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Le passioni fra processi di soggettivazione e macchine

di Sandro Vero*

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«Certo, il paradosso è che c’è stato bisogno di dimostrare che la passione, che fino a questo momento era ritenuto un giogo per l’uomo, poteva e doveva essere vista come ciò che l’avrebbe emancipato»
(P. Dardot e C. Lavalle, La nuova ragione del mondo, 2013

1. Un’antropologia delle passioni.

Il lettore attento scoprirà abbastanza presto come l’esergo tratto da Dardot e Lavalle sia un fruttuoso paradosso, rispetto alla tesi che questo scritto intende affermare. La passione, nella prospettiva antropologica che adotteremo, torna ad assumere le sembianze piene del giogo, ma lo fa seguendo delle linee “operative” piuttosto diverse rispetto a quelle previste dalla tradizione classica del pensiero: è giogo in quanto dispone il soggetto su un piano in cui la sua energia desiderante è captata e messa al servizio di obiettivi non suoi, senza che tuttavia occorra lungo il cammino alcuna “coercizione”.

Che possono mai avere in comune il tema del macchinico e quello dell’ingegneria delle passioni nel capitalismo contemporaneo? Peraltro, mentre il primo è stato pionieristicamente evidenziato dallo stesso Marx nell’ormai famoso Frammento sulle macchine (Marx, 1964) con annotazioni che rendono piena giustizia alla modernità del suo pensiero, sul secondo il marxismo tutto ha fatto calare una coltre assoluta di silenzio, disinteressandosi di fatto (ma anche di principio) della questione di come gli affetti lavorino spesso e (mal-)volentieri al servizio del capitale.

Occorre recuperare una prospettiva che faccia dell’“antropologia” delle passioni il perno di un’analisi di quei processi che conducono a una sorta di allineamento delle forze in campo nel lavoro: il capitale e il salario. Vale a dire quei processi nei quali la forza-lavoro viene “assoldata” dall’impresa, e non necessariamente con azioni coercitive.

Frédéric Lordon (Lordon, 2015) affronta, con uno strumentario gustosamente vario, la questione di tale allineamento – che è poi la questione di come possa funzionare una tecnica di arruolamento del salariato e della sua adesione alle istanze del padrone – nei termini spinoziani del conatus, ovvero «la forza con la quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere» (Spinoza, 1997, p. 197). L’energia che sottende il conatus è nient’altro che il desiderio, che spinge il soggetto a fare, a realizzare, a intraprendere. Per cui la questione dell’allineamento diviene quella dell’allineamento fra le istanze desideranti del padrone e le istanze desideranti del lavoratore. Lordon sviluppa con estrema chiarezza e rigore il concetto delle forze in campo della diade capitale/lavoro e precisa la necessità di distinguere fra le forze evitative (le passioni tristi), quelle in gioco nella lotta per la sopravvivenza materiale, e le forze propulsive (le passioni gioiose), quelle in gioco nella “realizzazione” di sé.

Per Lordon la filosofia spinoziana è senza dubbio filosofia del potere, in quanto senza dubbio è filosofia degli affetti e delle condizioni che rendono gli uomini soggetti al dominio di questi ultimi. Il potere essendo, per dirla con Foucault (1978), essenzialmente un’arte del far fare – che è poi l’effetto naturale degli affetti, cioè quella cosa che un’affezione provoca in me, ciò che mi fa fare – può essere adeguatamente descritto come un dispositivo di produzione e di induzione degli affetti (Lordon, cit., p. 84).

Insomma, ne apprendiamo una verità insieme evidente (ma non ovvia) e nascosta: il salario è quella parte della diade del lavoro in cui la forza necessaria al conatus padronale per realizzare il suo desiderio di fare è intercettata, imbrigliata, sfruttata attraverso l’esaltazione di una struttura antropologica, insita nella natura umana: l’essere dell’uomo un automa passionale, macchina governata dagli affetti, dei quali egli sconosce le condizioni causali esattamente nel momento in cui crede di saperne prevedere l’insorgenza e la destinazione. Un perfetto pronunciamento spinoziano.

Messe le cose in questo modo, sembra evidente a Lordon – e a noi che lo leggiamo – che la nozione di servitù volontaria è sbagliata. C’è servitù, non c’è alcuna volontà. E la servitù si addensa intorno al cuore appassionato dell’uomo, ancorché si tratti di una servitù interiore prima che esteriore, costitutiva della sua condizione esistenziale prima che di quella alienata nei processi di produzione.

 

2. Codici, segni e servitù.

L’impresa necessita di questo allineamento – secondo Lordon proprio nel senso vettoriale del termine – e ricorre ad ogni possibilità in campo per mobilitare le risorse disponibili nel “mercato del lavoro” al fine di garantirsi una piena adesione ai suoi propositi: ciò richiede che la leva non sia posta solo sotto le urgenze del sostentamento materiale, che darebbe (come ha dato fino a tutto il post-fordismo) al salariato un cospicuo margine di autonomia che gli può consentire di interpretare la “vera vita” in un altrove rispetto al lavoro (si lavora per vivere, la vera vita è altrove…); occorre mettere in gioco il desiderio nella sua forma più erotica, vale a dire il desiderio-amore, per l’impresa, per il padrone, per i suoi obiettivi. In sintesi: l’amore per il lavoro, e per tutte le poste intermedie che diano una qualche soddisfazione in quella regione dell’immanenza che oggi ha fatto proliferare la cosiddetta scienza delle risorse umane.

Per questo, i linguaggi utilizzati per la produzione di senso utile all’allineamento devono avere la prontezza e la qualifica per agire in perfetta sincronia e per farlo rapidamente. La loro funzione preminente non dovrà dunque essere quella semantica (che richiede un esercizio costantemente aperto all’interrogazione), né tanto meno quella sintattica (che persegue finalità creative destinate solo ad élite esclusive), dovrà bensì essere quella pragmatica, che favorisce costantemente un acting out totalmente separato dal senso, immerso in una catena segnica di natura macchinica, in cui non è più utile distinguere soggetti da oggetti, uomini da macchine, decisori da esecutori (cfr. Lazzarato, 2014; sviluppa il complesso tema delle semiotiche pragmatiche, ovvero, nel linguaggio dell’Autore, delle “semiotiche a-significanti”).

Per quanto nella tradizione linguistica moderna ogni linguaggio sia visto, per così dire, come tri-partito, capace cioè di assolvere le tre funzioni – sintattica, semantica e pragmatica (vd. Breckle, 1975; per una presentazione esauriente delle problematiche del linguaggio fra filosofia del linguaggio, semiotica e semantica) – fisiologicamente senza prevaricazioni dell’una sulle altre, è evidente che alcuni linguaggi particolari, in alcuni contesti specifici, mostrino una più spiccata propensione specialistica in una delle tre dimensioni semiotiche.

La funzione pragmatica è quella che il linguaggio espleta nel suo essere un dispositivo “azionante”, vale a dire nella sua capacità di far fare. Un semplice esempio illustrerà quanto enunciato.

Mettiamo che due amici si incontrino in piazza, in una gelida mattina invernale. Mettiamo poi che uno dei due si rivolga all’altro dicendogli «ma la sciarpa…?». Consideriamo tale enunciazione, pur nel suo carattere minimale, un episodio comunicativo completo, un atto semiotico compiuto. La funzione semantica è assolta nel riferimento ad alcuni significati che vengono richiamati dal segno “ma” e dal segno “sciarpa”. Il segno “la”, che sembra avere un ruolo esclusivamente sintattico (la sciarpa è di genere grammaticale femminile), rivela – ad un’analisi più accurata – la sua pregnanza semantica, nella logica “binaria”, escludente, che sottende il suo uso e che lo distingue dal segno “una” (vedremo dopo meglio perché “la” fungerà diversamente da “una”). La funzione sintattica, strutturalmente costitutiva dell’enunciato, è espletata nella messa in forma dei contenuti espressi (il “ma” prima di “sciarpa” non è la stessa cosa di un “ma” dopo “sciarpa”, ferma restando la plausibilità grammaticale).  La funzione pragmatica, che è quella che qui ci interessa evidenziare, è espletata nel processo “comportamentale” che l’enunciazione innesca (laddove per “comportamentale” intendiamo qualcosa di largo, comprensivo, che abbraccia sia l’ambito delle azioni fisiche sia quello delle azioni “virtuali”, mentali).

Per capire cosa qui si intenda dobbiamo allargare la prospettiva, assumendo come fattore chiave il “contesto”, nozione sfumata e poco chiara che tuttavia può essere definita, ad hoc, come l’insieme di tutti gli elementi che concorrono alla produzione di effetti da parte dell’enunciato. Proviamo a immaginare che il contesto sia affollato da cose come: un cielo grigio e minaccioso, un forte vento del nord, molto freddo, gli occhi dell’”enunciatore” rivolti verso l’alto (cioè verso il cielo grigio e minaccioso), il tono vocale perentorio ma anche protettivo, genitoriale. E, ovviamente, tanta altra roba che qui, per economia, non tiriamo dentro al nostro discorso.

L’enunciato non riduce alla sua decodifica semantica la portata comunicativa dell’enunciazione, insiste invece sul registro del fattuale, pretende di innescare una catena non soltanto interpretativa ma anche e soprattutto operativa che si avvale di un presupposto esperienziale comune (i due si conoscono, recentemente l’enunciatore ha regalato una sciarpa all’amico). L’intero spettro semiotico va così dalla comprensione sintattico/semantica della frase all’induzione a fornire un’informazione sulla sciarpa regalata («dov’è, specie con questo tempo?»), fino all’induzione di un vero e proprio stato d’animo che renda molto probabile il fatto che nell’occasione della prossima uscita l’amico la sciarpa se la porterà con sé!

Dunque, la funzione precipua di questo messaggio non è quella di informare («c’è un tempo da lupi») né quella di procurare un’informazione di ritorno («dov’è la sciarpa – non una – ma la sciarpa che ti ho regalato?»). La sua funzione precipua è quella di far tornare l’amico a casa con la convinzione (supportata da un adeguato stato d’animo) che dovrà portarsi la sciarpa con sé da lì in avanti! Questa è la funzione pragmatica: il linguaggio che si fa cosa fra le cose, agente di induzione di un’azione, catena semiotica di un tipo che, con Deleuze e Guattari, diremo assolutamente e fortemente macchinico. In fondo, che l’amico comprenda, mediante un adeguato processo di pensiero, che è saggio usare la sciarpa con un tempo simile, importa fino a un certo punto: quello che realmente importa è che lo faccia! (cfr. Konings, cit., e vedi nello specifico p. 53; qui è sottolineato il carattere pragmatico dei segni/potere nel capitalismo).

 

3. L’allineamento.

Tornando alle vicende della diade Capitale/Salario, che Lordon descrive con minuzia e arguzia nella loro reciproca dipendenza, si intende meglio a questo punto cosa voglia dire che tutte le astuzie di cui il primo può essere capace devono farsi soprattutto astuzie linguistiche, più esattamente semiotiche, se si vorrà che il compimento di quella cosa tanto ambita (quanto nascosta) che è l’allineamento dei due desideri (di fare impresa e di sopravvivere) non lasci scarto alcuno e annetta al rapporto anche tutto quello che si può per azzerare ogni barlume di ortogonalità (sempre in senso vettoriale). Occorrerà che il mondo delle passioni – sorvegliate certo, previste certamente – che pure il salariato (oggi anche e soprattutto il precario, che è di solito prestatore di opera intellettuale) cova dentro di sé, si trasformi in una fonte inesauribile di inneschi, microesplosioni quotidiane che generano effetti interni e poi, se saggiamente governati, effetti esterni, che vanno a comporre quella capillare rete di reclutamento al sistema che persegue la piena continuità fra condizioni apparentemente lontane quali la necessità di sopravvivere, l’opportunità di consumare e l’occasione di trarre gioia dal proprio lavoro.

 

4. Il debito.

Diviene ancora più interessante comprendere come tale strategia capillare di micro-attivazioni affettive sia percorsa non soltanto dalla tensione costante per l’obiettivo dell’allineamento – che pure, nella sua cifra di assolutezza, rappresenta una notevole novità introdotta dal neo-liberismo – ma anche da un altro motivo ricorrente e strutturalmente coeso quale il debito (vd. per questo punto Graeber, 2012; Lazzarato, 2012; e Lazzarato, 2013), sia nella sua forma tecnica di micro-credito quotidianamente proposto al salariato consumatore sia – e soprattutto – nella forma di un’etica rovesciata che non prevede alcuna possibilità di redenzione (vd., per il tema dell’etica debitoria, Stimilli, 2014; Stimilli, 2015; e lo studio a cura di Gentili, Ponzi e Stimilli, 2014, sul frammento di Benjamin, contenuto nel reading, Kapitalismus als Religion, 1921).

Il soggetto indebitato non è soltanto una figura fra le tante di un’epica capitalistica che racconta sé stessa con arroganza (il soggetto imprenditore di sé è un soggetto cui viene demandata la gestione del suo debito) ma un pezzo di realtà dell’uomo contemporaneo che resiste ad ogni ridimensionamento storico. Ciò che forse manca all’analisi di Lordon – peraltro completissima – è il riferimento a questa ontologia del debito, che richiede costanti pratiche di cattura e insieme di definizione, a sua volta costantemente trascesa e riformulata (oggi ti proponiamo di indebitarti fin qui, non oltre, domani ne riparliamo…).

 

5. L’accelerazionismo.

Il passaggio necessario alla comprensione della continuità tematica di passioni e macchine è brillantemente evidenziato dal volume collettaneo curato da Matteo Pasquinelli (Pasquinelli, a c., 2014) e in special modo nello scritto di esordio del suo reading sull’accelerazionismo a firma di Williams e Srnicek (Williams e Srnicek, 2013, in Pasquinelli, cit., pp. 17-28):

«Una tensione più profonda si trova all’interno del neoliberismo anche nella sua rappresentazione come veicolo della modernità, come sinonimo letterale della modernizzazione, mentre promette un futuro che è costitutivamente incapace di mantenere. In effetti, lo sviluppo del neoliberismo, piuttosto che attivare la creatività degli individui, ha mostrato una tendenza verso l’eliminazione dell’invenzione cognitiva, a favore di una linea di produzione affettiva fatta solo di interazioni codificate*, accoppiata a filiere di distribuzione globali e ad una zona di produzione neo-fordista nell’estremo oriente» (entrambi i corsivi della citazione nostri).

La produzione affettiva rimanda corposamente alla inesausta grammatica degli affetti, la grammatica passionale, frequentata in modo certosino dal capitale in assetto di controllo semiotico, le interazioni codificate rimandando alla più generale realtà macchinica in cui si affastellano e si sostengono reciprocamente lavoro e macchine, vita e macchine, lavoro e vita (non a caso sempre più confusi), umano e macchinico.


Bibliografia
BRECKLE Herbert (1975); Introduzione alla Semantica, tr.it. Il Mulino, Bologna.
DARDOT Pierre e LAVALLE Christian (2013); La nuova ragione del mondo, tr.it. DeriveApprodi, Roma.
FOUCAULT Michel (2008); La volontà di sapere, tr.it. Feltrinelli, Milano.
GENTILI Dario, PONZI Mauro, STIMILLI Elettra a c., (2104); Il culto del capitale, Quodlibet, Macerata.
GRAEBER David (2012): Il debito, i primi 5000 anni, tr.it. Il Saggiatore, Milano.
KONINGS Martijn (2015); The Emotional Logic of Capitalism, Stanford University Press, Stanford Ca.
LAZZARATO Maurizio (2012);La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma.
LAZZARATO Maurizio (2013); Il governo dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma.
LAZZARATO Maurizio (2014); Signs and Machines, Semiotext(e), Pasadena (CA).
LORDON Frédéric (2015); Capitalismo, desiderio e servitù; tr.it. DeriveApprodi, Roma.
MARX Karl (1964); Frammento sulle Macchine, tr.it. in Quaderni Rossi, 4, pp.289-300.
PASQUINELLI Matteo (2014) (a c.); Gli algoritmi del capitale, Ombre Corte, Verona. SPINOZA Baruch (2014): Etica e Trattato Teologico-Politico, tr.it. UTET, Milano.
WILLIAMS Alex e SRNICECK Nick (2013); Manifesto per una politica accelerazionista, tr.it. in Pasquinelli, cit., pp. 17-28.
STIMILLIElettra (2015); Debito e colpa, EdiEsse Roma.

*Sandro Vero è psicoterapeuta. Conseguita la laurea in psicologia sperimentale e la specializzazione in medicina psicosomatica, è stato docente a contratto di psicologia della comunicazione per l’Università di Catania. Ha scritto numerosi articoli scientifici e due volumi: Le strutture profonde della comunicazione (Bonanno), e Il corpo disabitato (FrancoAngeli). Giornalista, scrive per alcune testate online e per la rivista di cultura “Le Fate”. I suoi interessi filosofici vertono sui temi della filosofia politica, dell’epistemologia e della logica, del pensiero di Foucault.

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