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lafionda

Il Digital services act. Addio articolo 21 della Costituzione?

di Carlo Magnani

Digital Services Act MisterGadget Tech.jpgIl 25 agosto è entrato in vigore il Digital Services Act, per ora per le piattaforme online più grandi (quelle con più di 45 milioni di utenti), sino a che sarà applicabile a tutti gli operatori di servizi online a partire dal 17 febbraio 2024. I soggetti interessati sono tutti gli intermediari online, i motori di ricerca e le piattaforme di comunicazione sociale (mercati online, social network, piattaforme di condivisione di contenuti, app store e piattaforme di viaggio e alloggio online) che saranno soggetti a obblighi specifici e crescenti in ragione della dimensione della impresa.

Tanto i lavori preparatori di adozione che l’entrata in vigore sono stati accompagnati da una enfasi – la solita, quando si tratta di prodotti confezionati dalla Unione europea – che non ha lesinato toni entusiastici ed euforici. Finalmente nuove regole e nuovi diritti sul web, maggiore tutela per gli utenti per ciò che attiene la protezione da contenuti illegali (terrorismo, pornografia, truffe online, vendita prodotti pericolosi), dall’incitamento all’odio (ovviamente, immancabile), ma anche da contenuti non illegali ma qualificati come dannosi (la disinformazione).

Il metodo prescelto per attuare tali regole – che rimandano comunque alle legislazioni nazionali per ciò che va considerato illegale, cioè penalmente o amministrativamente rilevante – è quello della co-regolamentazione. Quindi, non una vigilanza esterna da parte di soggetti istituzionali terzi, ma il coinvolgimento diretto delle piattaforme attraverso procedure concertate con organismi tecnici dipendenti direttamente dalla Commissione europea.

Il sistema delle competenze, come nella migliore tradizione del diritto europeo, è complesso e strutturato su due livelli, ma con una evidente asimmetria a favore di quello europeo rispetto a quello statale. Sul piano statale opereranno i «coordinatori dei servizi digitali», ad esempio nel nostro ordinamento tale ruolo verrà svolto dall’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). A livello europeo, invece, un ruolo centrale spetta direttamente alla Commissione europea che avrà competenza di vigilanza e di esecuzione del DSA sulle piattaforme più grandi, quelle in pratica più usate (art. 56). Il regolamento, individua però a proposito una nuova struttura, che sta per venire in essere, denominata “Comitato europeo per i servizi digitali”, che opererà come «gruppo consultivo indipendente di coordinatori dei servizi digitali per la vigilanza sui prestatori di servizi intermediari, e che sarà composto «da coordinatori dei servizi digitali rappresentati da funzionari di alto livello» designati dagli Stati membri (artt. 61 e 62). La Commissione si avvarrà quindi dei pareri espressi da tale Comitato, che costituirà anche la sede ove i delegati dei coordinatori nazionali potranno fare sentire la loro voce: anche se si tratta sempre di alti funzionari.

Questo è il lato del potere pubblico. Ma il metodo della co-regolamentazione prevede competenze e funzioni assegnate anche ai grandi poteri privati del web, i “baroni del digitale”. Il DSA rappresenta da questo punto di vista il perfezionamento di una strategia politica che è stata inaugurata nel 2015 per il contrasto ai discorsi d’odio e poi per la lotta alla disinformazione.

Rispetto a una prima fase contrassegnata da un certo laissez faire, ispirato vuoi da motivi ideologici (la utopica promessa di una nuova libertà globale) , vuoi da motivi tecnici (la difficoltà di individuare regole per un fenomeno tecnologicamente complesso e transnazionale), e vuoi, infine, per motivi economici (garantire margini di sviluppo a una realtà con un impatto di grande innovazione economica e sociale), si è gradualmente transitati verso politiche regolative che hanno relativizzato il regime non responsabilità giuridica delle piattaforme per ciò che gli utenti diffondevano tramite esse. L’Unione europea è l’ordinamento nel quale tale mutamento di orizzonte è stato più marcato, negli Usa non è così, in ragione di un’altra tradizione giuridica sulle libertà dei privati. Muovendo dalla celebre sentenza Google Spain della Corte di Giustizia Ue, passando poi dai regolamenti per tutelare il diritto d’autore e i dati personali e dalla direttiva sui servizi di media audiovisivi, nonché dai codici di condotta sul contrasto ai discorsi d’odio e alla disinformazione, per giungere infine al regolamenti sui servizi digitali (Digital services act, appunto) e sui mercati digitali (Digital markets act), è rinvenibile una politica regolatoria delle istituzioni europee che mira oggettivamente a richiedere alle grandi piattaforme alcuni oneri e obblighi, nel senso di una loro responsabilizzazione. Il DSA è per certi versi il compimento più maturo di questa politica del digitale, tutta centrata su procedure co-regolamentate e delegate alle grandi piattaforme del web. Si prevedono infatti per i soggetti più grandi, obblighi di: relazioni dettagliate sull’attività di moderazione dei contenuti (art. 15); disciplina più stringente dei meccanismi di notice and take down (art. 16); rafforzamento delle motivazioni per rimuovere disabilitare o accesso ai contenuti (art. 17); implementazione sistemi di gestione dei reclami degli utenti (art. 20); obbligo per le piattaforme di comunicare alle autorità dello Stato le informazioni di cui siano venute a conoscenza relative a gravi delitti consumati o tentati (art. 18).

Tutto bene dunque? Nuovi diritti per i cittadini? Non proprio. Alla base vi sono questioni di difficile soluzione, che concernono la natura giuridica dei soggetti coinvolti dalle istituzioni pubbliche. In primo luogo, che cosa sono le grandi piattaforme del web: poteri privati o soggetti che esercitano una funzione pubblica? O altro ancora? E inoltre. Se la premessa è l’eccesso di potere dei baroni del digitale, i c.d. Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), siamo sicuri che coinvolgerli direttamente nella vigilanza del discorso pubblico costituisca davvero un limite a tale potere e non equivalga invece ad accrescerlo? Il contratto con il quale l’utente usufruisce dei servizi digitali rischia di trasformarsi in un atto di delega, alle compagnie del web, del controllo su alcuni diritti di rango costituzionale. Si può certamente comprendere come taluni profili di interventismo delle Big Companies di Internet abbia ragione di sussistere per le comunicazioni commerciali, per le offerte cioè di beni o servizi, o per quel tipo di comunicazione palesemente illegale perché rimandante a profili della legislazione penale degli Stati membri. Il punto, però, è che il DSA si occupa anche di tutti quei contenuti che costituiscono la mera espressione del proprio pensiero, cioè di una delle libertà costituzionali fondanti dall’Illuminismo in poi l’identità della società civile europea e non solo. La vigilanza, infatti, riguarda sia i contenuti illegali (contrari alle legislazioni nazionali, che dovrebbero anche includere «l’illecito incitamento all’odio o i contenuti terroristici illegali e i contenuti discriminatori illegali, o che le norme applicabili rendono illegali in considerazione del fatto che riguardano attività illegali», Art. 3, e, considerando n.12) che i contenuti leciti ma definiti dannosi, cioè la disinformazione. La determinazione di tale fattispecie non è contenuta nel DSA, rinviando quindi a tutta una serie di atti di soft law della Commissione, che sinora, pur con una certa evoluzione espansiva, hanno mantenuto una definizione sostanzialmente riassumibile nella «diffusione intenzionale di contenuti non veritieri che pur non essendo illegali sono dannosi, per la salute, l’ambiente, per la sicurezza, per la democrazia, quale ingerenza di stati esteri, escludendo comunque gli errori, la satira e la parodia, i commenti chiaramente faziosi» (si veda, tra gli altri, Commissione europea, Comunicazione, Orientamenti della Commissione europea sul rafforzamento del codice di buone pratiche sulla disinformazione).

La precisa individuazione delle due tipologie non è comunque affatto agevole. Si tratta di un processo decisamente complesso che chiama in causa valutazioni soggettive chiaramente influenzate dalla cultura o dalla ideologia del valutatore. E, inoltre, sorge un quesito non proprio secondario: chi è, appunto, che reputa la reputazione di una informazione? E ancora: chi reputa i “reputatori”? Le politiche di coregolamentazione prevedono che siano le grandi piattaforme a controllare e a verificare le informazioni, avvalendosi anche di soggetti esterni (i cosiddetti Third-Party Fact-checker, scelti dalla medesima piattaforma) accreditati (a livello associativo internazionale) perché indipendenti e professionalmente autorevoli. Ma, quis iudicabit? In sintesi: il decisore pubblico adotta delle politiche limitative di diritti fondamentali delegandone però l’attuazione a soggetti privati, i quali, a loro volta, per l’implementazione individuano altri soggetti esecutivi. Il tutto rischia di tradursi in una sorta di censura privata amministrativa sulla libertà di informazione dei cittadini. La pandemia, e non ce ne era certo bisogno visto il rapporto tra potere politico e media, ha mostrato casi di influenze governative su tali processi valutativi: lo scandalo Twitt-files sollevato dalla “nuova gestione” di Musk, e, la pronuncia della Corte della V Circoscrizione del Mossouri che ha accolto il ricorso di alcuni scienziati condannando Casa Bianca, FBI e CDC per violazione del Primo Emendamento, viste le pressioni esercitate per far declassare a “fake news” e oscurare dai social le loro opinioni.

Siamo di fronte a una modalità di controllo del discorso pubblico, che oggi si svolge soprattutto sui nuovi media social, del tutto inedito per la tradizione costituzionale. Provvedimenti amministrativi senza forza di legge deliberati da organismi sovranazionali, richiamati da altre fonti, definiscono la disinformazione pretendendo di costituire un limite alla libertà di espressione: vi è una sostanziale incertezza sulla natura di tali imposizioni, ma siamo di certo al di fuori della riserva di legge su cui si basa il disposto garantista previsto dall’art. 21 Cost. Gli Stati risultano di fatto espropriati da ogni possibilità di intervento autonomo, i Parlamenti elettivi esautorati dall’apparato amministrativo della Ue: la legge ormai è uno strumento inutile. La medesima applicazione di tale vaporoso e astratto limite non spetta, poi, a poteri indipendenti come la magistratura, ma è affidata ai medesimi proprietari (o loro delegati) del mezzo di informazione: anche questo è un vulnus al modello costituzionale. Lo stesso richiamo a una nozione di verità oggettiva, così centrale nelle politiche sovranazionali e statali per il contrasto alla disinformazione, fa emergere «significative variazioni funzionali rispetto alla configurazione classica del rapporto tra libertà di comunicazione e garanzia della tutela costituzionale» (V. Baldini, Dinamiche della trasformazione costituzionale, Bari, 2023, 126 ss.). Come se le principali questioni che si affrontano nel dibattito pubblico possano essere ridotte alla dimensione di puro fatto auto-evidente di cui acclarare o meno l’autenticità: con conseguente delegittimazione di chi la pensa diversamente, subito bollato e additato come indegno di prendere la parola.

La realtà dei nuovi media è complessa e tanti sono i profili coinvolti, ma un contesto mediatico nel quale i proprietari del mezzo sono anche i controllori dei contenuti, su delega del potere politico, rappresenta qualcosa di davvero anomalo. La funzione oppositiva della libertà di parola sfuma rinchiusa dentro codici di condotta e modelli di contratto prestabiliti. Il modello della tradizione costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero è entrato in una fase di forte sofferenza e di alterazione, di cui i nuovi media sono la prova. E si tratta di un paradigma che si estende ad altre libertà costituzionali attraverso il metodo emergenziale. Si parte dalla evocazione di una situazione di pericolo e il contenuto della libertà viene sottoposto a torsione grazie a politiche europee che calano dall’alto della burocrazia degli esperti: da diritti della persona si sta transitando verso una dimensione funzionale delle libertà, dove l’esercizio è limitato al conseguimento di obiettivi di (presunto) interesse generale.

Chiaramente tutto nel nome del progressismo. Applausi dalla sinistra liberale. Quella “radicale” non pervenuta: disinteresse per le libertà borghesi? Impegnati nella lotta al fascismo? O sarà in corso la gloriosa “analisi di classe”?

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