale e separata che li governa sottoponendoli indefinitivamente al ricatto e al razzismo sociale sempre più esasperato. È esattamente quello cui stiamo assistendo in tutti i paesi dell’Occidente in questa fase. L’Occidente è alle prese con una preoccupante crisi demografica e dell’accumulazione e diviene impossibile alimentare lo sviluppo della popolazione attraverso l’afflusso di immigrati, nonostante ciò diviene sempre più necessario per sostenere l’economia, i consumi interni e la competitività nella concorrenza mondiale. Insomma un cane che si morde la coda, come azione riflessa di una soggettività politica dell’establishment, mentre diviene una bomba sociale che gli scoppia sotto il sedere col rischio di una vera e propria deflagrazione.

Sono alcuni decenni che gli Stati Uniti hanno iniziato a mettere freno all’immigrazione abbandonando gradualmente le politiche basate sulla “assimilazione”. Un linea di discontinuità con la tradizione iniziata durante il secondo mandato Bush quando nel 2006 si gettarono le basi della progettazione della fortificazione del confine col Messico. Un progetto che poi è stato ripreso, sostenuto e ampliato dalle successive amministrazioni Obama, poi da Trump 1, Biden e Trump 2, l’obbligato risvolto della fine definitiva di quella capacità di assimilare gli immigrati e dunque di continuare a sostenere la crescita della popolazione attraverso l’immigrazione.

La Francia, e non la citiamo a caso, unica tra le nazioni europee occidentali, ha seguito le orme degli Stati Uniti ma priva degli stessi mezzi. Ora nelle sue principali aree metropolitane e nella cintura metropolitana intorno alla capitale la popolazione per il 40% è composta dalla diaspora africana e delle colonie. Di quali variabili impazzite si vanno a condensare ce lo racconta la rivolta a Parigi dei figli della diaspora africana durante la notte dei festeggiamenti per la vittoria della Champions League. Mentre l’Africa prende a calci nel sedere la Francia, l’Europa e l’Occidente, i malamente francesizzati rivendicano con rabbia l’originario maltolto coloniale e saccheggiano a ragione la capitale. Le nuove generazioni, di quelle precedentemente assimilate, improvvisamente impongono al resto della società le identità della diaspora dei colonizzati. Il mutamento strutturale della composizione sociale tra autoctoni e diaspora dei colonizzati imprime moti diversi, con onde di magnitudine e forme differenti a seconda dei paesi e della loro storia coloniale, i cui segnali abbondano in Gran Bretagna, Belgio, Paesi Bassi e nazioni del Nord Europa che viceversa per necessità hanno sempre realizzato politiche basate sulla integrazione. Ora negli Stati Uniti, finito il tempo possibile per l’assimilazione di una nuova e persistente immigrazione, nemmeno l’integrazione risulta possibile per aver già troppo assimilato.

 

California e Texas e il guanto rovesciato

Per più di 170 anni l’America si è sviluppata e ha avuto la capacità di sviluppare la popolazione attraverso l’immigrazione. Mentre nei primi anni ’90 l’Europa veniva messa alla frusta dalle contraddizioni sociali derivanti dall’immigrazione, smascherando l’Europa come insieme di paesi sistemicamente razzisti, gli Stati Uniti d’America sembravano ancora riuscire a combinare le due cose insieme, in particolar modo preservando lo sviluppo della popolazione attorno al cardine del privilegio della bianchezza di cui gli immigrati bianchi europei immediatamente ricevevano come universale diritto democratico.

Le storie della California e del Texas hanno una propria particolarità nella formazione degli Stati Uniti d’America. A partire dalla fine degli anni ’30 (il Texas) e dai primi anni ‘50 (la California) del secolo XIX la corsa a ovest dello sviluppo isolazionista degli Stati Uniti realizzarono attraverso immigrati inglesi e tedeschi la conquista alla federazione di questi due stati. Parliamo di conquista perché gli immigrati europei arrivati in gran numero furono non solo coloni ma anche truppe di un esercito popolare che impose l’adesione alla federazione degli Stati Uniti con le armi in pugno, che si sbarazzò dei nativi amerindi e dei “meticci ispanici” divenuti minoranza della popolazione. Per tutto un ciclo storico i due Stati hanno mantenuto una composizione della popolazione che per più dell’85% era di origine bianca caucasica. E sono divenuti nel tempo i due stati che più degli altri hanno esportato nel mondo l’America proiettando l’immagine che essa realizzava di sé. La California ha realizzato quella cultura di massa che è l’industria del cinema, che per anni ha narrato e rappresentato le gesta di eroi texani costruendo una falsa narrazione di una nazione e di una civiltà sorta dal nulla. L’immagine non è solo “propaganda”. Essa, sotto forma di merce cinematografica, rifletteva una sostanza materiale: un moto ascendente dalle apparenti possibilità illimitate. Ora mentre il cosiddetto Nord industrializzato e affacciato verso l’Atlantico andava in crisi, California e Texas hanno continuato a svilupparsi avvantaggiandosi della posizione di privilegio sulla tratta mercantile ascendente del Pacifico e con l’America Centrale e l’America Latina. Sono gli unici due Stati che ancora hanno tassi di crescita economica e di crescita demografica. Anzi California e Texas sono i due Stati più popolosi della federazione con i loro rispettivi 40 milioni e quasi 32 milioni di abitanti. Sono ricchi entrambi di materie prime minerarie, di manifatture e costituiscono i principali poli della nuova industria digitale, di fatto le locomotive dell’intera nazione.

Ma ecco il punto che non è secondario a questa faccenda. Mentre nel complesso degli Stati Uniti si impone la chiusura di un ciclo in relazione all’immigrazione da altri paesi, per la California e il Texas, sarebbe necessario l’opposto: mantenere le briglia aperte e rendere cittadini gli immigrati sprovvisti di documenti senza troppe condizioni e troppe limitazioni. In sostanza due traiettorie confliggenti e divaricanti impresse dalla più generale crisi dell’accumulazione.

L’altro decisivo aspetto è che sia la California che il Texas non corrispondono più all’America bianca. I cosiddetti bianchi caucasici sono una minoranza della popolazione rispetto agli ispanici latini, agli afroamericani e agli asiatici. Così lo è in particolar modo nelle fasce giovanili, dove molti di questi giovani sono cittadini americani a tutti gli effetti, perchè nati lì, ma i loro genitori e parte dei loro parenti sono minacciati dai raid degli agenti federali dell’ICE. In sostanza nella loro composizione sono altro ben differente dall’America conosciuta per oltre 250 anni, un popolo americano che sventola la bandiera messicana e di altre nazioni latino americane, ha tv e giornali in spagnolo, festività ispaniche e la cui componente bianca (di strati medi e di proletariato giovanile) indossa la kefiah palestinese e vive di riflesso una assimilazione di segno opposto e contrario.

Gli stessi disordini e le sommosse diffuse e spontanee di questi giorni nell’area della Greatest Los Angeles non sono scoppiate nel vuoto. Già nei primi giorni di Febbraio, gli studenti delle scuole statali dell’area avevano dato vita a rivolte e scontri di piazza contro la nuova legislazione. Disordini compiuti da giovani di età compresa tra i 13 e i 17 anni.

Si può ben capire dunque quali siano le ragioni di quella “democrazia della maggioranza” che invoca legge e ordine, ovvero di quell’America costretta a inseguire il sogno ma dovendo chiudere un ciclo anche contro i propri interessi immediati. Questo è il caso di quegli strati di imprenditori agricoltori e allevatori dell’America rurale che ha votato in massa per Trump. Moltissime di queste aziende si trovano ora in crisi per mancanza di mano d’opera, che per il 70% è costituita da forza lavoro immigrata e per la maggior parte non regolare. Una coppia di imprenditori a Fox News qualche giorno fa ha dichiarato: « per mancanza di forza lavoro la nostra azienda di allevamento è destinata a fallire. I lavoratori per paura di essere deportati si sono trasferiti dall’oggi al domani nei centri urbani. Sapevamo che sarebbe andata così quando abbiamo votato per Trump, abbiamo votato contro noi stessi, ma lo rifaremmo di nuovo ».

E così, quella democrazia della maggioranza in caduta libera non può che dispiegare – sull’orlo della violazione della Costituzione – quasi 4000 uomini della Guardia Nazionale e oltre 700 U.S. Marines per le strade, mentre le autorità locali impongono il coprifuoco. Si corre ai ripari nei due Stati che stanno trainando l’America prima che la crisi possa rappresentarsi come una vera e propria secessione dagli Stati Uniti d’America, anche a costo di incrinare la coesione popolare generale. Piove sul bagnato alimentando scenari reali di una nuova guerra civile americana che si scompone per linee centrifughe, dove dei poteri, uno centrale e uno locale si contendono il comando della forza militare. Siamo al cospetto di scricchiolii dello Stato simili a quelli cui assistemmo durante la rivolta generalizzata e di massa di George Floyd. Cinque anni fa la Guardia Nazionale impiegata dai governatori in più di 30 città fu contraddistinta da varie defezioni. Durante le giornate più calde il Pentagono si oppose a schierare l’esercito per le strade di Washington D.C. mentre la capitale era in fiamme e Trump scappato nel bunker della Casa Bianca, limitandosi a proteggere solo la tenuta presidenziale. Oggi per assicurarsi il comando delle operazioni sulla Guardia Nazionale, e inviare gli U.S. Marines, la presidenza ha dovuto fare riferimento a un vecchissimo regolamento a corollario dell’Insurrection Act del 1807, che consente l’assunzione del comando federale su tutti i corpi delle Guardie Nazionali, quando il paese è «invaso o minacciato da una invasione straniera». Parte del popolo sovrano della California reagisce contro il nuovo Re, ma esso agisce nel nome di quella maggioranza che non è popolo della California. Un dilemma che l’establishment liberista europeo, che vede Trump come il fumo negli occhi per ovvie ragioni, probabilmente sarà costretto a sostenere le decisioni presidenziali per motivi di “causa di forza maggiore”.

L’entità delle sommosse, in particolare in California, sono lontanissime dalla dimensione sia della rivolta per George Floyd che da quella del 1992 che seguì l’assassinio del tassista afroamericano Rodney King pestato a morte dalla polizia di Los Angeles. Anche le dinamiche e le cause oggettive non sono completamente sovrapponibili con le precedenti rivolte contro il razzismo sistemico. Diciamo che non sono sovrapponibili, perché qui abbiamo a che fare con il rovescio del guanto, ovvero con il risultato della chiusura catastrofica di un ciclo che ha potuto assimilare l’immigrazione consolidando il privilegio di un « razza padrona ».

Seppure la dimensione delle sommosse e della protesta non è lontana dalla dimensione della rivolta per George Floyd di cinque anni fa (il più grande e vasto movimento di massa con tinte “insurrezionali” della storia americana), questa crisi si apre in un contesto di scomposizione già logorato e in un panorama socio economico dove California e Texas sono sempre più distanti dal resto degli Stati Uniti.

Del resto gli assi portanti della vagheggiata nuova età dell’oro dell’America richiamata da Trump sta già naufragando sui vari fronti: sulla questione dei dazi, sulla capacità degli USA di ripristinare la pace tra Ucraina e Russia; di riproporsi in Africa che gli sta scappando di mano; di completare il genocidio e la deportazione dei palestinesi e normalizzare la situazione in Medio Oriente pro domo propria. Da ultimo, l’aggressione imperialista da parte dello Stato di Israele (degli USA e per conto dell’insieme dell’Occidente) contro l’Iran sicuramente farà ricadere sul logorato american dream il peso dell’aumento del prezzo del petrolio sui mercati di scambio internazionale.

Non facciamo previsioni sulle forme di una possibile scomposizione degli Stati Uniti d’America e del suo avviarsi a una nuova guerra civile. Vogliamo solo porre all’attenzione del lettore che non parliamo di un “se”, ma di un “quando” e di un “dove”.

Si addensano sempre più quegli elementi per cui la politica è politica della violenza, una tendenza che procede a marce forzate e a ondate sismiche discontinue. Rileviamo che questo è la rappresentazione della stessa rivoluzione in marcia, che non assume le forme immaginate della lotta di classe in quanto parte del ciclo passato. La rivoluzione è il movimento reale determinato dal decadimento di una società per scomposizione violenta di quanto il mercato ha sedimentato e l’accumulazione storica ha precedentemente realizzato.


 *ALGAMICA – Alessio Galluppi, Michele Castaldo
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Comments

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1
Lorenzo
Monday, 23 June 2025 12:26
Non sono le contraddizioni del capitalismo a generare la decadenza statunitense.

E' stata la decadenza antropologica, razziale e culturale della popolazione americana, frutto della spengleriana parabola di Zivilisation e dell'egemonia acquisita sul Paese da ciò che Walt e Mearsheimer pudicamente definiscono la Israel Lobby, a trasformare il capitalismo fordiano e produttivo anglosassone in finanza di rapina.
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