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Keynesismo o decrescita*

di Paolo Cacciari

Le macchine automatiche (…) danno origine alla tentazione di produrre molto di più di quanto non sia necessario per soddisfare i bisogni reali, il che conduce a spendere senza profitto tesori di forza umana e di materie prime”.
Così il più funesto dei circoli viziosi trascina la società intera al seguito dei suoi padroni in un girotondo insensato”.
Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione, 1934

La natura di una crisi che viene da lontano

Vissuta in Europa la crisi economica in corso da cinque anni assume caratteristiche strutturali ed epocali. Di fronte all’Europa si prospetta un futuro di decadenza e di emarginazione. La sensazione diffusa è che un lungo ciclo storico si sia irrimediabilmente concluso.

Da 70 anni l’Europa è stata al traino degli Stati Uniti. I governi europei sono stati i loro servitori/imitatori ben ricompensati (un’ “area sub-imperiale”, come giustamente ricorda Alternativa).

Per un quarto di secolo (la “golden age” postbellica) l’Europa, all’ombra del dollaro, ha potuto beneficiare di aiuti diretti e di ragioni di scambio favorevoli sui mercati internazionali per approvvigionare di petrolio e di materie prime a basso prezzo i propri apparati produttivi industriali.

Inoltre, quando si ricordano con nostalgia quegli anni  (come ora fanno in molti, tra tutti Gabriele Pastorello e Joseph Halevi su “il manifesto” del 20.9.12: “La decrescita è in atto, Si chiama povertà”, che scrivono: “Combattere il capitalismo è un conto, ma disprezzare l’unico periodo – quello keynesiano – in cui fu costretto a dividere maggiormente i frutti con i lavoratori, è insensato.”), bisognerebbe anche ricordare il veleno contenuto in quei frutti: urbanizzazione dissennata, inquinamenti irreversibili, salute compromessa per non poche categorie di operai, spoliazione di risorse naturali non rinnovabili in giro per il mondo.

Poi, alla fine del decennio degli anni ‘70, l’economia nordamericana dà segni di cedimento: la ricchezza inizia a diminuire, i redditi calano (nel 1982 una famiglia guadagna in media il 16% in meno rispetto al 1976).

Gli Usa cambiano ancora stratega (già nel 1971 avevano abbandonato unilateralmente il cambio fisso del dollaro ed ora mettono in atto la “svolta monetarista” di Paul Volcker alla Federal Reserve) dando inizio alla globalizzazione finanziaria. Una nuova forma più raffinata di imperialismo attraverso la quale l’immenso deficit commerciale degli Usa (e il calo dei profitti delle imprese) veniva ripianato dal reimpiego delle plusvalenze (petrodollari e non solo) dei paesi esportatori. Sono gli anni della “cura”  Reagan e Thatcher. Gli anni del trionfo neoliberista, della deregolamentazione, delle liberalizzazioni, dei famigerati “piani di sviluppo” e dei “programmi di aggiustamento strutturale” nei paesi “sottosviluppati” (In paesi come l’Italia viene dato inizio allo smantellamento degli strumenti della pianificazione economica ed anche dell’industria pubblica di stato).

Le compagnie multinazionali decidono di estrarre i loro profitti delocalizzando le industrie pesanti “a bocca di miniera”, quelle a forte intensità di lavoro in Asia orientale (che diventa la “fabbrica del mondo”) e poi (dopo “la caduta del muro di Berlino”) nei paesi dell’ex impero sovietico. Gli utili delle imprese dislocate nei “paesi emergenti”, in realtà, alimentano i profitti delle multinazionali. Il WTO (153 paesi oggi vi aderiscono) è il nuovo regolatore dei flussi economici planetari.


Quali sono i "determinanti" della crisi?

Nemmeno la globalizzazione può fare miracoli ed evolve rapidamente producendo effetti collaterali (forse) non desiderati.

La messa in produzione di una enorme massa di forza lavoro (un miliardo di nuovi salariati cinesi, indiani, pachistani, filippini, messicani…) due terzi dei quali pagati meno di due dollari al giorno (per lo più concentrati in Zone Speciali di Produzione), hanno invaso di merci a basso costo i mercati occidentali, vincendo facilmente la competitività con le manifatture ancora insediate nei paesi di più antica e matura industrializzazione. Le imprese nei paesi di più antica e matura industrializzazione che non riescono ad internazionalizzarsi falliscono. L’occidente vive una crisi di produzione di merci. Deficit della bilancia commerciale e sovra indebitamento sono correlati.

“A monte della grande recessione ci sono gli squilibri macroeconomici che si sono andati lentamente accumulando (…) in particolare l’eccesso di spesa Usa che ha gonfiato deficit e debito con l’estero.” (F.Galimberti e I. Dalla Valle, Dietro i numeri. Una cronaca della grande recessione, in “I libri dell’esperto” n.9, settembre 2012, Il Sole 24 Ore).

L’indebitamento degli Usa schizza alle stelle: dal 160% del Pil nel 1980, al 240% nel 1990, al 370% del 2010.  Stiamo parlando di 55.000 miliardi di dollari, di cui “solo” 16.000 sono quelli dello stato centrale federale. Una corsa verso il “Fiscal Cliff” che si prospetta oggi.

“Quello che ha tenuto in piedi l’economia americana (scrive Nicola Melloni nel sito www.sbilanciamoci.it ) è stata proprio la politica fiscale espansiva (…) il deficit federale a finanziare i profitti delle imprese private”.

Un altro commento (L. Vasapollo ed altri, Il risveglio dei maiali. Piigs, Jaka Book 2012): “I capitalismi internazionali hanno usato la finanza in maniera sovrastrutturale, ma anche sostitutiva in chiave speculativa, per supplire alle forti difficoltà dei processi di accumulazione del capitale”.

“Lo stile di vita americano non è negoziabile”, aveva affermato Bush senior.

Le attività economiche dei settori terziari (pur cresciute a dismisura) a cui è assegnato il compito del “coordinamento del lavoro” organizzato in reti di imprese a scala internazionale, non riescono a compensare le perdite occupazionali nei settori tradizionali: agricoltura e manifatturiero. Così risparmio e consumi interni calano.

Nell’intento di garantire comunque alte remunerazioni dei capitali investiti  in occidente, la creativa ingegneria finanziaria di Wall Street e della City di Londra sovrastima il valore di mercato reale di interi comparti economici (hi-tech, immobiliare, commodities, titoli sovrani e prossimamente la green economy) e riesce così a “drogare” l’economia, salvo poi “scoppiare” ripetutamente.

La crisi, quindi, deflagra nelle banche, ma non “nasce dalle banche” (come una vulgata semplificatrice e tutto sommato rassicurante sostiene). Prende origine da questioni macroeconomiche e geopolitiche, da un mutamento dei rapporti di forza tra le regioni e i sistemi produttivi del pianeta: l’ascesa del capitalcomunismo che, combinando assieme il peggio dell’uno e dell’altro, efficienza e dispotismo, riesce a vincere la competizione della produttività.

Non appena si alza lo sguardo in campo mondiale, si vede chiaramente il rapporto stretto tra crisi (dei profitti) in occidente ed “economia reale” internazionalizzata.

La principale partita per l’egemonia dei mercati (la “Terza guerra mondiale” in corso, come ricordava Marcos) si gioca ora tra le due sponde del Pacifico, americana e cinese. Cina e Giappone detengono il 50% dei titoli del debito pubblico statunitense. E la Cina ora esporta capitali.

L’Europa è tagliata fuori e rischia di fare la fine del vaso di coccio. Non è riuscita a “fare sistema” e  l’Unione (politica) Europea non è mai decollata. Quando ha tentato di darsi una moneta (l’Euro, nel 2002) potenzialmente concorrenziale al dollaro (capace di funzionare come moneta di riserva per alcuni paesi arabi) è stata colpita da manovre speculative concertate dalla City di Londra (la Gran Bretagna non è nell’Euro) e da Wall Street. Tiene il centro-nord, ma le periferie (i Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) perdono contatto dalla “locomotiva” tedesca e precipitano nella recessione.  La competizione tra aree geografiche e sistemi d’impresa assomiglia ad una gara ad eliminazione: l’ultimo viene eliminato ad ogni giro e quelli che rimangono in pista sono sempre più stremati. Mai le popolazioni europee avevano visto peggiorare le condizioni di vita dei propri figli. Il mito della crescita infinita (finalmente) si infrange. La sfiducia colpisce le istituzioni politiche accusate giustamente di aver abdicato impotenti al volere dei centri economici e finanziari internazionali (la cosiddetta “troika”: Banca centrale europea, Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea – che è un organismo intergovernativo, non eletto). Le popolazioni si rendono conto che la situazione economica è priva di qualsiasi strumento di controllo democratico.

La crisi finanziaria (nella sua doppia, perversa spirale: crisi fiscale degli stati e “stimoli” a debito delle banche per procrastinare il collasso economico) è un ottimo pretesto nelle mani della tecnocrazia europee  per svalorizzare il lavoro e sfiancare ciò che rimane della sua rappresentanza sindacale e politica: disoccupazione, precarizzazione, tagli al welfare state, riduzione dei salari. I ceti operai vengono umiliati, ai giovani viene negato un futuro, le donne sono costrette a sopperire con il loro lavoro “invisibile” e gratuito tutto ciò che viene a mancare alle famiglie in termini di reddito e di servizi sociali (più lavoro in casa e più lavoro fuori per integrare il reddito familiare), il ceto medio vive nel terrore di precipitare nel precariato e nella povertà.

Weimar è ricordata non senza ragione. Ma, per la prima volta, il 14 novembre scorso c’è stata anche la mobilitazione europea indetta dalle organizzazioni sindacali, con scioperi combattivi nei paesi del sud Europa (Portogallo, Spagna, Italia, Grecia). Ma siamo ancora molto distanti da una vera coscienza di classe sovranazionale. Soprattutto mancano controproposte credibili alle misure di “austerità” messe in atto dai governi.


Non c'è solo l'economia

Come avviene in tutte le “tempeste perfette”, alla crisi economica (finanziaria e produttiva) si sovrappone la crisi ecologica da sovra sfruttamento delle risorse naturali che provoca una rarefazione delle materie prime e, a sua volta, ha una ricaduta diretta sull’economia con l’aumento dei costi di estrazione, trasporto, commercializzazione. Ad esempio, dal 2000 al 2008, il prezzo del Cromo è aumentato del 260%, del Rame del 190%, del Ferro del 132%, del Manganese del 227%, del Tungsteno del 239%, del Vanadio del 547%, dello Zolfo del 750%, del Potassio del 230%, del Carbone del 59%, del Gas naturale del 156%, del Petrolio del 244%. Il Litio è passato da 350 a 3.000 dollari a tonnellata. Per i lantanoidi  le altre 17 “terre rare” (che servono a miniaturizzare e a “smaterializzare” – sic! – le produzioni dei nostri apparecchi elettronici) è in corso una guerra commerciale con la Cina e guerreggiata in Africa.

Il piano energetico della Germania prevede una decarbonizzazione rapida (entro il 2050) della generazione elettrica, ma solarizzando (progetto Desertec da 400 miliardi di euro) una porzione del deserto libico del Sahara pari per estensione all’Emilia Romagna. Il landgrabbing non avviene solo per le colture industriali di cibo da esportazione e biocarburanti.


Le proposte in campo

Le proposte per uscire dalla recessione che sindacati e  sinistre di tradizione operaia e socialista  (“Old Left”) prospettano non vanno oltre la stanca ripetizione delle “ragionevoli” ricette keynesiane: riduzione della abnorme sfera finanziaria, ridistribuzione fiscale della ricchezza, ripresa degli investimenti nelle produzioni di beni e servizi, intervento diretto dello stato nell’economica, aumento dei consumi interni pubblici e privati secondo lo schema della domanda aggregata a sostegno dell’occupazione. Ma in una economia globalizzata i margini di manovra sono oggettivamente di molto ristretti dalla internazionalizzazione delle filiere produttive e dei mercati. Senza una deglobalizzazione anche le ricette keynesiane non hanno possibilità di realizzarsi. Le misure protezionistiche attivate dagli Usa danno il segno del fallimento della deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati. Lo stesso Keynes ne sembrava ben consapevole, quando perorava una moneta unica internazionale e una territorializzazione delle produzioni.

Keynes pensava ad una fase transitoria di crescita forzata per poi giungere ad un equilibrio economico con riduzione dell’orario del lavoro retribuito. Previsioni sbagliate, su cui forse lo stesso Keynes oggi si interrogherebbe.

Inoltre una “ripresa a debito” è oggi molto poco credibile e fattibile a fronte degli immensi debiti già accumulati (e contratti sul dollaro) che gravano su banche, famiglie e stati (anche se in proporzione diversa nei vari Paesi) e, soprattutto, della perdita di competitività sui mercati d’esportazione delle imprese europee. Le politiche keynesiane non sono più “economicamente sopportabili” dallo stato dell’attuale sistema economico e finanziario.

La “austerità” imposta dai governatori-banchieri europei è mirata, con tutta evidenza, non a bloccare un debito pubblico incontenibile per gli interessi crescenti che gli stati devono pagare, ma per ridurre lo squilibrio delle bilance commerciali, tentando di contenere i consumi di merci di importazione.

Ma i paesi europei cosa dovrebbero riuscire a vendere e a chi? E a quali costi di produzione?

I paesi emergenti si stanno sempre più affrancando dal gap tecnologico: la Cina è diventata prima produttrice mondiale di computer e anche di brevetti. Inevitabile il ritorno di un nuovo protezionismo (grandemente usato dagli US), anche se appare un fragile, disperato argine in epoca di globalizzazione, per obbligare i Bric ad aumentare i parametri di qualità e quindi i prezzi dei loro prodotti (clausole sociali ed ambientali). Liberati gli “spiriti animali”, difficile rimetterli dentro la bottiglia. Così, la guerra rimane nella storia dell’umanità il metodo più spiccio per fregare i creditori.

Non escludo la possibilità di una ripresa del ciclo di profittabilità e di accumulazione capitalistica (ci sono ancora commons da privatizzare e nuovi popoli da salarizzare), ma – per sfortuna o fortuna – temo che a questo banchetto l’Europa non sarà il principale ospite.

Le speranze di “uscita dalla crisi” attraverso la ripresa della crescita si affidano alla domanda di un gigantesco ceto medio arricchito in Cina, India, Brasile, Turchia, Paesi arabi… (vedi le “missioni” di Monti in Kuwait) che preme per accedere a consumi di qualità che i paesi di più antica industrializzazione possono ancora fornire, ma non è detto che i margini di profitto di questi prodotti (brand alla moda, raffinati strumenti di telecomunicazione, ecc.) siano sufficienti a far galleggiare ancora per molto tempo la “piccola” Europa.

Per di più, gli analisti più attenti ci dicono che vi sono “risultati eclatanti” nei conti delle maggiori imprese. I saldi finanziari delle società sono ad un record storico dal 1948: sopra il 6% del Pil. Le stime di Standard & Poor’s sui profitti di 500 società sono in crescita del 20% rispetto a fine 2011. Scrive il Sole24Ore (op.cit.): “E’ possibile  che le imprese abbiano più soldi di quanti ne necessitino per finanziare gli investimenti in conto capitale”. Inutile dire che si tratta di profitti realizzati in gran parte da società Usa all’estero (25,9%). Quindi è facile supporre che gli investimenti produttivi prenderanno ancora la strada dell’Asia orientale, dell'America latina, dell’Africa.

Come si sa, le capacità di adattamento del sistema capitalistico di mercato sono sorprendenti e non è certo da escludere che siano possibili nuove “riprese”, nuovi cicli espansivi, nuove penetrazioni in aree geografiche e in settori non ancora mercificati.

Comunque, queste possibilità di ulteriore, progressiva occidentalizzazione ed  espansione dei modi di produzione capitalistici e degli stili di vita mercantilistici in parti del mondo ancora classificate come “arretrate” non farebbe che aggravare la rapida distruzione del pianeta e la accentuazione delle diseguaglianze sociali.

Con buona ironia Giorgio Ruffolo, ha affermato  che “Il capitalismo ha i secoli contati”. Sappiamo tutti che i modi di produzione e le relazioni sociali del capitalismo sono insostenibili, però non sappiamo quali e quanti margini di manovra sarà capace ancora di trovare, nelle pieghe del sottosuolo, spremendo fino all’ultima goccia di petrolio con le nuove tecniche di estrazione “fracking”, o sulla superficie del Sahara impiastrellandola di pannelli fotovoltaici (progetto tedesco Desertec da 400 miliardi di dollari), ovvero  carpendo il consenso e la sottomissione delle popolazioni del pianeta distribuendo illusioni alla televisione e lacrimogeni nelle piazze.

Il tramonto del capitalismo può essere molto lungo e la notte seguente molto fredda. Comunque, anche se fosse vero che “il capitalismo è un malato terminale”, dovremmo cercare di evitare che il morto si trascini nella tomba anche i vivi.

Per questi motivi non conviene mettersi i panni dei  profeti di sventura, fare i “gufisti”, gli “endisti”, i “quaresimalisti dell’Apocalisse” (come giustamente diceva Dario Paccino a proposito dei “colonnelli verdi” che non si pongono la questione sociale e democratica nel cambiamento). Non serve a nulla recitare la parte di Cassandra. Di fronte al pericolo di un collasso del sistema è più facile che le persone si facciano prendere dal panico e che nella fuga calpestino i propri vicini. Oppure che si facciano incantare da qualche “pedagogia autoritaria” (Cassano, L’umiltà del male, p.72). Più importante offrire loro buone mappe con segnate sicure vie di uscita. E’ più facile tornare a lottare quando si intravedono prospettive di salvezza, non quando si è annichiliti dall’impotenza e dalla sofferenza.


La decrescita

In questo quadro di crisi economica e sociale, in Europa, la proposta di una decrescita scelta, attiva, mirata e selettiva conquista attenzione tra le persone più attente e sensibili  che capiscono che è stupido resistere nostalgicamente alla inevitabile crisi di un modello di sviluppo distruttivo, giunto a fine corsa ( “The end of Growth”, R.Heinberg). Così come, alla pari, molte persone capiscono che sarebbe suicida accettare inerti le conseguenze del declino, che colpisce per primi e più duramente i più indifesi, senza nemmeno tentare delle strade alternative.

Questa è la ragione per cui un numero sempre maggiore di persone (solo così si capisce il largo successo che riscuotono iniziative come la 3a Conferenza internazionale sulla decrescita di Venezia) è interessato alle proposte che invitano a pensare e a sperimentare una fuoriuscita radicale, strutturale dai meccanismi che ci hanno intrappolati nella crisi. Il ragionamento è fin troppo semplice: se è entrato in crisi e se non è più possibile, né auspicabile riprodurre il paradigma della crescita illimitata, per non essere trascinati e travolti dalla sua crisi bisogna allora trovare il modo di liberarcene.

E’ necessario andare alla radice dei mali che stanno  facendo soffrire l’umanità. E questa  è la logica dell’accumulazione, il meccanismo della massimizzazione dei rendimenti e dei profitti, la ricerca dell’aumento costante della capacità produttiva delle merci. In una parola, l’orientamento al servizio del dogma sacro della crescita di tutte le istituzioni sociali (pubbliche e private, economiche e politiche, scientifiche e persino ludiche). Ricordava ancora Giorgio Ruffolo: “l’accumulazione, che è la logica del capitalismo, è per sua natura illimitata. Di fatto una logica impossibile, quindi illogica, dissennata” (il manifesto del 23 maggio del 2000).

Se davvero si desidera far rientrare il sistema dentro i limiti della sostenibilità ecologica e sociale, va allora riconosciuto con sincerità che questo obiettivo è incompatibile con i fondamenti del capitalismo.

Si tratta di compiere un salto culturale difficile (dobbiamo onestamente ammetterlo!) perché tutti noi siamo cresciuti nella osservanza della religione della crescita. Siamo stati abituati a pensare che senza crescita economica non vi possa essere sviluppo, progresso, benessere e “quindi” felicità. Senza denaro, niente accesso al mondo dei consumi. Senza il possesso esclusivo di beni e servizi, nessuna vita agiata è concepibile. Oramai, dopo più di un secolo di immersione nel “sogno americano”, nel mondo delle merci a portata di portafoglio, dove i templi dell’immaginario collettivo del benessere sono diventati i grandi magazzini Lafaiette, Harrods, Rinascente… dobbiamo realisticamente e onestamente ammettere che è avvenuta una mutazione antropologica. Marketing e televisione funzionano oggi per l’economia di mercato come un tempo la Cappella Sistina ha funzionato per determinare nelle menti degli uomini rinascimentali il primato della Chiesa. E’ un paragone certamente irriguardoso nei confronti di Michelangelo, ma rende bene l’idea della potenza  non solo economica, ma ideologica, estetica ed etica del nemico che abbiamo di fronte e che è riuscito a far apparire colpevole chi si impoverisce e un eroe chi si arricchisce. Un apparato culturale (scolastico, massmediatico, familiare) che ha posto la competitività e l’efficienza al vertice dei valori sociali annullando valori etici quali equità e solidarietà.

La decrescita allora va vista come un cammino di liberazione individuale e collettivo dai condizionamenti e dalle costrizioni del mercato, dei modi di produzione e delle relazioni sociali che i rapporti di produzione capitalistici impongono. La decrescita come rottura della gabbia dentro cui sono state imprigionate le relazioni umane. Come processo di disalienazione, decolonizzazione, decostruzione e decentralizzazione del potere costituito sul principio della massimizzazione della potenza trasformatrice delle forze produttive, del progresso illimitato della produzione industriale di massa.

Sappiamo bene che chi, nel corso della storia, ha osato  criticare l’industrializzazione, il macchinismo termoindustriale è andato incontro ad aspre critiche: Ruskin fu bollato come un romantico premoderno, Proudon un utopista regressivo, Tolstoj una anima bella, Gandhi un nazionalista autarchico, Simone Weil una mistica, Ivan Illich un eccentrico provocatore… Chi sostiene l’idea della decrescita oggi è considerato un “reazionario”, “incurante delle sofferenze del popolo”, “colluso con i padroni”, “reggicoda del sistema” (dal Dossier della rivista “Valori” dedicato alla decrescita) e, quando va bene, “buocolici e primitivisti”(Viale), “ingenui” (Zamagni), “rinunciatari” (Jean-Paul Fitoussi), A tutte queste bordate (sparate “da sinistra”) aveva già magnificamente risposto Simone Weil ottant’anni fa:

“Questa religione delle forze produttive, in nome della quale generazioni di imprenditori hanno schiacciato le masse lavoratrici senza il minimo rimorso, costituisce un fattore d’oppressione anche all’interno del movimento socialista; tutte le religioni fanno dell’uomo un semplice strumento della Provvidenza, e anche il socialismo mette gli uomini al servizio del progresso storico, vale a dire del progresso della produzione”.

Qui risiede il principale meccanismo dell’oppressione, dello sfruttamento e della dilapidazione della natura.

Il progetto della decrescita contiene valenze propositive se vista come azione di riappropriazione dei beni essenziali alla preservazione della vita e della creazione di relazioni umane consapevoli, vitali, più armoniose e capaci di proiettarsi nel futuro.

La decrescita come direzione di un possibile e desiderabile processo di transizione verso un’economia e, in generale, una organizzazione sociale più sostenibile e più equa.

Se vogliamo uscire dalla crisi dell’economia della crescita e del debito serve un cambiamento di orientamento etico e sociale, un cambio di mentalità, una cosmovisione diversa, una teoria economica opposta a quella dell’accumulazione, della competizione e del possesso esclusivo, un sistema di relazioni sociali fondato sulla reciprocità e sull’interdipendenza.

Per le cosiddette scienze economiche esiste solo ciò per cui qualcuno è disposto a spendere dei soldi (preference-satisfacion). Tutto ciò che non è immediatamente incorporabile nei cicli produttivi e tutti coloro che non sono solvibili sul mercato non contano, non servono a “fare Pil”.

Il fine della società si è rovesciato: ciò che conta non è il buon impiego delle persone (il lavoro nella sua più larga e creativa accezione) e il buono stato di salute dei cicli vitali degli ecosistemi naturali, ma il valore monetario degli oggetti che vengono prodotti e messi in vendita.  Nel processo di mercificazione capitalistico l’essere umano e la natura sono ridotti a mezzi e a strumenti da sacrificare sull’altare della produzione di oggetti da collocare sui mercati. “Il frutto del lavoro non può essere considerato più importante del lavoratore stesso” – scriveva F. Schumacher in: Piccolo è bello.

Nelle società della crescita avviene il rovesciamento dei fini con i mezzi, quel “rovesciamento del rapporto tra soggetto e oggetto” che anche Marx considerava come l’essenza del capitalismo. E’ così che l’economia è potuta diventare nella percezione comune un bene in sé e ha potuto imporre le sue leggi a tutta la società.

Ma la crisi oggi ha il merito di consentirci di mettere in discussione le radici dell’economia politica.

Troppe evidenze empiriche ci dicono che l’economia va da una parte mentre il pianeta e suoi abitanti vanno dall’altra: soffrono. In definitiva la crescita (delle produzioni e dei consumi che “fanno Pil”) va a discapito della qualità della vita.

La decrescita indica una inversione completa di rotta. Un ribaltamento dei valori di riferimento.

Una prospettiva che ingloba anche le “green and clean tec”, le “green company” (imprese responsabilizzate e orientate alla preservazione delle risorse), i “green jobs” (nuove competenze e profili professionali), il “green and fair trade” (clausole  ambientali e sociali negli scambi internazionali), il “green lifestyle” (cambiamento dei comportamenti e delle preferenze dei consumatori orientati alla sobrietà e all’equità), ma collocati in un quadro organico di “green society”. In questa visione di sistema la decrescita è il sentiero da seguire per diminuire i consumi di natura, la domanda di merci dannose e inutili, per restituire senso individuale e sociale al lavoro, per valorizzare le risorse locali, per territorializzare le produzioni, in definitiva: per imparare a soddisfare i propri bisogni e i propri interessi con ciò che si ha a disposizione, senza impoverire altre popolazioni e il futuro delle generazioni a venire. Ecco perché sarebbe bene uscire dal paradigma dello “sviluppo” (oramai ridotto a sinonimo di crescita) preferendo quello di futuro sostenibile che richiama il concetto di responsabilità.


La decrescita in concreto

La decrescita come percorso di liberazione e sottrazione progressiva di parte delle relazioni sociali dalla sfera dell’economia di mercato, non può che essere un’azione conflittuale e “dal basso”, bottom-up. Un trasferimento di risorse, tempo, energie e creatività dall’ambito del lavoro comprato dall’impresa ai fini del profitto e dell’accumulazione di denaro, ad un altro ambito dove prevalgono le ragioni delle buone relazioni umane, della condivisione e dell’equa utilizzazione delle risorse disponibili. Insomma, da una società dominata dal “pensiero unico” della massimizzazione del rendimento economico, ad una società plurale, dove convivono più e diverse forme di relazioni produttive, di modalità di lavoro e di scambio non necessariamente mediate dal denaro e non necessariamente dal “denaro a debito”. Ad esempio, è semplicemente assurdo usare valute internazionali come mezzi di scambio per operazioni a “KmZero”, tra persone che si frequentano abitualmente e per servizi di prossimità.

In generale l’azione della decrescita è abbassare il più possibile la sovranità (il potere di decisione) a livello locale. Sovranità alimentare, sovranità territoriale (decisioni urbanistiche), sovranità energetica (autonomia tramite l’autoproduzione), sovranità idrica (a livello di piani di bacino idrogeografico), sovranità sull’utilizzo del patrimonio storico, culturale, paesaggistico.

Viene da sè che i soggetti sociali di questa trasformazione sono le comunità degli abitanti dei luoghi.

Scrive Alberto Magnaghi che la “coscienza di luogo” è la “capacità di riacquisizione dello sguardo sul luogo come valore, ricchezza, relazione potenziale tra individuo, società locale e produzione di ricchezza. Un percorso da individuale a collettivo in cui l’elemento caratterizzante è la ricostruzione di elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali”.

La “coscienza di luogo”, quando questo è l’intero pianeta, è allora anche il modo per superare finalmente le separazioni tra coscienza di classe, di genere, di generazione, di specie ed acquistare quello sguardo egemonico, nel senso di olistico, che abbraccia lo spazio pubblico e ridà senso alla politica.

L’ultimo capitolo che rimane da scrivere è quindi il primo per importanza: la democrazia come conflitto permanente tra demos e kratos che siamo condannati ad agire ogni momento, come lotta permanente contro ogni forma di oppressione.


*Comunicazione ad un incontro di “Alternativa”, a Milano, il 24 novembre 2012.

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