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Benvenuti nella civiltà del paradosso del mentitore

di Slavoj Žižek

Death in Venice shoot.jpgLa verità soggettiva si contrappone alla verità fattuale in modo analogo all’opposizione tra isteria e nevrosi ossessiva: la prima è una verità sotto forma di menzogna, la seconda una menzogna sotto forma di verità

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Il cosiddetto paradosso del mentitore (“ciò che sto dicendo è falso”), è stato discusso fino alla nausea dall’antica Grecia all’India fino alla filosofia del Novecento. Il paradosso implica che se la mia affermazione è vera, allora essa è falsa (“se ciò che sto dicendo è falso, allora ciò che sto dicendo non è falso”), e viceversa. Invece di perdere tempo nella rete infinita di argomentazioni e contro-argomentazioni, rivolgeremo lo sguardo a Jacques Lacan, il quale ha proposto una soluzione speciale a questo problema distinguendo tra enunciato ed enunciazione, ovvero tra il contenuto dell’enunciato e la posizione soggettiva implicata o espressa nell’atto dell’enunciazione. Non appena introduciamo questa distinzione, notiamo immediatamente che in sé un’affermazione del tipo “tutto ciò che dico è falso” può essere tanto vera quanto falsa, ma anche che una frase come “dico sempre il falso” può rappresentare perfettamente la mia percezione soggettiva di star vivendo un’esistenza inautentica o fasulla. Il discorso vale anche a rovescio: l’affermazione “so di essere un pezzo di merda” potrebbe di per sé essere letteralmente vera, ma falsa a livello della posizione soggettiva che pretende di ostentare – potrebbe essere per esempio qualcosa che dico per rappresentarmi agli altri come qualcuno che almeno è onesto con se stesso e che NON è completamente “un pezzo di merda”… La nostra risposta a quest’ultimo enunciatore potrebbe essere la parafrasi di una famosa gag di Groucho Marx: “Ti comporti come un pezzo di merda e ammetti di essere un pezzo di merda, ma questo non ci trarrà in inganno – tu sei un pezzo di merda!”

Perché perdere tempo con questi paradossi logici triti e ritriti? Perché nell’era della “post-verità” del populismo di destra, lo sfruttamento di questo paradosso ha raggiunto un vero e proprio apice: il discorso politico di oggi non può più essere compreso senza introdurvi la distinzione tra enunciato ed enunciazione. Entriamo in medias res. Dopo la rielezione di Trump nel 2024, Alexandria Ocasio-Cortez, la quale ha mantenuto il suo seggio al Congresso, ha fatto pubblicamente appello ai propri elettori che hanno votato per lei al Senato, ma per Trump come Presidente, per cercare di capire come mai abbiano fatto una scelta così strana e discordante. La deputata ha riscontrato che la ragione principale, in contrasto con i calcoli manipolatori di Kamala Harris e degli altri democratici, era che lei e Trump apparivano più sinceri agli occhi degli elettori. Questo è anche il motivo per cui, quando Trump si è contraddetto, o è stato colto a mentire spudoratamente, paradossalmente questi smascheramenti non hanno fatto altro che avvantaggiarlo: per i suoi partigiani, le sue bugie sono una riprova del fatto che egli agisce semplicemente come un normale essere umano che non si affida soltanto ai suoi esperti consulenti, ma dice senza mezzi termini quello che gli passa per la testa. Detto altrimenti, le stesse incongruenze e falsità degli enunciati di Trump funzionano come un segno che, a livello dell’enunciazione, egli parla come ogni altro essere umano autentico e sincero – una perfetta dimostrazione di come sia possibile falsare anche la posizione soggettiva implicata in un’enunciazione.

La verità soggettiva si contrappone alla verità fattuale in modo analogo all’opposizione tra isteria e nevrosi ossessiva: la prima è una verità sotto forma di menzogna, la seconda una menzogna sotto forma di verità. Il populismo di destra e il politicamente corretto della sinistra liberal praticano entrambi queste due complementari forme di menzogna (che ricalcano la distinzione tra isteria e nevrosi ossessiva). Da un lato, l’affermazione isterica afferma la verità sotto forma di menzogna: ciò che viene detto non è letteralmente vero, ma la menzogna esprime in forma ingannevole una denuncia autentica. Dall’altro, ciò che l’affermazione ossessiva esprime come letteralmente vero, non è che una verità al servizio di una più articolata e complessa bugia. Populisti e liberali del politicamente corretto ricorrono entrambi ampiamente a tutte e due queste strategie.

In primo luogo: tutti mentono a proposito dei fatti, se ciò serve a corroborare quella che i populisti chiamano “la Verità superiore” delle loro rispettive Cause. Per esempio, alcuni fondamentalisti religiosi affermano di “mentire per Gesù”: per prevenire il “crimine orribile” dell’aborto, essi ritengono accettabile diffondere false “verità” scientifiche sulla vita dei feti e sui rischi dell’interruzione di gravidanza; o ancora, al fine di sostenere l’allattamento al seno, questi fondamentalisti considerano accettabile presentare come un “fatto scientifico” la teoria che individua una correlazione tra astensione dall’allattamento e cancro al seno. Il populista medio che protesta contro l’immigrazione diffonde spudoratamente storie non verificate su stupri e altri crimini da parte dei rifugiati, in modo da rinforzare e diffondere l’opinione che i migranti rappresentano una seria minaccia al nostro stile di vita. Spesso però anche gli stessi sostenitori liberali del politicamente corretto operano in modo simile: come quando tralasciano volutamente le differenze oggettive tra “stili di vita” di immigrati ed europei, poiché menzionarle potrebbe esporre a critiche di eurocentrismo. Ricordiamo il caso di Rotherham nel Regno Unito, dove una decina di anni fa la polizia scoprì che un gruppo di pakistani era al centro di una rete di abusi sui minori che, secondo alcuni rapporti, avrebbe coinvolto nell’arco di diversi decenni oltre un migliaio di giovanissime ragazze britanniche, tendenzialmente bianche: i dati furono ignorati o minimizzati, per non scatenare una reazione islamofobica…

La strategia opposta – ovvero quella di mentire dicendo la verità – è altrettanto ampiamente utilizzata da entrambi i poli. Se è fin troppo evidente che i populisti anti-immigrazione sostengono strategicamente delle vere e proprie falsità, è vero anche al contempo che essi si servono di briciole di verità fattuali per donare un’aura di veridicità alle loro menzogne razziste; d’altra parte è vero anche che gli stessi partigiani del politicamente corretto praticano questa sottile arte di mentire attraverso la verità: nella loro lotta contro il razzismo e il sessismo infatti essi fanno spesso riferimento a fatti cruciali, a cui non di rado danno però un significato fuorviante. Se da una parte la protesta populista proietta sul nemico esterno la frustrazione reale e il diffuso senso di smarrimento della gente, dall’altra la sinistra liberal del politicamente corretto si serve dei suoi reali valori e principi emancipatorii (come la denuncia del sessismo e del razzismo nel linguaggio, e così via) per riaffermare la propria superiorità morale, e ostacolare così un vero cambiamento socio-economico.

L’ironia suprema è che la destra populista, sebbene condanni nella teoria il relativismo storico (sempre che le loro auto-giustificazioni meritino di essere chiamate teorie), se ne serve nella pratica in modo ancora più brutale della sinistra liberal. In ogni caso, la posizione corretta non è quella di attenersi alla semplice realtà dei fatti: in un certo qual modo, infatti, ci SONO “fatti alternativi” – certo, non nel senso di mettersi a disquisire se l’Olocausto sia accaduto o meno. Per inciso, tutti i revisionisti dell’Olocausto che ho conosciuto, da David Irving in poi, sostengono in modo rigorosamente empirico di verificare “i dati”: nessuno di loro parla di relativismo postmoderno! “I dati” costituiscono un dominio sempre più vasto e impenetrabile, il problema è che noi li osserviamo da quello che l’ermeneutica chiama un certo orizzonte di comprensione, privilegiandone alcuni e omettendone altri. Tutte le nostre Storie non sono altro che questo: racconti, combinazioni di dati (selezionati) in narrazioni coerenti – non sono mai riproduzioni fotografiche della realtà. Per esempio, uno storico antisemita potrebbe facilmente scrivere una panoramica sul ruolo degli ebrei nella vita sociale della Germania negli anni ’20, mostrando come essi fossero effettivamente maggioritari in molti campi professionali (avvocati, giornalisti, artisti): tutto – probabilmente – più o meno vero, ma palesemente al servizio di una menzogna. Le bugie più efficaci sono quelle che mescolano menzogna e verità, bugie che riproducono – o fanno mostra di riprodurre – soltanto dati fattuali.

Prendiamo la storia di un Paese: si potrebbe raccontarla dal punto di vista politico (concentrandosi sui capricci del potere), oppure ci si potrebbe concentrare sullo sviluppo economico, sulle lotte ideologiche, sulla miseria sociale o sui moti di protesta. Ognuno di questi approcci potrebbe essere supportato in modo accurato da fatti, ma ciò non li rende tutti ugualmente “veri” nel senso pieno del termine. Non c’è nulla di “relativista” nel fatto che la storia umana sia sempre stata narrata da un certo punto di vista, e appoggiata da certi interessi ideologici. La cosa più difficile è mostrare come questi punti di vista “interessati” non sono tutti ugualmente veri, che alcuni di essi sono effettivamente più “veritieri” di altri. Per esempio, se si racconta la storia della Germania nazista dal punto di vista della sofferenza di coloro che sono stati oppressi, e se quindi ci si lascia guidare da un interesse universale per l’emancipazione umana, non si tratta più soltanto di un altro punto di vista soggettivo: una tale interpretazione della storia è anche immanentemente “più vera”, perché descrive in modo adeguato le dinamiche della totalità sociale che ha dato vita al nazismo. Gli “interessi soggettivi” non si equivalgono, e non soltanto perché alcuni sono eticamente preferibili ad altri, ma soprattutto perché gli “interessi soggettivi” non stanno al di fuori di una società: sono essi stessi momenti della società, formati da partecipanti attivi (o passivi) degli stessi processi sociali. È per questo che non possono esistere narrazioni “neutrali” o “oggettive” della guerra in Medio Oriente o dell’aggressione russa all’Ucraina: la verità su questi eventi si può dire solo a partire dal punto di vista in situazione di una vittima. Il titolo di uno dei primi capolavori di Habermas, Conoscenza e interesse, è forse più attuale che mai.

Per approfondire questa dimensione, dovremmo mobilitare un’altra nozione che svolge un ruolo fondamentale nell’analisi odierna dell’ideologia: la nozione di inter-passività introdotta da Robert Pfaller. L’inter-passività è opposta all’hegeliana List der Vernunft (astuzia della ragione), secondo cui io sono attivo attraverso l’altro: ovvero io posso rimanere passivo, seduto comodamente sullo sfondo, mentre l’Altro agisce al mio posto. Invece di colpire il metallo con un martello, la macchina può farlo per me; invece di far girare il mulino io stesso, l’acqua può farlo al posto mio: raggiungo il mio obiettivo interponendo un altro oggetto naturale tra me e l’oggetto su cui sto lavorando. Lo stesso può accadere a livello interpersonale: invece di attaccare direttamente il mio nemico istigo una lotta tra lui e un altro, in modo da poter osservare comodamente i due mentre si fanno a pezzi a vicenda. Nel caso dell’inter-passività, per contro, sono passivo grazie all’altro: concedo l’aspetto passivo (il godimento) della mia esperienza all’altro, mentre posso restare attivamente impegnato (per esempio, posso continuare a lavorare la sera mentre il videoregistratore, guardando la televisione al mio posto, gode passivamente in mia vece, oppure posso prendere accordi finanziari per l’eredità del defunto mentre gli altri presenti al funerale compiangono il defunto al mio posto).

Questo ci porta alla nozione di falsa attività: le persone non agiscono solo allo scopo di cambiare qualcosa, ma possono agire anche per impedire che qualcosa accada, affinché nulla cambi. In ciò risiede la strategia tipica del nevrotico ossessivo: egli è freneticamente attivo al solo scopo di impedire che qualcosa di reale accada. In una situazione di gruppo in cui la tensione rischia di esplodere, l’ossessivo parla tutto il tempo al fine di evitare quel momento di silenzio imbarazzante che costringerebbe i partecipanti a confrontarsi apertamente con la tensione nell’aria. Durante il trattamento psicoanalitico, i nevrotici ossessivi parlano senza tregua, inondando l’analista di aneddoti, sogni e idee: la loro incessante attività è sostenuta dalla paura di fondo che se smettessero di parlare anche per un solo istante, l’analista potrebbe porre loro la domanda che conta davvero – in altre parole, parlano per tenere l’analista paralizzato. Nella maggior parte della politica progressista di oggi il pericolo non è la passività, ma la pseudo-attività, la compulsione a essere attivi e partecipare. Le persone intervengono a ogni istante con l’intento di “fare qualcosa”; gli intellettuali partecipano senza sosta a dibattiti privi di significato, mentre la cosa veramente difficile da fare sarebbe piuttosto fare un passo indietro e ritirarsi da tutto ciò…

Coloro che sono al potere spesso preferiscono la partecipazione critica al silenzio, perché attraverso di essa possono coinvolgerci meglio nel loro dialogo, assicurandosi così che la nostra inquietante passività sia rotta. L’enfasi assoluta sulla necessità di agire, di fare qualcosa, tradisce la posizione soggettiva di non voler davvero fare nulla. Più si parla dell’imminente catastrofe ecologica, meno siamo pronti a fare davvero alcunché per combatterla. In contrasto con una modalità così inter-passiva, in cui siamo attivi tutto il tempo per assicurarci che nulla cambi davvero, il primo passo veramente critico sarebbe quello di ritirarsi nella passività e rifiutare di partecipare. Questo primo passo sarebbe infatti l’unico che potrebbe liberare il terreno per la vera attività, per un atto che cambierebbe effettivamente le coordinate della nostra costellazione.

Le cose diventano ancora più complesse quando interessano quel particolare atto che consiste nel chiedere scusa: se ho ferito qualcuno con un’osservazione scortese, la cosa giusta da fare per me è offrire delle scuse sincere, e la cosa giusta da fare per l’altro è dire qualcosa del tipo: “grazie, lo apprezzo, ma non mi sono offeso, sapevo che non lo pensavi e quindi non mi devi davvero delle scuse!”. Il punto è ovviamente che, sebbene il risultato finale sia che le scuse non sono necessarie, si deve comunque attraversare l’intero processo; “non ti devi scusare” può essere detto solo dopo che ho offerto le mie scuse. È così, sebbene formalmente “non è successo nulla” e le scuse non sono necessarie, in questa dinamica si produce un guadagno reale (e forse si salva anche un’amicizia). Le scuse sono ben riuscite quando ottengono di essere proclamate superflue. Una strategia simile è in gioco quando una rapida ammissione serve da giustificazione per evitare delle scuse reali (“Ho detto che mi dispiace, quindi stai zitto e smettila di infastidirmi!”).

Il Partito Comunista Cinese (tra molti altri attori politici) ha fornito un modello analogo di manipolazione del divario tra enunciato ed enunciazione. I cinesi hanno imparato la lezione del fallimento di Gorbaciov: il pieno e totale riconoscimento dei “crimini fondamentali” non fa altro che far crollare l’intero sistema. I “crimini fondamentali” del regime devono quindi continuare a essere rinnegati: è vero, vengono denunciati alcuni “eccessi” ed “errori” maoisti (il Grande balzo in avanti e la devastante carestia che ne è seguita, oppure la Rivoluzione culturale), ma al contempo la valutazione di Deng sull’operato di Mao (settanta per cento positivo e trenta per cento negativo) è sancita come formula ufficiale. Questa valutazione funziona come una conclusione formale che rende superflua qualsiasi rielaborazione ulteriore. Anche se Mao è cattivo al trenta per cento, il pieno impatto simbolico di questa ammissione è neutralizzato: egli continua a essere celebrato come padre fondatore della nazione, con il suo corpo in un mausoleo e la sua immagine su ogni banconota. Si tratta qui di un chiaro caso di disconoscimento feticistico: anche se sappiamo benissimo che Mao ha commesso degli errori e causato immense sofferenze, la sua figura rimane magicamente indenne da questi fatti. In questo modo i comunisti cinesi sono riusciti ad avere la botte piena e la moglie ubriaca: i cambiamenti radicali apportati alla politica sociale (in primis, la liberalizzazione economica) si combinano perfettamente con l’apparente continuazione della precedente linea di Partito. La procedura qui è quella della neutralizzazione (o, meglio, ciò che Freud chiamava Isolierung): ammetti le cose orribili ma proibisci ogni reazione soggettiva (l’orrore per quello che è accaduto) – milioni di morti diventano un fatto neutrale. Quando oggi i media israeliani (e occidentali) parlano della distruzione di Gaza, non mettono forse in pratica una neutralizzazione di questo tipo? I terroristi di Hamas torturano e trucidano, mentre le vittime dell’IDF sono sempre soltanto eliminate o neutralizzate

Poi ci sono le dicerie (mi rifaccio qui al libro di Mladen Dolar, Rumors, pubblicato da Polity Press nel 2024), che funzionano in modo strano per quanto riguarda la verità: il fatto in quanto tale, la verità fattuale di una diceria, è sospesa (o piuttosto trattata con indifferenza – “non so se è vero, ma questo è quello che ho sentito…”), mentre il suo contenuto conserva intatta la propria efficacia simbolica: godiamo nel raccontare le indiscrezioni, esse ci appassionano. E’ un fenomeno differente dal disconoscimento feticistico (“so benissimo che non è vero, ma comunque… ci credo”), quasi una sorta di sua inversione, ovvero: “non posso dire di credere che questo sia vero, che sia successo davvero, ma comunque… ecco quello che so”. Per quanto riguarda l’esercizio del potere, lo spazio delle indiscrezioni è ambiguo. Le “sporche” dicerie possono sostenere il potere e la sua autorità (da Ataturk a Tito), ma esse svolgono a volte anche un ruolo decisivo nei disordini e nelle agitazioni, comprese le proteste anti-immigrazione (l’Europa è ora piena di voci che corrono su immigrati che violentano le nostre donne e di come le autorità censurino le notizie su questi stupri). Ci sono poi anche quelle che si può essere tentati di chiamare “buone voci”, a volte necessarie per innescare un’esplosione rivoluzionaria. Esemplare è la Grande paura (la Grande Peur), il panico generale che ebbe luogo tra il 17 luglio e il 3 agosto 1789, all’inizio della Rivoluzione francese.

Non posso fare a meno di aggiungere a questa lista un caso unico nella storia del cinema. L’opera cinematografica di Luchino Visconti è caratterizzata da una tensione tra l’impegno politico comunista e la fascinazione per la Cosa incestuosa; quest’ultima ha per lui un evidente peso politico, come lo ha d’altronde il godimento decadente delle vecchie classi dominanti in rovina. I due supremi esempi di questo fascino mortale sono sicuramente Morte a Venezia e il meno noto capolavoro in bianco e nero Vaghe stelle dell’Orsa, un gioiello del cinema da camera. Ciò che i due film hanno in comune non è soltanto la passione “privata” e proibita che conduce alla morte (la passione del compositore per il bellissimo ragazzo in Morte a Venezia, la passione incestuosa di fratello e sorella in Vaghe stelle dall’altra), ma anche il dualismo tra l’impegno politico dell’artista di sinistra (fino alla sua morte Visconti sarà membro del Partito Comunista Italiano) e la sua fascinazione per il godimento decadente della classe dirigente in rovina (un piacere-nel-dolore); un dualismo che funge da elementare spaccatura tra enunciato ed enunciazione. È come se Visconti, da tipico rivoluzionario puritano moralista, condannasse pubblicamente ciò di cui gode e da cui è personalmente affascinato, come se il suo pubblico appoggio all’abolizione politica della vecchia classe fosse “trans-funzionalizzato” in uno strumento attraverso cui procurarsi un piacere decadente nel dolore, osservando lo spettacolo della propria rovina. Non vale lo stesso anche per distopie come The Handmaid’s Tale? Non siamo segretamente affascinati dalle descrizioni dettagliate dell’oppressione delle donne che pure, ovviamente, tutti condanniamo?

Le indiscrezioni sembrano adattarsi perfettamente alla situazione odierna, che in molti caratterizzano in modo erroneo come l’epoca della “morte della verità”. L’implicito di cui si servono coloro che usano questo termine è che una volta (diciamo, fino agli anni ’80), nonostante tutte le manipolazioni e le distorsioni, la verità avrebbe sempre in qualche maniera prevalso, mentre la “morte della verità” rappresenterebbe un fenomeno di data recente. Una rapida panoramica ci dice però che le cose non stanno affatto così: quante violazioni dei diritti umani e crisi umanitarie sono rimaste invisibili, dalla guerra del Vietnam all’invasione dell’Iraq? Basti ricordare i tempi di Reagan, Nixon, Bush… Il passato non era affatto più “veritiero”, il punto è piuttosto che un tempo l’egemonia ideologica era molto più forte: invece della grande confusione odierna di “verità locali”, nel passato una sola “verità” (o, piuttosto, una grande Bugia) prevaleva facilmente e per lungo tempo indisturbata. In Occidente, questa è stata la Verità liberal-democratica (con la sue versioni di sinistra o di destra). Quello che sta succedendo oggi con l’ondata populista, che ha sconvolto l’establishment politico occidentale, è proprio il crollo di quella Verità/Menzogna che per decenni ha funzionato come fondamento ideologico di questo establishment. E la ragione ultima di questo disfacimento non è stata affatto l’ascesa del relativismo postmoderno, bensì proprio il fallimento politico dell’establishment dominante, la sua incapacità di mantenere la propria egemonia ideologica.

Adesso allora capiamo meglio cos’è che davvero deplorano coloro che lamentano la “morte della verità”: la disintegrazione di una grande Narrazione, più o meno accettata dalla maggioranza, che portava stabilità ideologica alla società. Il segreto di coloro che maledicono il “relativismo storico” è che essi hanno perso il solido terreno sotto i piedi di una grande Verità (o di una grande Menzogna) che forniva a tutti una “mappa cognitiva” comune di partenza. In breve, sono proprio coloro che deplorano la “morte della verità” i veri e più radicali agenti di questa morte: il loro motto implicito è quello attribuito a Goethe, “besser Unrecht als Unordnung” – meglio l’ingiustizia che il disordine; meglio una grande Menzogna che una realtà composta da un amalgama di menzogna e verità. Ecco perché, quando sentiamo affermare che, sotto il continuo “collasso dell’ecosistema informatico”, la nostra società sta cadendo in frantumi, dovremmo essere molto chiari su cosa questo significhi: non soltanto che le notizie false abbondano, ma che ciò che si sta disintegrando è la grande Menzogna che fino a ora ha tenuto insieme il nostro tessuto sociale. La “morte della verità” apre così alla possibilità di una nuova autentica verità… o a quella di una nuova Grande Menzogna ancora peggiore. Non è forse ciò che sta accadendo con la ritirata della democrazia liberale, il suo venire passo dopo passo messa in ombra dalle molteplici figure del neofascismo, dal populismo neofeudale all’autoritarismo religioso?

Traduzione di Alessandro Sbordoni


La versione originale in inglese di questo articolo è stata pubblicata qui, lo pubblichiamo in traduzione con il consenso dell’autore

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