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palermograd

Ricominciare da Keynes?

di Massimo D’Angelillo

Screen Shot 2014 08 23 at 12.08.19 PM.0.0Domenica 26 Novembre 2017 presso il Coworking Moltivolti di Palermo la redazione di PalermoGrad ha incontrato in un forum di discussione l’economista Massimo D’Angelillo. Abbiamo chiesto a Massimo, traendo spunto dai contenuti di un memorabile libro pubblicato insieme a Leonardo Paggi per Einaudi nel 1986, I comunisti italiani e il riformismo, delle ragioni storiche che hanno determinato la tragica deriva della sinistra che ha finito per abbracciare, culturalmente oltre che politicamente, le parole d’ordine dell’austerità liberista. A partire da questa ricostruzione storica, l’autore di La Germania e la crisi europea (Ombre corte, 2016) e di un saggio all’interno del volume collettaneo Rottamare Maastricht (DeriveApprodi, 2016), si è soffermato sulle cause della crisi economica del 2008, sui vincoli della moneta unica e dell’egemonia tedesca, sul declino italiano e sulle drammatiche condizioni del Mezzogiorno. Nel ringraziare D’Angelillo, pubblichiamo un suo contributo e ci auguriamo di collaborare con lui anche in futuro.

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Gli ultimi anni si sono contraddistinti per una stagnazione economica decennale, e allo stesso tempo per una singolare incapacità di comprendere le origini della crisi italiana, soprattutto da parte dello schieramento culturale e politico che è sempre stato fonte di visioni alternative allo status quo: la sinistra.

Tre volumi di recente pubblicazione hanno il merito di affrontare la questione di come, nel dispiegarsi della crisi, la voce della sinistra sia stata singolarmente debole.

In tutti i volumi aleggia il tema della subalternità culturale della sinistra, un tratto che viene da lontano, almeno dagli anni ’70.

La tesi del libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti (La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016) è in proposito chiara. La sinistra ha concorso attivamente al drammatico passaggio dai “Trenta anni Gloriosi” del dopoguerra a quelli che gli autori etichettano come i “Trenta anni pietosi”.

Al trentennio della grande crescita post-bellica e del rafforzamento delle posizioni dei lavoratori, propiziati da politiche keynesiane e dal riconoscimento del ruolo del sindacato, è succeduto così un lungo periodo di instabilità, crisi, impoverimento del lavoro, fino alla stagnazione e alla austerità dei giorni nostri.

Questa drammatica evoluzione è stata causata, secondo Barba e Pivetti, dal prevalere di politiche liberiste (privatizzazioni, contrazione del ruolo dello stato, tagli della spesa), a cui la sinistra ha prestato il suo attivo e acritico consenso, finendo per suicidarsi politicamente.

Fin dagli anni ’70 il PCI di Berlinguer e la CGIL di Lama e Trentin palesarono un vuoto ideologico; finirono per accettare la logica dei “sacrifici”, in nome di quella che fu esibita come una prova del senso di responsabilità nazionale del movimento operaio.

Solo qualche anno dopo, in Francia, la presidenza socialista di Mitterrand avrebbe rinnegato le sue prime misure riformiste e il programma di nazionalizzazioni che avevano determinato la vittoria elettorale, svoltando verso le politiche liberali di Rocard e Delors che a livello europeo avrebbero di lì a poco ispirato anche il Rapporto Delors (1988), base del futuro Trattato di Maastricht.

Furono esiti politici ed economici propiziati in modo determinante, secondo Barba e Pivetti, da un profondo mutamento avvenuto in quegli anni nella cultura francese, dove si verificarono un rigetto del tradizionale filone statalista di ascendenza colbertiana (Rosanvallon e la fondazione Saint-Simon), la svalutazione del ruolo della politica come strumento del cambiamento (con lo strutturalismo di Levi-Strauss), il confuso ribellismo di Jacques Derrida e le simpatie di Michel Foucault verso l’ordoliberalismo tedesco.

Questa miscela culturale avrebbe determinato, secondo gli autori, un profondo allontanamento da una visione keynesiana in cui lo Stato e non il mercato è l’attore primario dello sviluppo.

In epoche più recenti il filone ecologista e le idee pre-industriali di decrescita, autoproduzione e frugalità estrema dei consumi non avrebbero fatto che determinare un ulteriore allontanamento da quella visione.

Gli anni ’70 e la svolta delle politiche avvenute in quel periodo (caratterizzato dalla fine del sistema monetario di Bretton Woods nel 1971 e dalla crisi petrolifera del 1973), sono centrali anche negli altri due volumi.

Proprio in quel periodo, afferma Salvatore Biasco (Regole, Stato, uguaglianza, Luiss University Press, Roma, 2016), la destra liberista ha iniziato a elaborare nuove teorie che cercavano di smontare e indebolire il paradigma keynesiano fin lì dominante (a partire dal dopo crisi del ’29), sostenendo la flessibilità del lavoro come unica soluzione alla disoccupazione, la riduzione delle tasse come stimolo alla crescita, la necessità di smantellare lo stato sociale trasformatosi ormai (secondo questa visione) in un incentivo all’ozio e al tempo libero, piuttosto che alla crescita, la centralità del consumatore piuttosto che quella del cittadino e del lavoratore.

Il nuovo pensiero economico dominante (mainstream) teorizza come un mantra l’economia dell’offerta, piuttosto che quella keynesiana della domanda. Lo sviluppo economico, non dipenderebbe cioè da un sostegno dei consumi e degli investimenti, privati e pubblici, ma dalla pura efficienza dei fattori produttivi. Non a caso il Trattato europeo di Maastricht (1992) ritiene che la chiave per la competitività europea stia nella competizione tra i diversi paesi, oltre che tra le diverse imprese, attirate dalla flessibilità dei mercati e dalla libertà delle imprese di stabilirsi in qualunque paese membro della UE.

A questo nuovo apparato di pensiero, la sinistra non ha saputo rispondere adeguatamente, si è fatta prendere dall’entusiasmo per il mercato, la flessibilità e la finanza, abbandonando qualunque velleità di pensiero critico, ogni visione industriale e soprattutto l’idea di interpretare gli interessi dei lavoratori, favorendo come aveva fatto in passato una più equa distribuzione del reddito e la partecipazione dei cittadini alle decisioni.

In Italia le “lenzuolate” pro-mercato di Bersani sono forse state il momento più eloquente, mentre a livello europeo la cosiddetta Agenda di Lisbona, partorita nel 2000 da 15 governi di cui 13 di sinistra (da Schroeder a Blair a Prodi), ha bene evidenziato il vuoto culturale della sinistra europea, con un documento grondante di retorica per la flessibilità, il mercato e la competitività, che sarebbe stato smentito successivamente dai fatti, e soprattutto dalla grande crisi apertasi nel 2007, per la responsabilità non certo di un eccesso di vincoli e di tutele, ma al contrario di una finanza speculativa troppo libera di agire.

Oggi quindi, afferma Biasco, occorre ripartire ricostruendo un’alternativa culturale, basata su un pensiero economico nuovo, che non si rinchiuda nelle formule matematiche, ma sia fortemente tributario di altre discipline, quali la sociologia e la scienza politica.

A tale scopo non serve tanto una uscita dell’Euro (prospettiva illusoria che anzi, secondo Biasco, aprirebbe scenari disastrosi), quanto andare oltre la “austerità irresponsabile delle UE”, investendo in un grande piano di investimenti pubblici e introducendo forme efficaci di mutualizzazione del debito.

La tassazione deve ritornare ad essere una leva decisiva, con tributi nuovi (carbon tax, tassa sui movimenti finanziari come la Tobin Tax), una lotta a fondo contro la evasione fiscale internazionale e una accentuata progressività (altro quindi che Flat Tax per i miliardari, come deciso dal governo Gentiloni!). Le regolamentazioni dei mercati finanziari devono diventare più stringenti (sulle banche, sugli altri intermediari e sugli influenzatori del mercato, quali le agenzie di rating), onde evitare che si ripetano i disastri degli anni scorsi.

La sinistra deve ritornare ad avere un approccio anti oligarchico, favorendo i controlli sui soggetti più potenti e facendosi portatrice di istanze di politica industriale che favoriscano forme imprenditoriali e aggregazioni cooperative dal basso.

Che la sinistra italiana fosse impreparata culturalmente già negli anni ’70 è posizione condivisa anche da Sergio Cesaratto nel suo libro intitolato Sei lezioni di economia (Imprimatur, Reggio Emilia, 2016).

Se si pensa che negli anni ’60 il centro-sinistra aveva fatto riforme importanti (dalla riforma della scuola media fino alla nominatività dell’imposta sui titoli azionari), dice Cesaratto, colpisce che negli anni ’70, con il PCI al governo, tutto si interrompa e non si arrivi mai ad assetti di tipo socialdemocratico.

Il fatto è che quello del PCI, in cui dominava il moralismo nei confronti del benessere da parte di Enrico Berlinguer, non era un pensiero riformista, come dimostrarono di lì a poco le scelte sui sacrifici e sull’austerità.

Il PCI non ha mai avuto un economista dello spessore di Gunnar Myrdal, capace di ispirare le scelte della socialdemocrazia svedese. Il marxismo da cui proveniva il PCI si basava su una teoria del valore-lavoro che non funzionava (e di cui Piero Sraffa mostrò tutti i limiti), e che d’altra parte impediva di assimilare la lezione di Keynes. Dalla teoria del valore si dipartiva infatti la altrettanto sbagliata “Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto”, come base di previsioni circa una crisi inevitabile del capitalismo, che aveva impedito di vedere i fenomeni economici reali, illudendo generazioni di militanti su un imminente crollo del sistema, mai verificatosi.

Né la sinistra italiana ha mai assimilato quella che Cesaratto chiama la “rivoluzione copernicana” di Keynes, basata sul ribaltamento del nesso risparmi-investimenti: non sono i risparmi, quindi la riduzione dei consumi della popolazione (i “sacrifici” di Berlinguer) a potere rilanciare gli investimenti, ma gli investimenti, determinabili autonomamente mediante interventi di spesa pubblica, a produrre tramite effetti moltiplicativi una crescita economica complessiva, e quindi un innalzamento del livello tanto dei consumi quanto dei risparmi quanto del gettito fiscale.

Questi limiti culturali della sinistra non hanno fatto che determinare una sua assimilazione acritica della cultura economica mainstream, quella del marginalismo ottocentesco, rinnovato in epoca moderna dalle teorie di Milton Friedman, tra cui quella della teoria della disoccupazione volontaria.

I ricchi spunti di riflessione forniti dai tre volumi ora sommariamente sintetizzati meriterebbero ben altri approfondimenti rispetto alle brevi note che lo scrivente si limiterà a proporre di seguito.

È assolutamente condivisibile individuare una periodizzazione che faccia perno sulla crisi degli anni ’70, come passaggio da una sorte di “ordine americano” a un’epoca di disordine monetario, fino a sfociare a partire dagli anni ’90 in quello che oggi ci appare sempre più come un “ordine tedesco”.

La sinistra, che aveva saputo trovare una collocazione efficace all’interno di un contesto relativamente stabile come quello dei “Trenta anni Gloriosi”, in cui pur con differenze tra paesi si era attivato un proficuo “compromesso socialdemocratico”, in Italia gestito politicamente dapprima dal PSI e dalla sinistra democristiana, e poi da quest’ultima e dal PCI, oltre che dal sindacato (non solo la CGIL, ma anche la CISL), viene spiazzata dalla crisi e dalle scelte che la borghesia compie a livello nazionale e internazionale.

Vengono alla luce le conseguenze di una insufficiente riflessione sul marxismo economico, quale la socialdemocrazia tedesca aveva affrontato a Bad Godesberg nel 1959, ma anche, come dicono giustamente alcuni dei nostri autori, la mancata assimilazione della grande lezione keynesiana.

Ricordiamo a tale proposito l’insulto (“simbionese di Lotta Continua”) che Giancarlo Pajetta lanciò addosso proprio a Massimo Pivetti (e Giancarlo De Vivo), che nel loro intervento al convegno del CESPE del 1976 avevano osato criticare le scelte deflattive del governo di solidarietà nazionale, da una prospettiva keynesiana.

Materia del contendere allora era come elaborare una strategia per uscire dalla crisi preservando gli interessi dei lavoratori, e partecipando alla costruzione di nuovi assetti internazionali, anche prendendo in considerazione soluzioni quali il controllo delle importazioni da parte di un paese come l’Italia.

La sicumera di Pajetta e dell’intero PCI di allora portarono invece diritti a scelte economiche che avrebbero senz’altro contribuito a debellare l’inflazione, ma allo stesso tempo a deflazionare l’economia e ridimensionare drasticamente il ruolo del movimento dei lavoratori, con lo stesso PCI che andò di lì a poco incontro a una disfatta elettorale e alla vera e propria cacciata dall’area di governo.

Stava prendendo corpo una soluzione alla crisi che avrebbe portato, passo dopo passo, a quell’“ordine tedesco” (inteso come insieme di regole imposte dalla Germania all’Europa) in cui ci troviamo immersi oggi, e in cui l’Italia ha accettato regole che hanno strangolato progressivamente il suo apparato produttivo (la "scomparsa della Italia industriale", come la chiamò Luciano Gallino), con drammatiche conseguenze per i lavoratori.

In questo senso ritengo che nessuno dei tre contributi abbia dato l’opportuno risalto ai lineamenti di questo ordine tedesco, che non può assolutamente essere visto come un ordine liberista classico, quale lo avevano immaginato un Reagan, una Thatcher, o sul piano teorico un economista come Milton Friedman.

L’architettura dell’Euro, le politiche della UE, la stessa organizzazione economica della Germania, sono una costruzione complessa (potremmo forse chiamarla “gotica”), in cui si mescolano un rifiuto di politiche classicamente keynesiane (evidente nei parametri di Maastricht), la ricerca della stabilità monetaria in un contesto di globalizzazione, una esaltazione delle virtù delle esportazioni ottenute mediante una accresciuta competitività, il mantenimento (almeno in Germania) di elevati livelli di protezione sociale e di investimento sulla ricerca e sull’istruzione.

​La sinistra si è trovata impreparata a misurarsi su questo terreno complesso; in fondo, ciò che determinò la sconfitta di Mitterrand non furono tanto correnti di pensiero alternativo (senza negare l’influenza dei pensatori citati), quanto il fallimento di un esperimento di “keynesismo in un solo paese”, che si scontrò con un deficit commerciale dilatatosi rapidamente per l’incremento delle importazioni dovuto alle politiche espansive.

È indubbio, come dice Sergio Cesaratto, che il vecchio marxismo si sia rivelato inadeguato. Era stato fondamentale nel creare nel movimento operaio la consapevolezza dei rapporti capitalistici e della potenziale forza dei lavoratori.

Mancando però di una macroeconomia, fin dagli anni ’20 il marxismo aveva reso la socialdemocrazia tedesca incapace di comprendere le cause della disoccupazione di massa, e di elaborare politiche di rilancio, aprendo la strada al crollo della Repubblica di Weimar e all’avvento del nazismo.

L’invenzione della macroeconomia da parte di Keynes consentì invece di concepire nuove soluzioni, di predisporre soluzioni per gestire il ciclo economico, di pilotare il mondo fuori dalla crisi del ’29 e di sostenere dopo la guerra lo sviluppo dei “Trenta anni gloriosi”.

Anche il keynesismo, fin dalla sconfitta di Mitterrand, si rivelò però insufficiente in un contesto sempre più internazionalizzato, in cui la competizione vedeva coinvolti nuovi protagonisti come i paesi petroliferi e i BRICS.

Oggi quindi, se si accetta il giusto invito di Salvatore Biasco a ricostruire un’alternativa culturale, basata su un pensiero economico nuovo, occorre sfuggire alla semplice identificazione della sinistra con le politiche keynesiane della domanda, e della destra con le politiche liberiste dell’offerta.

Nelle equazioni sinistra=domanda e destra=offerta c’è tanto di vero. Tuttavia, così come l’offensiva conservatrice contiene un mix complesso di politiche che attraversano tanto il piano della domanda quanto quello dell’offerta, così la sinistra dovrebbe rifondare una cultura consapevole dei limiti delle sole politiche della domanda, e delle potenzialità di determinate politiche dell’offerta.

Obiettivo primario della sinistra è quello di perseguire una società più giusta, promuovendo una redistribuzione il più possibile egualitaria dei redditi. Essa è quindi vitalmente interessata a concetti keynesiani quali l’obiettivo della piena occupazione e il ruolo attivo dello Stato nella promozione della crescita; d’altra parte non può lasciare alla destra temi cruciali che riguardano il lato della offerta, quali l’istruzione e la formazione dei lavoratori (un lavoratore istruito contribuisce alla produttività dell’azienda e del paese), l’innovazione tecnologica, le regole di governo delle aziende, gli assetti bancari, il ruolo di ceti sociali non riconducibili alla classe operaia o comunque al tradizionale lavoro dipendente.

Una economia dell’offerta di sinistra può validamente affiancarsi a una politica keynesiana della domanda.

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