La Banca Romana e il lungo filo che porta fino a Siena
di Giuseppe Gagliano
Lo scandalo della Banca Romana appartiene a un’Italia lontana, quella dei salotti umbertini, dei ministri che si muovevano tra Montecitorio e i palazzi romani con passo felpato, dei giornali che sapevano ma tacevano, dei governi che cadevano per un dossier rimasto troppo a lungo chiuso in un cassetto. Ma più si osserva quella vicenda e più si ha la sensazione che l’Italia, nei suoi tratti profondi, non sia mai cambiata davvero. Era il 1893, eppure la storia potrebbe essere scivolata senza sforzo fino ai giorni in cui il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo, veniva trascinato sulla scena pubblica tra svalutazioni, aumenti di capitale, derivati travestiti da strumenti salvifici e un intreccio di poteri che rendeva impossibile distinguere ciò che era politico da ciò che era bancario.
La Banca Romana era, all’epoca, uno dei sei istituti autorizzati a emettere moneta. Un privilegio enorme che avrebbe richiesto rigore, trasparenza, controlli severi. Era invece gestita come un feudo personale, un crocevia tra finanza e potere, dove la carta moneta non era un bene pubblico ma un passepartout per agevolazioni, prestiti a fondo perduto, salvataggi selettivi. Le sue casse si svuotavano mentre Roma, proclamata capitale da poco, diventava un cantiere immenso. Cantieri gonfiati, terreni venduti e rivenduti, palazzi costruiti con soldi presi a prestito e mai restituiti. La crisi immobiliare, maturata con la stessa velocità con cui le strade della città prendevano forma, travolse la banca come un’onda lunga. E la risposta della dirigenza fu un gesto che appartiene alla lunga tradizione delle scorciatoie italiane: stampare più denaro di quanto fosse consentito, creare una doppia contabilità, mascherare buchi con altri buchi, rimandare la resa dei conti in un eterno “domani”.
È difficile non rivedere in questo quadro la lunga stagione del Monte dei Paschi. Anche lì un territorio, Siena, trasformato in una cittadella del potere; anche lì una banca che non era una banca qualsiasi, ma la cassaforte di una classe dirigente, l’epicentro di un progetto politico locale che irradiava influenza fino a Roma. MPS aveva un peso di bilancio enorme nella provincia e nella regione, era la principale finanziatrice di iniziative culturali, sportive, sociali.
Era una banca che non concedeva solo credito: concedeva appartenenza. E proprio come la Banca Romana, fu travolta quando scelse di finanziare non lo sviluppo, ma l’apparenza dello sviluppo. L’operazione Antonveneta – pagata a un prezzo folle, quasi due volte il suo valore di mercato – fu l’equivalente contemporaneo di quei terreni romani degli anni Ottanta dell’Ottocento: un acquisto avventato mascherato da visione strategica.
La Banca Romana mostrò per prima quanto l’opacità economica possa essere alimentata dalla politica. Le prime ispezioni rivelarono le irregolarità già nel 1889. Gli ispettori trovarono una montagna di biglietti stampati illegalmente, un bilancio truccato, una gestione che aveva trasformato l’istituto in una fabbrica di denaro senza garanzie. E tuttavia il rapporto restò segreto. Nessun ministro volle affrontare la verità: mettere allo scoperto la voragine significava toccare uomini potenti, imprenditori legati ai partiti, giornali che campavano di finanziamenti sotterranei. Così la bomba venne lasciata a gorgogliare, come tante volte accade in Italia quando la politica preferisce convivere con il problema piuttosto che risolverlo.
È lo stesso silenzio che accompagnò MPS per anni. Un silenzio composto, rispettoso, quasi rituale. Il sistema creditizio italiano è sempre stato costruito su un equilibrio delicato: fondazioni, amministrazioni locali, banche, partiti. Un mosaico sottile ma potente. Le ispezioni di Bankitalia erano arrivate, gli allarmi interni c’erano stati, eppure tutto veniva letto come una normale oscillazione di mercato, nulla che non si potesse gestire con una buona comunicazione o con un aumento di capitale. Ma l’economia reale è più ostinata della retorica politica: i derivati Alexandria e Santorini, ideati per mascherare perdite, finirono per rivelare un sistema di gestione in cui l’apparenza contava più della sostanza.
Quando il crollo si fece inevitabile, la politica – proprio come nell’Ottocento – reagì tardi, male e soprattutto per salvare se stessa. Giolitti tentò di nominare Tanlongo senatore per evitargli il processo; più di un secolo dopo, i governi si passavano il dossier MPS come un peso radioattivo: nazionalizzazioni temporanee, ingressi dello Stato, commissariamenti, salvataggi che venivano definìti “tecnici” per non pronunciare la parola più temuta: fallimento.
Sul piano economico, entrambe le vicende raccontano la fragilità di un capitalismo che non riesce mai del tutto a emanciparsi dalla politica. La Banca Romana stampava moneta per sostenere il mercato immobiliare di Roma, ritenuto indispensabile per consolidare il ruolo della nuova capitale. MPS acquistava Antonveneta per consolidare un’identità bancaria che Siena e il suo sistema politico ritenevano irrinunciabile. In entrambi i casi, la banca divenne lo strumento di una missione che aveva poco a che fare con la razionalità economica e molto con l’immaginazione politica.
Quando lo scandalo della Banca Romana esplose definitivamente nel 1892 – con l’arresto di Tanlongo, la caduta del governo Giolitti, l’inizio di un processo che fece acqua da tutte le parti – l’Italia scoprì che la sua modernizzazione era stata costruita su fondamenta di sabbia. La nascita della Banca d’Italia fu un tentativo di porre rimedio: centralizzare il potere di emissione, creare una vigilanza seria, imporre disciplina a un sistema che aveva vissuto troppo a lungo in un limbo tra pubblico e privato. Ma il Paese imparò solo metà della lezione. Si mise ordine ai bilanci, ma non alla relazione perversa tra finanza e politica.
È per questo che un secolo dopo, quando il Monte dei Paschi iniziò la sua lunga caduta, tutto sembrò già scritto. La banca più antica del mondo, come la Banca Romana, era stata usata come strumento di consenso. I meccanismi erano diversi, gli strumenti più sofisticati, ma il cuore del problema era identico: un sistema bancario che, invece di creare ricchezza, la consumava per mantenere in piedi una costruzione politica che non poteva più reggere.
Oggi guardiamo allo scandalo della Banca Romana come a un pezzo di archeologia finanziaria. Ma a ben vedere, è solo il primo capitolo di una storia italiana che non accenna a ripetersi per caso: si ripete perché non abbiamo mai trovato il coraggio di troncare il cordone ombelicale che lega la politica al sistema del credito. Ogni volta una banca cade, ogni volta lo Stato interviene, ogni volta l’opinione pubblica scopre che qualcuno sapeva tutto e ha taciuto. E ogni volta ci si illude che la lezione sia stata imparata per sempre.
In realtà, come già 130 anni fa, la verità è semplice e implacabile: quando una banca diventa il braccio finanziario della politica, la caduta non è una possibilità. È una certezza. E non c’è riforma monetaria, né nazionalizzazione temporanea, né aumento di capitale che possa davvero impedirlo, se non si decide finalmente di separare ciò che l’Italia tiene unito da troppo tempo: il consenso e il credito, il voto e il denaro, la politica e la banca.
La lunga ombra del potere e la voce ostinata del giornalismo
Ai tempi della Banca Romana, quando i fascicoli compromettenti dormivano nei cassetti del Tesoro e gli ispettori erano invitati a ignorare le evidenze, a rompere il velo fu una stampa che non possedeva né i mezzi né l’autorità dei grandi giornali di oggi, ma aveva qualcosa di più prezioso: un’insistenza morale. Maffeo Pantaleoni, alla guida del Giornale degli Economisti, non poteva sapere che la relazione segreta che gli era capitata fra le mani avrebbe incendiato la scena politica. Eppure decise di non chiudere gli occhi. Era il tipo di giornalismo che non viveva della rapidità della notizia ma della lentezza del pensiero: un foglio specialistico, lontano dalle tirature dei quotidiani, che però aveva l’incomparabile libertà di non essere prigioniero né dei favori né delle clientele.
Intorno a lui si mosse la Roma agitata di fine secolo, dove La Tribuna di Luigi Roux e Attilio Luzzatto, giornale apertamente ostile al blocco governativo, regalava ai suoi lettori frammenti sempre più nitidi di una verità che il potere tentava di spegnere. E quando il quadro iniziò a rendersi comprensibile, fu la satira, con Il Don Chisciotte di Roma, a fare ciò che spesso la politica non osa: trasformare lo scandalo in simbolo, scolpirlo nella coscienza pubblica, mostrare Giolitti e Tanlongo come ladri colti sul fatto, non più come autorità intoccabili.
Non era un giornalismo perfetto, né immune agli schieramenti. Era un giornalismo schierato, certo, ma dalla parte del diritto a sapere, che è l’unico schieramento che conti davvero in una democrazia.
Eppure, più di un secolo dopo, quando il Monte dei Paschi cominciò a barcollare sotto il peso delle sue operazioni azzardate, la scena sembrò sorprendentemente familiare. Anche lì bilanci che non tornavano; anche lì dirigenti che compravano a peso d’oro ciò che il mercato non avrebbe mai valutato così; anche lì una rete di protezioni politiche, silenzi territoriali, reticenze istituzionali. E ancora una volta, la verità non venne dall’alto. Non arrivò dai comunicati della banca, né dalle autorità di vigilanza. Vennero dai giornalisti che fecero semplicemente ciò che una società moderna dovrebbe sempre pretendere da loro: fare domande.
Fu Il Fatto Quotidiano a svelare per primo che nel ventre di MPS si agitavano quei derivati chiamati Alexandria e Santorini, presentati come paracadute contabili ma in realtà nati per mascherare perdite. Carlo Di Foggia seguì passo passo l’ingranaggio storto della banca senese, come se stesse smontando un orologio svizzero per mostrarne i denti rovinati. E fu la Repubblica, con la ricostruzione di Carlo Bonini, a spiegare al grande pubblico l’assurdità dell’acquisto di Antonveneta: un prezzo due volte superiore al valore reale, come se qualcuno avesse deciso di comprare un appartamento fatiscente come fosse una villa sul mare. Ma fu forse Report, con il lavoro di Paolo Mondani, a compiere l’operazione più simile a ciò che fece la stampa della Roma ottocentesca: raccontare non la banca, ma il sistema. Il groviglio armonioso di poteri che faceva di Siena un feudo politico in cui la banca era insieme cassaforte, datore di lavoro, strumento di influenza, leva elettorale. Una struttura talmente complessa che nessuna inchiesta giudiziaria avrebbe potuto raccontare con la stessa chiarezza.
In entrambi i casi, ciò che la stampa fece non fu solo scoprire irregolarità. Fu restituire un senso collettivo a ciò che altrimenti sarebbe rimasto confinato nelle stanze dei tecnici. La Banca Romana non fu uno scandalo solo bancario, e MPS non fu solo una cattiva operazione finanziaria. Entrambi furono – e sono – racconti morali su come una comunità affronta il proprio rapporto con il potere. E in entrambi i casi, il potere reagì allo stesso modo: puntando il dito contro chi raccontava, accusando i giornalisti di creare allarme, di esagerare, di politicizzare la vicenda. Lo stesso ritornello da 130 anni.
Ma se oggi la storia della Banca Romana ci appare così limpida è perché qualcuno, quando la politica preferiva il silenzio, scelse la parola. E se oggi capiamo MPS non come un incidente ma come una fragilità strutturale del nostro sistema, è perché qualcuno si è fatto carico di rendere pubbliche le domande che gli altri non volevano ascoltare.
La verità è che non esiste alcuna differenza di sostanza tra il Pantaleoni che consegnava un dossier a Colajanni e un cronista di Report che mette insieme fonti e documenti mentre tutti gli dicono di lasciar perdere. Sono separati da un secolo, ma uniti dalla stessa convinzione: il potere non si controlla da solo. E le banche non crollano mai senza un sistema che prima decide di non vedere.
In Italia, la stampa libera non è mai stata soltanto un organo di informazione. È stata, nel bene e nel male, il primo vero strumento di vigilanza quando gli altri si inceppano. Senza quei giornali di opposizione nell’Ottocento, la Banca Romana sarebbe rimasta una nota a piè pagina. Senza i giornalisti che hanno scavato nel caso MPS, quell’ingranaggio storto avrebbe continuato a girare ancora per anni.
E questo è il vero parallelismo tra ieri e oggi: le banche cadono per errori tecnici, certo, ma la verità viene sempre a galla grazie a chi ha scelto di raccontare, nonostante tutto.
La nuova “Banca Romana”: quando il potere finanziario torna a divorare la politica
Dal caso Mps–Mediobanca all’Italia del 1893: il ritorno di un vecchio fantasma
La storia bancaria italiana sembra muoversi su un giradischi che cambia solo la velocità, ma non la melodia. Ogni volta che si riapre un grande dossier sul credito, riemergono gli stessi nodi irrisolti: intrecci tra finanza e politica, rapporti personali che pesano più delle norme, strategie di potere che superano di slancio i confini del mercato. È quello che accade oggi con l’indagine su Lovaglio, Milleri e Caltagirone nella scalata di Mps a Mediobanca. E per comprendere la portata profonda di ciò che sta accadendo, basta tornare al 1893, quando lo scandalo della Banca Romana mise a nudo un sistema dove la finanza dettava i tempi della politica. Un parallelo che oggi molti osservatori, tra cui Alessandro Volpi, ritengono tutt’altro che improprio.
Secondo la ricostruzione della magistratura, il punto centrale è verificare se Delfin e Caltagirone abbiano agito in modo coordinato e non dichiarato nell’operazione che ha permesso a Mps di conquistare Mediobanca. Una manovra che ha ridisegnato gli equilibri del credito italiano, spostando il baricentro verso un asse dove contano i grandi patrimoni privati, il capitalismo familiare e la finanza legata al mattone. In questo scenario, le autorità temono di trovarsi davanti a un mosaico di accordi opachi, simile – nella logica, se non nelle forme – a quello che un secolo fa avvolse la Banca Romana in un groviglio di favori, silenzi e protezioni incrociate.
È qui che la riflessione di Alessandro Volpi diventa particolarmente preziosa. Da anni sostiene che la finanza italiana stia vivendo una fase di “neo-costituzionalismo privato”, nella quale i grandi gruppi non si limitano a operare sul mercato, ma ne ridisegnano i confini, influenzando nomine, scelte industriali e perfino assetti politici. Per Volpi, la privatizzazione totale del credito ha creato un ecosistema in cui le banche hanno occupato il vuoto lasciato dallo Stato, trasformandosi in centri autonomi di potere. Un quadro che rende inevitabilmente fragili le authority, troppo lente e troppo burocratizzate di fronte a strategie raffinate, costruite da soggetti che operano in un regime di informazione asimmetrica.
Se guardiamo il risiko bancario con questi occhiali, l’operazione Mps–Mediobanca assume contorni ancora più profondi. Non si tratta solo di una fusione: è la competizione fra due idee di capitalismo italiano. Da una parte il tradizionale triangolo del Nord, con Mediobanca nel ruolo di regista dell’industria. Dall’altra un nuovo polo di potere, dove si incontrano capitali familiari, gruppi editoriali, finanza immobiliare e banche in cerca di legittimazione nazionale. In mezzo, il governo: che da un lato ha appoggiato la scalata attraverso il sostegno politico a Lovaglio, e dall’altro ha subito la bocciatura europea sul golden power, un segnale che Bruxelles non vede di buon occhio un eccessivo interventismo italiano in un settore estremamente sensibile.
Il risultato è un quadro dove l’Italia appare ancora una volta prigioniera del proprio irrisolto rapporto con la finanza. Secondo Volpi, il rischio più grande è la deriva “neofeudale”: quando poche famiglie economiche controllano credito, media, infrastrutture informative e capacità di condizionare la politica, la democrazia si restringe, diventa un recinto in cui gli attori istituzionali gestiscono procedure ma non potere reale. È un’analisi dura, ma difficilmente contestabile se si guarda alla traiettoria recente del nostro sistema bancario.
A fine Ottocento fu la stampa libera, in particolare La Tribuna, a squarciare il velo sugli scandali della Banca Romana. Oggi viviamo in un ecosistema informativo diverso, ma il ruolo del racconto pubblico resta decisivo. E non è un caso che lo stesso Volpi sottolinei spesso come la concentrazione editoriale – anche quella – sia una variabile chiave per capire perché certi poteri durano e altri cedono. Quando la finanza diventa proprietaria dei giornali e custode del credito, la politica si trova compressa in uno spazio angusto, e il cittadino in un labirinto senza uscite.
L’indagine su Mps–Mediobanca è, per ora, solo un’indagine. Ma è anche un promemoria severo: la storia bancaria italiana continua a ripetersi perché il Paese non ha mai risolto il suo nodo strutturale, quello di una finanza troppo vicina al potere e troppo lontana dalla trasparenza. Ancora una volta, come ai tempi della Banca Romana, la domanda non è chi ha vinto la partita, ma chi sta scrivendo le regole del gioco. E soprattutto: a chi conviene che restino sempre le stesse.







































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