La sconfitta dell’Occidente e la Guerra Mondiale a Pezzi
di Alessandro Visalli
Il 13 settembre 2014, profeticamente, Papa Francesco dichiarò il segno del nostro tempo tragico. Nel centenario della Prima Guerra Mondiale ricordò che “anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”[1].
Sono passati solo undici anni, ma sembrano un’eternità. Si era nel tempo del Job Act di Renzi, di Schäuble che al G20 si oppose alle richieste di manovre anticicliche degli Usa, riaffermando il vangelo dell’austerità e il surplus di bilancio europeo e tedesco. Era il tempo in cui Obama spingeva perché fossero firmati due trattati di libero scambio, in chiave anti-cinese e a vantaggio delle aziende tecnologiche. Il TTIP (con l’Europa) e il TPP (con l’Asia) avevano infatti un solo scopo: come Jack Lew chiese al G20, quello di creare le condizioni per ribilanciare le partite commerciali statunitensi. Allora come ora il mondo esportava negli Stati Uniti molto più di quanto importasse da essi, e i cittadini americani consumavano più di quanto producessero. Allora come ora il debito pubblico, traduzione di quello privato, cresceva sempre di più. Allora come ora il sistema-America era complessivamente indebitato verso il mondo. E allora come ora la fiducia nella capacità sul lungo periodo (oggi anche sul breve) di sostenere questo ritmo era sfidata.
Sono passati undici anni e quei nodi sono giunti al pettine[2]. Sull’onda del progressivo svuotamento della posizione di forza americana[3], e dell’accelerazione della crisi europea passata per lo shock del Covid[4], la crescente competizione cinese e la guerra Ucraina che ha tagliato le sue forniture energetiche, l’Occidente appare disperato e pronto a tutto. La ragione è il vuoto che alberga nel suo cuore, in quelle classi medie e nelle contigue classi popolari attive, disinteressate e perse nella lotta per la vita, disperse in innumerevoli microcircuiti autistici di muto rancore coltivati scientemente dagli algoritmi[5] e ormai a quello che Todd chiama il punto zero (o stato zombi) del disperato individualismo.
Non che non siano stati fatti tentativi, in questi ultimi anni crescenti, per sanare il vuoto, si è passati per l’American Rescue Plan (1.900 miliardi) un programma infrastrutturale (2.300 miliardi) e l’American Families Plan (1.800 miliardi) più lo stimolo del primo Trump di 3.600 miliardi. Il primo concentrato sulle classi medie e le piccole imprese. Tuttavia, come ricordavano gli autori dei Monthly Review negli anni Settanta[6], di fronte a una crisi, nel capitalismo contemporaneo ogni politica pubblica deve in primo luogo confermare i rapporti di forza sociali, ovvero garantire la riproduzione del capitale nelle mani in cui è. Di fronte a sfide che possono indebolire la propria capacità di canalizzare la ricchezza, piuttosto le élite si comportano come quelle bismarckiane della metà dell’800: cercano di cambiare tutto per avere lo stesso mondo. E si sforzano sistematicamente di stimolare nuovi cicli di speculazione e sviluppo alimentati dal debito (soprattutto pubblico); cicli gestiti da strette (o strettissime) ed affidabili élite tecnocratiche.
Questa è la ragione del loro fallimento, non possono affrontare il vuoto nel cuore dell’Occidente perché ne sono la causa e dovrebbero negare se stesse.
Quel che viene tentato, e per il quale la seconda amministrazione Trump, come quella Biden con retoriche diverse e diverse tattiche, si spende è rigenerare il capitalismo affinché all’ordine neoliberale segua ancora un ordine che salvi il capitalismo; e alla centralità dei soggetti creati dal sistema di regolazione neoliberale segua quella dei medesimi (al contempo cambiati). Si può dire così: se la crisi del modo di regolazione ‘fordista’, al calare del millennio, estremizzò e al tempo pervertì gli elementi di questo[7], allargandoli su scala mondiale attraverso una potente dinamica di integrazione subalterna (ponendo al centro nuovi assetti tecnologici e la creazione dell’ordine nel quale viviamo), qui si tratta in mutate condizioni di ripetere l’operazione. Estremizzare e pervertire, per superare/confermare l’ordine sociale esistente e saltare nel prossimo.
L’operazione ideologica è di enorme ambizione, non va sottovalutata. Si tratta di raccogliere la sfida posta dall’evidente, e non nascosto, fallimento dell’economia neoliberale, eccessivamente concentrata sul breve termine, sull’arricchimento come rapina invece che come effetto della creazione di valore, sull’esaltazione delle parti peggiori dell’uomo, sulla distruzione della natura entro e fuori di esso, per rovesciarlo in un successo dei medesimi attori. Una vera e propria rifondazione ideologica dall’alto che è espressamente proposta dalle élite per le élite di fronte al baratro del conflitto, della perdita di egemonia e di controllo del mondo. Si tratta di un tentativo di riaggregazione di classe, oltre e sopra le differenze e le fratture geopolitiche in via di allargamento. Una riaggregazione necessaria e decisiva per ricandidarsi come sempre alla gestione del reale, ma da una posizione più salda.
A oltre dieci anni dai tentativi obamiani abbiamo dunque avuto un ciclo di presidenti che più lontani non potrebbero essere, sintomo della divaricazione degli Stati Uniti profondi: prima Trump, che batte una troppo sicura Clinton, e poi Biden, il quale sfrutta il Covid per affermarsi come ancora di sicurezza ma finisce per lanciare il mondo nell’avventura ucraina[8] (abbaiando alla porta della Russia, come ancora si trovò a dire Francesco[9]). Un calcolo complesso, ma anche una scommessa persa, quella di vincere facilmente contro l’orso russo. Quindi, ancora dopo solo quattro anni, il ritorno di Trump. Siamo, con questa seconda vittoria, a quindici anni dal ciclo neocon di Bush Junior (con le sue avventure mediorientali), otto dal ciclo Obama e sedici dopo la crisi-spia della finanziarizzazione esemplificata dal crollo del 2008. A sua volta il 2008 è al termine di un ciclo di bolle alimentate politicamente che risale almeno a un decennio prima, e fu il segnale della necessità di tornare a qualcosa che potesse, almeno per il grande capitale finanziario, soccorrere; a una sorta di ‘big state’.
Da allora, ovvero da sedici anni, a ben vedere il tema è sempre stato questo: come rimettere sotto controllo gli spiriti animali del capitalismo finanziario, senza andargli contro, ma alimentandolo. Una sorta di surf impossibile su una onda anomala e impazzita. Prima fu tentata la via diretta di riempirli di soldi dei contribuenti: allora, come ricordato, ci furono reiterati pacchetti di stimoli bypartizan, da parte della coppia Bush-Obama. Poi la ricerca sempre più parossistica di un nuovo “motore economico” (si potrebbe dire di una nuova bolla), mentre cresceva la consapevolezza della crisi terminale della “mondializzazione” anni Novanta. Nel 2015, nel Discorso sullo Stato dell’Unione del secondo mandato Obama cercò di proporre come motore la svolta ambientalista e le politiche energetiche. La Ue seguì nel 2019 con il “Green Deal”, e ora, dopo aver scoperto che la Cina si sta facendo campione delle relative tecnologie, proseguiamo con il keynesismo militare, senza dimenticare tentativi come la IA generativa, data center, l’auto elettrica in Occidente, la digitalizzazione, la cybersicurezza e le smart grid. Tutti schemi di investimento e impiego dei capitali fluttuanti spinti, e in qualche modo canalizzati, da campagne di comunicazione necessarie per creare il giusto hype, da politiche monetarie, incoraggiamenti, ‘emergenze’, da veri e propri atti di imperio. Il punto è che si tratta sempre di spinte di stabilizzazione funzionali a transizioni geopolitiche, o forme di guerra ibrida, volte a controllare simbolicamente il futuro e ricostruire la speranza (degli investitori).
Nel frattempo, tornando agli anni Dieci, si era nel pieno del “ciclo populista”, parte della rivolta delle classi medie tradite dalla mondializzazione, reso visibile dalla Brexit, da diverse elezioni sorprendenti in Europa (tra cui in Italia) e dall’emergere, prepotente, della proposta populista di destra di Trump e di sinistra di Sanders. La scelta dell’establishment democratico verso la Clinton segnò la partita. Il primo Trump oppose allo stile di Obama (universalista, tecnocratico, basato sull’indicazione di una “agenda”, che sceglie alcuni valori come forza motivante, astratto, radicato nella libertà come destino storico), un discorso: nazionalista, populista, basato sull’indicazione di un nemico, che sceglie come forza motivante l’indicazione di un meccanismo, concreto, radicato nella promessa della protezione. Una agenda che si radicò direttamente nel fallimento di Obama. Nei suoi anni se calò la disoccupazione fu perché crebbe il lavoro povero e l’ineguaglianza. La partecipazione della forza lavoro calò sotto il 60% e crebbero la violenza e la povertà sanitaria. La classe media si sentì abbandonata e assediata dai “poor job”, e minacciata dal tentativo insistito di rilanciare la mondializzazione.
Fu così che il primo Trump irruppe nella cittadella: parlando di “ricostruzione” e di “ripristinare la promessa”. Parlando a sezioni diverse della società (quelle che Sanders cercava di intercettare), il nuovo Presidente cambiò completamente tono. Dall’ottimistico ‘viaggio’ si passò ai toni cupi che indicavano un ‘nemico’ interno: quei “piccoli gruppi” che, fiorendo, vivono alle spalle della “gente” che perde il lavoro e vede le fabbriche chiudere. Trump guardava a “madri e bambini intrappolati nella povertà”, in “fabbriche arrugginite”, sparse “come lapidi”, alle prese con un sistema educativo costosissimo, ma che lascia troppi senza speranza, dove il crimine si espande. La definiva una “carneficina”. Mentre Obama volava su alte parole, in questo abilissimo, Trump, simulando rozzezza e semplicità, indicava concretamente nemici, vicini. Nel suo discorso ciò che ci danneggia è la concorrenza di altri. Quindi è la globalizzazione, sono proprio quegli immigrati che la sinistra vuole accogliere. Sono quelle politiche, derivanti dall’idea che “il mondo è sempre più piccolo” e che bisogna proseguire avanti sulla strada, e “rischiare”, che bisogna essere adulti e forti, orgogliosi e vincenti. Sono le politiche che hanno solo “arricchito le industrie estere”, sovvenzionato gli eserciti di altri (ad esempio attraverso la Nato), difeso i confini di altri. Fatto altri ricchi e “noi” poveri.
Chiaramente, nei toni e nelle forme, quello di Trump (e di Sanders, e di Corbyn[10]) è un cambio di retorica motivato dalla ricerca di una diversa base sociale che non sia imperniata sulle classi medie superiori urbanizzate. Che cerchi, cioè, di recuperare dalla rabbia dispersa negli innumerevoli microcircuiti autistici di muto rancore l’energia politica per entrare nella cittadella. Ma di entrare, sicuramente nel caso di Trump, ma ritengo anche negli altri per ‘aggiustare’ la società e il sistema socio-economico e di potere, non per cambiarlo. Aggiustare conservandolo. E conservare l’egemonia[11] Occidentale con esso.
Abbiamo visto, leggendo Howard Zinn[12], che questo negli Stati Uniti è sempre stato un trucco delle élite. Da Andrew Jackson che, alla luce della minaccia di rivolte come quella del movimento della Valle dell’Hudson, combinando toni populisti e retorica liberale finse amicizia con la classe lavoratrice mentre si appoggiava sull’ascendente classe dei commercianti. O i presidenti dell’era “progressista” da Theodore Roosevelt in poi, che iniziarono la proiezione imperiale americana come esplicito tentativo di aprire mercati protetti e quindi sbocchi controllabili senza essere costretti a risolvere il sottoconsumo (nel pieno della depressione del 1893) alzando i salari interni. In altre parole, spostando all’esterno la tendenza a trovare un nemico e un inferiore al quale rivolgere il proprio risentimento. Se del caso usando il più vecchio trucco di deviazione dell’attenzione, quello evocato da Theodore Roosevelt, quando, vedendo la forza dei crescenti movimenti populisti: “questo paese ha bisogno di una guerra”, ovviamente verso le razze “inferiori”. Mentre, alcuni anni dopo, si arrivava al punto apicale della sfida socialista interna nacque, quindi, una sorta di capitalismo politico che attenuava e sopiva, che concedeva, ma per tutelare meglio gli interessi a lungo termine della classe capitalista, operando per i suoi interessi generali e prospettici, più che per quelli della singola fabbrica o industriale. Oppure, saltando in avanti, nel contesto della crisi degli anni Settanta del Novecento, l’establishment giocò una volta ancora la carta del travestimento nella figura di un ricchissimo imprenditore di arachidi del Sud, Jimmy Carter, che si vestì da contadino e costruì un potente richiamo populista. Scelto per il ruolo da Rockfeller e Brzezinsky, Carter introdusse un pacchetto sofisticato di apparenti riforme e potenziamento delle spese militari sul quale, in continuità, si inserì (cambiano retorica) Ronald Reagan.
Riassumendo, e in linea generale, in questo ultimo quindicennio, abbiamo assistito a tentativi di ristabilizzare la situazione nel quadro di una crescente sfida internazionale (poi sempre più manifestatasi nei Brics). Avendo, da una parte un declinante network globalista (a occhio costituito da grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e desideri (i cui confini si chiariranno per strada, ma almeno formato da due componenti, le forze che si aggregano nel MAGA[13] e il grande capitale finanziario-industriale[14] che cambia bandiera). In sintesi, Trump sarebbe stato eletto (e rieletto) da un network in formazione, ma dotato di potenti agganci di potere e in sincronia effettiva con una potente corrente sociale, per riportare in termini controllabili la proiezione di controllo dalla quale dipende la stessa possibilità di accumulazione, in qualsiasi forma.
Quindi per:
- Restringere le catene logistiche bisognose di protezione, e ridurre drasticamente i costi di protezione sostenuti in proprio,
- Rinegoziare il multilateralismo e quindi i margini di autonomia economica degli attori principali (USA, Europa in via di disarticolazione, Russia, Cina, Giappone),
- Rigarantirsi gli spazi di autonomia strategica, e quindi reindustrializzare e ribilanciare il commercio.
Una delle cose decisive da osservare (in parte anche in Biden) è che questo rivolgimento presuppone la messa sotto controllo da parte dello Stato delle forze animali del capitale mobile (facendo leva su quelle delle diverse forme di capitale fisso), dunque richiede l’affermazione della “logica territorialista” alla scala opportuna. Il punto centrale è che un Impero americano sempre più sfidato, che non può più essere certo di controllare i meccanismi estrattivi che nutrono la sua debolezza (la mancata produzione, l’eccesso di consumo, la dipendenza dai flussi finanziari, l’insostenibile centralità del dollaro) deve ripristinare, prima che sia troppo tardi, l’autentica fonte di sovranità statuale: il controllo della domanda interna. Ciò può avvenire solo se si pongono sotto controllo responsabile, se si riconducono alla logica della potenza dello Stato e non del singolo agente, i flussi di capitale e se si commercia su un piano appropriato.
In definitiva, e questo serve a capire meglio il clima di scontro nel quale scivoliamo. La coalizione che ha scelto Trump (e Vance) è espressione dell’esaurimento per estenuazione, soprattutto sociale, e dopo numerosi tentativi falliti, del modello di ‘accumulazione per spoliazione’ del liberismo. Tale modello fallisce soprattutto per l’aumento della concorrenza internazionale (come avvenne nel ciclo di fine Ottocento e inizio Novecento descritto da Karl Polanyi che pose termine all’egemonia inglese). E’ quindi espressione del tentativo di trovare una nuova formula politica di gestione della situazione.
Parte necessaria di questo tentativo è il superamento con assorbimento-incorporazione e quindi funzionalizzazione delle spinte popolari. Il populismo deve diventare forma di governo e rientrare nella sua componente più radicale e ribellista. Al contrario del tentativo di Obama, questo avviene sul piano del “nazionalismo imperiale” (un poco come fece Benjamin Disraeli[15]). La ricerca di un “dividendo imperiale”, intorno al quale ritrovare l’equilibrio interno necessario per vincere (pacificamente si spera) la sfida storico-epocale con la Cina, deve perciò passare per l’estrazione dalle province (principalmente l’Europa, come peraltro tentava di fare Biden), e la creazione di una nuova coalizione di potere, con referenti sociali precisi. Quindi per la ricerca di una soluzione storica che abbia la forza di riattivare un ciclo di egemonia che rivoluzioni-conservando per stabilizzare l’impero e la nazione insieme (questa è la novità direi), sopendo, reprimendo e creando nuova gerarchia.
Per comprendere il progetto che sottende alla Guerra Mondiale a Pezzi, con variazioni tra presidenti anche importanti, bisogna capirlo, in definitiva, come una nuova forma del progetto imperiale che deve passare necessariamente per un’aspra riorganizzazione del mondo intero su base multipolare (bi o tripolare), prevedendo una nuova divisione dei compiti e delle gerarchie. In questo progetto devono perdere, almeno in senso relativo, i centri industriali e finanziari semi-rivali (la Germania, l’Italia, il Giappone, la Francia, probabilmente la servizievole e volenterosa Inghilterra), se non accettano di stare al loro posto di fortini di confine e consumatori-subfornitori.
In questa nuova struttura d’ordine, potrebbe anche esserci anche uno spostamento relativo di ricchezza dall’economia dell’intrattenimento e immateriale, privilegiata nella fase finanziaria, a quella produttiva. Non è necessariamente una buona notizia nelle condizioni della tecnologia contemporanea e perché servono competenze diverse. Ma potrebbe essere necessario in un mondo nel quale la Cina laurea molti più ingegneri (e migliori) di tutto l’Occidente messo insieme, ed in India il doppio (che è dieci volte il numero USA) e nel quale l’Iran laurea come gli USA, la Russia il doppio.
Il “Nazionalismo imperiale” (al posto dell’Universalismo imperiale) potrebbe essere la nuova forma ideologica adatta a questa configurazione (che richiederà anni per affermarsi) che, nella versione Usa, potrebbe restare una forma di universalismo predatorio esattamente come il progressismo liberal, ma sotto vestiti di diverso colore (che all’inizio confonderanno).
Allargando lo sguardo, potremmo avere come posta della Guerra Mondiale a Pezzi, il superamento della fase unipolare, ormai morta, e della centralità dell’Occidente con essa, ma in favore di diversi e alternativi modelli multipolari:
- Quello probabilmente immaginato come sbocco finale da Trump, e da parte dell'establishment Usa, che vede una nuova divisione in blocchi di influenza, nella quale ognuno abbia i “suoi” satelliti da gestire (leggi, verso i quali regolare a proprio favore le ragioni di scambio) e da “proteggere” (cosa che costa), e tra questi ci siano scambi regolati dai rapporti di forza.
- Quello che presumibilmente interessa alla Cina (ma non alla Russia), che può essere descritto come “armonia sotto il cielo”, e si traduce in un sistematico rifiuto della logica amico-nemico, piuttosto sostituito da quella delle vie (Dao) molteplici alla comune umanità (che, però, non è un ascendere, piuttosto un riconoscere).
- Il terzo modello potrebbe essere quello russo, ‘del padre di famiglia’ (nel Comecon la Russia era contributore netto) che non sfrutta i figli, ma ne chiede il rispetto, esercitando l’autorità verso di essi.
Il primo e il terzo passano per una Nuova Jalta, il secondo passa per l'ONU e gli organismi di cooperazione, ma, soprattutto, per gli scambi.
Resta un punto. Il dominio del discorso universalista occidentale sta venendo meno. Di questo discorso siamo al tramonto. Siamo, insomma, al tramonto del macrociclo nel quale la centralità militare, tecnologica e della formazione del capitale[16] nell'Occidente collettivo ha avuto inizio. Ovvero di quel grandioso movimento che si avviò con l'aggiramento spagnolo del blocco turco e la distruzione delle Americhe e che sta giungendo dopo cinque secoli a fine. La dipendenza e assorbimento dei capitali periferici, e l'intero sistema morale, ideologico e sociale che vi è stato costruito sopra (la stessa coppia Occidente/Oriente che lo organizza) è ormai presentata davanti agli occhi del mondo e rigettata ogni giorno di più. Il Re è ormai nudo, per questo ruggisce di rabbia come si vede a Kiev come a Gaza o a Teheran.
Si era trattato di un ciclopico evento geopolitico: l’aggiramento della centralità (e del blocco) mediterraneo. Quel mare abitato da cretesi e fenici, sbocco di egiziani e delle grandi civiltà persiane, frequentato dai greci e conteso da Cartagine e Roma, testimone del turbine arabo e poi del dominio della Sublime Porta, quindi di veneziani e genovesi. Un mare periferico, si intenda, sbocco occidentale del grande centro geopolitico dato dal mondo di lingua Farsi (dall’Afganistan agli Emirati Arabi passando, ovviamente, per la Persia), e poi indiano e cinese (da Occidente ad Oriente)[17]. Fino all’aggiramento prodotto dai sovrani spagnoli e portoghesi l’Europa germanica e latina aveva due blocchi in successione a separarli dai luoghi più ricchi del mondo (l’India e la Cina): il mondo arabo e turco, e il retrostante mondo persiano. Restava solo la possibilità di aggirarlo verso Est, o verso Sud. Dal secolo XIV fu aperta quindi la via verso Occidente.
Da allora l’Europa si può pensare come centro.
Nel pensarsi come centro l’Occidente ha costruito, sulle basi della trascendenza cristiana, ma pervertendola, una comoda interpretazione: vinciamo perché siamo la punta avanzata della storia, del progresso umano verso la perfezione, e otteniamo il premio di questo essere per il buon diritto che ci viene dalla forza civilizzatrice del commercio, oltre alla potenza della nostra tecnologia e scienza. È il ‘dolce commercio’[18] che, necessariamente e per sua dinamica interna porta con sé attraverso la spinta del consumo l'allineamento del mondo agli standard dell'Occidente. L’idea era di considerare la “modernizzazione”[19] compiuta storicamente, e in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[20], storicamente necessaria, dei “progressi”[21] della “Ragione”[22] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è quindi considerato possibile, né civile e morale, né produttivo e autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[23], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere.
Questo mito fu scosso nella prima metà del Ventesimo secolo dall’esperienza della distruzione della tecnica (le mitragliatrici ed il gas nella Prima Guerra mondiale, i bombardamenti ad alta quota, le macchine di sterminio, le atomiche nella Seconda), ed è oggi sfidato dalla direzione che stanno prendendo i fatti. La mente di ogni buon cittadino occidentale, democratico e progressista, incastonata da questo giro di idee e sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero, non appena giungerà a riconoscerlo, è scossa e confusa dall’indisponibilità russa ad arrendersi, dalla nascita dei Brics e la sua espansione, dall’irresistibile crescita della Cina e la sua dirompente ascesa nella catena del valore e tecnologica, dalla crescita di movimenti politici non liberali nei santuari occidentali.
Tornando alla trasformazione egemonica in corso, e per approfondire l’analisi, bisogna considerare che ci sono alcuni passaggi necessari:
- rompere le connessioni economico-finanziarie, fatte di flussi di merci ma anche di capitali, di aree di ricircolo dei surplus e di riserve;
- costringere gli attori intermedi a scegliere il campo nel quale stare, e che sarà separato da alti muri di tassi e barriere non commerciali;
- indebolire la finanza e creare le condizioni per una reindustrializzazione fondata necessariamente sulla nuova “piattaforma tecnologica”[24]che si sta affacciando sulla scena.
Una “piattaforma” imperniata non più sulla vecchia, che era costituita da Ict standardizzante e centralizzante[25], l’industria a rete lunga, decentrata e caratterizzata da forme specifiche di dominazione del lavoro, da funzioni di concentrazione e liberazione dei flussi di capitali, deregolazione e indebolimento delle capacità di comando dello stato, fuga fiscale. Quindi, imperniata su scambio deflattivo[26] ed economia del debito[27].
Ma su una nuova, determinata dall’insieme dei nuovi abilitatori tecnologici, e geostrategici, che possiamo sintetizzare nel potente insieme di cinque aree che sono contemporaneamente arene di competizione:
- la frontiera tecnologica. Ia Generativa (“debole”, per ora), che porta con sé la sfida per il controllo dei modelli linguistici e l’automazione cognitiva; la robotizzazione antropomorfa e non; il cloud e datacenter, con la sfida decisiva per la sovranità del dato; la Iot e comunicazione, con le reti distribuite; la imposizione di standard tecnici e normativi; il quantum computing e la supremazia crittografica; le biotecnologie; la sfida per il controllo del suolo, della sua produttività, dell’economia dei semi e dell’automazione. Gli attori chiave, Nvidia per i chip, Open AI e Google per il software ma sfidato da competitori cinesi sempre più agguerriti (come Alibaba, Baidu, DeepSeek), il cloud e controllo del dato, come AWS e Azure, ma anche la sfida di Hauwei. Qui la frontiera non è solo hardware, ma anche semantica (chi definisce le categorie, le lingue, le decisioni automatizzate).
- La sfida per il controllo delle enormi e crescenti necessità energetiche, indispensabili per poter acquisire, stabilizzare e scalare la supremazia tecnologica. In questa area troviamo il controllo dei giacimenti, uranio, gas, petrolio, gas, litio per le batterie; le infrastrutture smart, le reti digitali autonome e resilienti, di indispensabile necessità strategica (per resistere agli attacchi alle infrastrutture); le rinnovabili, le fossili, il nucleare, i vettori energetici intermedi (come l’idrogeno, il cui risiko è alle porte), e via dicendo. Qui è decisivo l’accesso continuo, sicuro, scalabile e non minacciabile (la perdita dell’Iran costerebbe alla Cina il 90% del petrolio in arrivo dal Golfo e rappresenterebbe una solida ipoteca alla sua sfida per la frontiera tecnologica (enormemente energy intensive) e logistica.
- La logistica e mobilità. Droni e cargo autonomi, le nuove rotte di proiezione commerciale e militare e la lotta intorno ai punti di controllo; i grandi progetti infrastrutturali rivali, la Belt and Road cinese (che passa per l’Iran), i canali del “Patto di Abramo” (che passano per Israele), i porti di destinazione alternativi, le linee ferroviarie strategiche (lungo l’Asia, come quella, inaugurata pochi giorni prima della guerra del Golfo, che arriva in Iran partendo dalla Cina); le vie marittime consolidate, come Malacca, Sueza, lo stretto di Hormuz, Panama.
- La competizione per l’Artico. Con la lotta per le materie prime critiche, le “terre rare”, l’uranio, il nichel, il litio, il cobalto, il gas e petrolio, l’oro e gli altri metalli. I collegamenti artici, che possono far risparmiare mesi (il passaggio a Nord-Est e quello a Nord-Ovest). La sfida per la sovranità dei paesi limitrofi e per la banchina, la militarizzazione. L’Artico è il nuovo Golfo Persico del Ventunesimo secolo: qui si trovano risorse, passaggi e visibilità satellitare. Il controllo dell’Artico permette accesso alle materie prime e logistica navale ad alta efficienza, bypassando colli di bottiglia (Suez, Malacca). È anche un punto d’appoggio per la guerra elettronica e missilistica del futuro.
- La competizione per lo spazio. Le piattaforme come Starlink e Kuiper, le armi orbitali; i satelliti geoposizionali come Galileo, Beidou, Glonass; il controllo delle telecomunicazioni, e del Gps; la sorveglianza e intelligence; il C5ISR (Command, Control, Communications, Computers, Combat Systems, Intelligence, Surveillance, Reconnaissance). Qui agisce la Space Force americana, ma anche Beidou. Chi controlla lo spazio controlla la comunicazione globale, la capacità di proiezione di forza, la sicurezza degli scambi digitali. È la nuova “high ground”, la quota dominante della guerra informazionale.
Questa nuova “Piattaforma tecnologica” emergente, che è anche una nuova agenda delle lotte, insieme e intrecciata al “fallimento dell’Occidente” che ne fa da sfondo geopolitico, è fatta da: una radicalizzazione delle tendenze di connessione ubiqua e potenziamento cognitivo (il cui più evidente esito sarà la distruzione delle rendite cognitive di ampi strati del ceto ‘medio’ dei servizi); dal cambio di convenienza tra l’industria (e i servizi) con lavoro neo-servile, che ha dominato l’ultimo trentennio, a una industria ‘core’ senza lavoro; da capitali che si sono scoperti fragili per effetto delle estreme conseguenze dello scambio deflattivo esteso al trentennio e per l’esaurimento degli spazi di manovra dell’economia del debito, in primis negli Usa e che cercano parossisticamente altre occasioni di impiegarsi; quale conseguenza di queste dinamiche e nuovo punto di equilibrio una nuova regionalizzazione competitiva.
Il punto centrale è che nel passaggio da una “piattaforma tecnologica” all’altra, ormai non più rinviabile, la vecchia divisione/organizzazione del lavoro che di spostamento in spostamento è giunta all’oggi dovrà essere rivista. E anche che questa transizione non sarà pacifica. Come si è visto dalle mosse di apertura, comporta un esercizio di violenza economica e costrizione politica nella quale si dovrà vedere alla fine chi prevarrà. Ovvero chi avrà sanguinato meno.
La direzione verso la quale la dinamica dell’insieme delle arene di confronto e lo schema competitivo, ma anche le tendenze della tecnica, portano sembrano essere una progressiva regionalizzazione. Ovvero spazi economici chiusi o semi-chiusi (ai quali la Cina si oppone, secondo uno schema che si connette con una diversa cosmologia[28]), diverse sovranità tecnologiche (ovvero schemi normativi e di standardizzazione, ecosistemi tecnici, pratiche sociali connesse, abilitazioni e meccanismi di sorveglianza e controllo), ristrutturazione logistica e controllo militare delle aree produttive, flussi e ragioni di scambio tra prodotti e servizi a diverso livello tecnologico.
Non si può che passare per una lunga fase di confronto e scontro tra desideri, modelli e volontà di potenza. Ovvero per una Guerra Mondiale a Pezzi.
Alla fine prevarrà, al tavolo al quale si giungerà a un accordo finale, chi potrà mostrare di perdere di meno. Non si tratta, quindi, né solo né principalmente di una guerra commerciale, ma del completo ridisegno di tutte le relazioni internazionali. Il problema è giungere a questo, dato che lo status quo non è sostenibile e aumenta gli squilibri, ma farlo senza cadere nella Trappola di Tucidide[29].
Le armi in mano alle due parti sono:
- per gli Usa restringere e annullare il loro ruolo di “acquirente di ultima istanza”, al contempo creando una contrazione industriale nei paesi esportatori e danneggiando il ruolo centrale del dollaro, forse sostituendolo con qualcosa di meno controllabile e ricattabile;
- per la Cina utilizzare le riserve per sfidare la stabilità del debito pubblico americano, ma soprattutto usare la propria potenza commerciale e produttiva per creare una dipendenza ed un regime tributario di nuovo tipo, scambiando ricchezza ma conservando il controllo;
- Per gli attori intermedi decidere verso quale economia rivolgere la propria attenzione prioritaria.
Chiaramente il passaggio dallo “scambio deflattivo” ad un nuovo sistema economico, che non necessariamente assomiglierà a quello welfarista (per almeno due essenziali differenze: la piattaforma tecnologica nella quale si svolge, che non è quella della rivoluzione industriale; l’assenza della spinta della ricostruzione) porterà a un non breve periodo di assestamento dei prezzi, in un clima inflattivo, inoltre alla perdita di ruolo delle società leader della “economia immateriale” e della finanza connessa (e ne sono segno le perdite in borsa e nei listini di questi giorni). Nei paesi esportatori, la Cina in primis, tutto ciò potrebbe portare a una contrazione economica e sociale che partirà non dalle grandi società (altamente meccanizzate), quanto dal tessuto di microimprese, talvolta familiari, che vivono e lavorano personalizzando piccole e medie forniture per paesi terzi (in genere del ‘secondo’ mondo, Sudamerica, Africa, Medio Oriente). E che partirà dalle catene lunghe di fornitura internazionale che dovranno essere profondamente ristrutturate.
Per questo è cruciale, ed è il vero obiettivo, costringere un più ampio ecosistema di paesi a condividere le tariffe, in cambio dell’esenzione. Di fatto questo è il gioco che si apre nei prossimi anni, l’inserimento in aree di free-trade o a basse tariffe, dominate dall’uno o l’altro egemone, e quindi l’innalzamento di barriere di confine tra le aree così definite. Ovviamente, anche ogni genere di triangolazione, aggiramento, contrabbando, elusione. Si tratta anche del terreno scelto da Trump per le sue mosse di apertura.
Gli Stati Uniti rischiano la recessione, la destabilizzazione finanziaria e il salvataggio della FED al prezzo del crollo dell’egemonia del dollaro; la Cina rischia la destabilizzazione del consenso interno in strati intermedi di piccola borghesia, politicamente pericolosi. Entrambi, in caso di perdita di equilibrio, potrebbero trovare la strada di un’escalation distrattiva. In tal caso la Trappola di Tucidide si aprirebbe e si potrebbe scivolare verso il confronto diretto.
Di qui la diagnosi per la quale vincerà chi sanguinerà di meno. Non già chi troverà le parole più alte e ipocrite (gioco nel quale sembra attardata l’Unione Europea). Vincerà chi avrà la migliore visione, e più pratica, della situazione e dei diversi interessi e valori operanti, chi avrà più pazienza e capacità di tessere reciproche relazioni, chi costruirà alleati e non subalterni rancorosi. In una prospettiva più ampia, o di medio periodo, chi riuscirà a superare meglio il modello mercatista, fondato sullo sfruttamento degli squilibri (da parte cinese a espandere con successo e ulteriormente il mercato interno, da parte americana a ristrutturarlo a danno dei servizi e vantaggio delle filiere produttive interne e relative aree territoriali e sociali).
Tutto questo è lo sfondo, per ora tratteggiato in modo sommario, della Guerra Mondiale a Pezzi, la sua posta in gioco. Nessuno può mettere indietro l’orologio, dunque la fase unipolare e il dominio assoluto della finanza sono terminati. Al contempo scivoliamo, e sempre più velocemente, in una nuova “Piattaforma tecnologica” che avrà con la vecchia una sola cosa in comune: la dipendenza dall’energia. Vincerà questa competizione, anzi, essenzialmente chi avrà più energia (per alimentare computer quantistici, data center, IOT, modelli computazionali) e non per caso si combatte o sulle linee di passaggio dell’energia o intorno ai giacimenti.
Non per caso si combatte in Iran.
Note
[1] - Papa Francesco, discorso al sacrario militare di Redipuglia, Friuli Venezia Giulia, 13 settembre 2014.
[2] - Per una ricostruzione ampia e documentata del primo decennio, 2008-18, si veda tra tanti, Adam Tooze, Lo Schianto, Mondadori 2018.
[3] - Che ha anche altre determinanti, tra le quali la perdita del senso comune della nazione, dell’etica del lavoro, del concetto di morale sociale vincolante, la capacità di sacrificarsi per la comunità (le ultime due ben viste nella crisi del Covid), secondo la lista di Emmanuel Todd in La sconfitta dell’0ccidente, Fazi 2024, p. 163.
[4] - Qui mi riferisco soprattutto alla scoperta fragilità delle linee di approvvigionamento e la devastante crisi economica, contrastata con programmi di spesa a debito senza precedenti. Cfr. Adam Tooze, L’anno del rinnoceronte grigio, Feltrinelli 2021 (ed. or.2021)
[5] - Si veda il classico Soshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press 2019 (ed. or. 2019).
[6] - Si veda la ricostruzione dei molti tentativi di risolvere la crisi degli anni Sessanta e Settanta, nel suo farsi, condotte dalle élite americane nella ricostruzione, passo-passo, di Paul Sweezy e dei suoi coautori riportata in Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[7] - In poche parole, lo scheletro era dato dalla integrale subordinazione del consumo, messo a centro dell’uomo stesso, alla logica capitalista, negoziando da una parte produttività e distribuzione in termini reali (in modo da garantire da riproduzione della forza-lavoro e la stabilità sociale, ovvero la riproduzione sociale) e dall’altra la gestione politica della moneta (progressivamente smaterializzata in tutti gli anni Sessanta e Settanta, con enormi conseguenze sistemiche).
[8] - Con ciò non si intende dire che la Russia non abbia aggredito l’Ucraina, ma che questo evento si inserisce in una catena che parte dagli anni Novanta e accelera negli anni di Biden che rifiuta ogni possibile compromesso, lasciando al grande paese nucleare a cavallo tra Oriente e Occidente l’unica scelta tra accettare i missili alla porta di casa o agire. A parti invertite (i missili russi in Messico) nessuno può dubitare che sarebbe accaduta la medesima cosa.
[9] - Papa Francesco si trovò ad usare questa espressione nell’intervista al Corriere della Sera del 3 maggio 20922. La frase esatta è: “Forse l’abbaiare della NATO alla porta della Russia ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. Non so dire se questa provocazione sia stata voluta, ma forse ha facilitato lo scoppio della guerra.”
[10] - Leader del Partito Laburista inglese dal 2015 al 2020.
[11] - Termine chiaramente polisemico, ma che qui si intende spendere per la sua capacità di organizzare il senso e creare un ordine, sposato dai soggetti che essa stessa costituisce non per mero interesse bensì per adesione ad un intero ‘mondo’ internamente coerente. L’ordine (ed il ‘mondo’) comprende tecniche, saperi, culture e ruoli. Ogni operazione consapevolmente egemonica è una sorta di sfida al mondo come è, definisce dei nemici e si sforza di dissolverne la coerenza e coesione, combatte certezze, crea idee nuove (spesso rimontate dalle vecchie). Ogni nuovo assetto egemonico ha i suoi soggetti ed i suoi attori cruciali, individua dei valori irrinunciabili e dei disvalori da respingere, include delle tecniche, produce una economia. Creando soggettività si fa carico di esse, e risponde ai bisogni che fa emergere come decisivi.
[12] - Howard Zinn, Storia del popolo americano,
[13] - Che rappresenta la parte populista ed a trazione popolare del movimento di Trump.
[14] - Che è passato dalla sua parte poco prima dell’esito elettorale.
[15] - Primo Ministro inglese nel 1868 e nel 1874-80, che offrì alle classi lavoratrici organizzate dai cartisti e dai protosocialisti l’orgoglio di appartenere ad un Impero e il relativo ‘dividendo’.
[16] - Per prevenire un’obiezione, non si intende qui che la forma di organizzazione sociale e funzionamento economico che prende il nome di ‘capitalismo’ (o, marxianamente, ‘modo di produzione capitalista’) sia nato come Minerva già armato di elmo, corazza e lancia dalla testa di Giove direttamente quando Colombo, Amerigo Vespucci e i capitani conquistatori hanno sottomesso i grandi imperi atzeco e inca. Quel che si genera nel torno di anni tra la ‘scoperta’ dell’America e l’istituirsi di una economia atlantica coloniale è, piuttosto, una accumulazione originaria per “spoliazione” e una potente economia di sfruttamento che drena verso l’Occidente, facendolo tale, le risorse di una parte del mondo che nutriva all’epoca quasi un quinto dell’umanità. E’ la partenza della modernità.
[17] - Troppe sono le nostre dimenticanze selettive, dalle relazioni del mondo greco classico con i maestri egiziani, e di questi con le civiltà ancora più antiche con le quali dialogavano e combattevano, alla centralità di Bisanzio, poi dell’impero-mondo mongolo, la non irrilevante presenza africana, l’impero del Ghana, poi del Mali e, dal 1468 del Songhai, ad esempio.
[18] - Il termine è messo in giro nel XVIII secolo e rappresenta la condensazione di un’idea contemporaneamente semplicissima e straordinariamente sottile: quella che il fatto di far passare le relazioni umane attraverso il vincolo morbido dello scambio per puro interesse (il “dolce commercio”) le trasformerà e civilizzerà. L’uomo stesso diventerà meno ferino, meno orientato a perseguire motivazioni irrazionali (come “l’onore”), e la società diventerà meno separata in enclave, in clan in lotta reciproca; sarà meno attraversata da inimicizie radicali (ad esempio religiose). Ma questa non è l’idea di una condizione ‘naturale’ dell’uomo che si tratta solo di far emergere, contiene il progetto di una antropologia minimalista. Il progetto di un “uomo nuovo” che viene prodotto dall’estensione del commercio e dalla struttura legale e governativa che lo impone. Cfr., ad esempio, Jean-Claude Michéa, “L’impero del male”, Libri Scheiwiller, 2008 (ed. or. 2007).
[19] - Altro termine chiave della costellazione liberale: si tratta del superamento del mondo tradizionale, con tutte le sue strutture relazionali ed antropologiche, i sistemi di potere, i vincoli costitutivi, i valori (ad esempio l’onore, la responsabilità concreta, la reciprocità nel sistema del dono, l’ordine presunto naturale, …).
[20] - L’idea di un procedere per “tappe” della “storia” è un’altra tipica idea illuminista, fattasi strada tra il XVII ed il XVIII secolo, viene articolata sia nell’ambiente napoletano (Gianbattista Vico, 1668-1744) sia in quello scozzese (Adam Ferguson, 1723-1816), ovviamente ciò porta a ritenere che l’uomo proceda, generazione dopo generazione, ad apprendere sempre meglio il proprio modo di essere nel mondo e quindi progredisca.
[21] - “Progresso” è probabilmente il termine più inevitabile della costellazione liberale-moderna. Il concetto è legato ad una duplice radice: da una parte è un’interpretazione-ricostruzione dell’esperienza storica della tecnica e della scienza nella fioritura cinque-seicentesca e nell’estensione sette-ottocentesca, dall’altra è ancora un progetto di rottura delle relazioni tradizionali e di liberazione delle forze del lavoro e dell’industria dai vincoli storici. Si tratta di un progetto negativo, che conosce ciò che non vuole, ma non ciò verso cui tende. Un programma intrinsecamente “illimitato”, e quindi anche, e necessariamente, in-umano e carico di hybris. Per questa lettura del liberalesimo come “progetto negativo”, si può leggere Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi, 2020.
[22] - “Ragione”, rigorosamente al singolare, è quindi il coronamento di questo giro di concetti e del progetto ad essi connesso. Si tratta dell’idea che si deve imporre una unica via, perché aderente all’autentica natura umana (o, per meglio dire, alla natura umana che deve diventare unica).
[23] - La “Storia” è quindi orientata, ha carattere unitario, conoscibile nel suo senso, normativamente connotata.
[24] - Ovvero del set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambe, norme ed incentivi, coinvolti nell'affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).
[25] - Che tendeva concentrare fisicamente e socialmente expertise e servizi avanzati rari in “città globali” e territori densi.
[26] - Quella degli anni Settanta ed Ottanta non fu una crisi economica, ma l’ingresso, che si è verificato a ben vedere con l’uscita dal modello fordista, in un assetto tendenzialmente permanente di “stagnazione-contrazione”. Un assetto, prima di tutto di potere, nel quale è prevalente un circuito di rafforzamento tra la contrazione della quota lavoro (salari ed occupazione) via deregolazione e flessibilizzazione, la stagnazione o deflazione dei prezzi nell’economia “reale” (mentre quelli dell’economia “finanziaria” continuano ad essere sostenuti ed a crescere), la depressione degli investimenti e la conseguente continua creazione di “capitale mobile” eccedente, il riciclaggio di parte di questo in credito/debito funzionale a sostenere i consumi (anche a fini di consenso). Questo assetto esprime un vero e proprio “nuovo compromesso sociale” del tutto orientato ai bisogni, alla visione ed agli interessi delle classi alte della società ed in particolare di quella parte di esse mobile e liquida. Al contempo la dinamica erode, lentamente e progressivamente, le condizioni di vita e gli ambienti di insediamento di quote sempre maggiori della popolazione che non riesce o non vuole essere mobile e liquida. In conseguenza risucchia le forze attive e determina un colossale spreco di vite e risorse. Questa circostanza, insieme alla perdita di senso, rende instabili e pericolose le nostre società e si vede sia in occidente come nelle marche di confine (ad esempio nel mondo arabo). Un assetto deflattivo come questo favorisce continui “rimontaggi” e spostamenti, determinati dalla messa in contatto senza protezioni e filtri di poteri e dinamiche troppo diverse e sbilanciate. Quello che chiamiamo da anni “globalizzazione” e che innumerevoli cantori interessati hanno incensato per tutti gli anni Novanta e zero. Inseguendo un’ideologia che voleva lo sviluppo come intrinsecamente equilibrante ed in ultima analisi a vantaggio di tutti.
[27] -
[28] - Sulla quale dobbiamo rimandare agli interventi su questo blog, “Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi”, Tempofertile, 26 maggio 2025; “Circa la tecnica: per una fenomenologia politica della relazione”, Tempofertile, 25 maggio 2025.
[29] - Graham Allison, Destinati alla guerra, Fazi editore 2017
Comments
Senza fare sconti a nessuno a occidente.
Non potrebbe essere diversamente, viviamo qui, non la.
Ho pero' la sensazione che tra cocci che cadono e situazioni incollate con il nastro adesivo sia molto probabile la frantumazione interna e tra stati aggregati. Quali situazioni quali stati ..non saprei.
gli Usa sono quella cosa li e cercheranno l'ennesima strada per mangiarsi alleati e mondo, anche mettendo a ferro e fuoco tutto. La sensazione e' che non otterranno, non hanno i mezzi che avevano un tempo, non hanno le figure umane. Porteranno disgregazione e miseria fuori dai loro confini e dentro i loro confini?
Chi puo' dirlo, io sono quasi certo che accadra', ma non sono nostradamus.
basterebbe il battito d'ali di una farfalla in venezuela o il battito delle polizze di assicurazione delle petroliere e metaniere che viaggiano tra hormuz e suez a far presto deragliare la situazione, in forme che magari non ci si aspetta.
Ad esempio, se gli Usa vogliono farsi grandi estraendo dall'europa cosa potranno estrarre dall'europa se si arriva a 200 dollari al barile?
Molto piu probabile che in europa si scateni una guerra intestina. No? Immaginate se i polacchi vista la disfatta degli azov entrassero a prendersi un pezzo d'ucraina e, contestualmente, volessero cacciare gli ucraini che si sono rifugiati li in epoca biden (gira voce che adesso non siano amatissimi). Ma anche l'ungheria potrebbe prendersi un pezzo d'ucraina che parla la sua lingua. Per tacere della romania. Perche' lo farebbero? primo perche' sono anni che ci pensano, secondo perche' sposterebbero l'attenzione da problemi nazionali piu grossi e non risolvibili (200 dollari al barile non si risolvono facilmente, meglio non pensarci)
Da li in poi e' un attimo che scappano dalla bisaccia altre rivendicazioni e occupazioni territoriali. Magari e' pure la volta buona chs kallas dichiara guerra alla Russia con risultati comico drammatici.
Un esercizio di fantageopolitica. Certo, solo un esercizio idiota, non fateci caso, siete fortunati che mi sono limitato al cortile di casa perche' i battiti di farfalle che vedo altrove mi sembrano uragani e non sono diretti su di loro, ma puntano diritti a occidente.
Un esempio?
Immaginate se solo i tre quarti del mondo trovassero un piccolo accordo per punire gli stamaledetti occidentali, non atomiche, ma sanzioni ed esclusioni dai lofo mercati e traffici, per esempio... vi lascio lavorare di fantageopolitica